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Gabriele Di Luca

Südtirol e “fine della storia”

Una fiaba sulla rappresentazione del contrasto etnico

“Tutte le mattine dobbiamo farci largo tra i morti

detriti per poter giungere al vivo, caldo nucleo.”

(Ludwig Wittgenstein)

1. Il contadino diventa filosofo

“Südtirol steht am Ende der Geschichte. Und am Beginn der Zukunft”. Ecco una sentenza che, nel tentativo di misurare e scandire qualcosa di proteiforme (il tempo, la storia), ottiene un effetto decisamente smisurato (smisuratamente comico, a prima vista). Eppure queste parole sono state realmente pronunciate, supponiamo col dovuto pathos, in un’occasione che non prevedeva probabilmente alcun ricorso al registro comico: Luis Durnwalder, presentendando all’assemblea consiliare il programma della nuova legislatura, le ha scandite senza apparente inibizione o ironia­. Abituato a riconoscersi (e a essere riconosciuto) nell’immagine del politico sagace e pragmatico, il Presidente, il Landeshauptmann, ha qui dismesso i panni tellurici del “contadino” per indossare quelli aerei del “filosofo”; anzi: del filosofo della storia. Il pensiero corre qui alla celebre lettera di Machiavelli a Francesco Vettori, nella quale il segretario fiorentino scrisse:

“Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio di quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni rea­li et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto morevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte: tucto mi trasferisco in loro” (Machiavelli 1513).

È probabile però che l’arcaico e paludato modello non basti a chiarire la situazione, questo insolito cambio d’abiti. Proviamo perciò a ricostruirne brevemente il contesto.

2. Terminus a quo

La ricostruzione del contesto nel quale quella sentenza è stata pronunciata smorza un po’ il pathos solenne al quale il contenuto, di per sé, rimanda. Ecco come il sito d’informazione dell’Athesia (www.stol.it) ne ha pubblicato la notizia martedì 16 dicembre 2008, riportando alcune frasi dello stesso Durnwalder:

“Südtirol musste in den vergangenen 16 Jahren eine Entwicklung auf- und nachholen, für die andere Länder sehr viel mehr Zeit hatten. Wir haben Südtirol im Zeitraffer entwickelt, vielfach sind wir deshalb Großbaumeister genannt worden. Kritiker haben uns auch als Betonierer betitelt. Wir haben die Hardware für ein wettbewerbsfähiges Südtirol entwickelt. Nun sei das Aufholprogramm abgeschlossen. Südtirol ist wettbewerbsfähig, wir haben die Hardware für ein wettbewerbsfähiges Südtirol entwickelt, nun liege es an den Südtirolern selbst, was sie aus ihrem Land, ihrer Zukunft machen. Es geht, wenn Sie so wollen, in Zukunft in allen Bereichen mehr um die Soft- als um die Hardware. Die Menschen stärker in den Mittelpunkt zu stellen, heiße aber auch, die Menschen wieder mehr in die Verantwortung zu nehmen, ihnen mehr Spielraum einzuräumen, ihre Kreativität anzukurbeln.”

Il tempo che dunque sarebbe “finito” non sarebbe quello della “storia universale”, non vorrebbe disporre lo sguardo ad abbracciare remote “morte stagioni”; si riferirebbe piuttosto banalmente agli ultimi “sedici anni” di vita della Provincia Autonoma di Bolzano, facendo del 1992 il terminus a quo di uno sviluppo che adesso – ma perché proprio adesso? – si vorrebbe in qualche modo – ma in che modo? – terminato.

Come è noto, il 1992 è però l’anno che segna la conclusione, davanti alle Nazioni Unite, della controversia tra Italia e Austria sulla cosiddetta “questione” altoatesina/sudtirolese (Di Michele/Palermo/Pallaver 2003). Una data che può essere letta anche come terminus ad quem di una vicenda cominciata in realtà almeno settantatré anni prima, con la firma del Trattato di Saint Germain e il conseguente passaggio del Tirolo meridionale sotto l’“aborrita” (tuttora aborrita) sovranità italiana.

Tra quella data (10 settembre 1919) e l’altra (19 giugno 1992, dopo che l’11 giugno il governo federale austriaco aveva rilasciato la quietanza liberatoria, die Streitbeilegungserklärung), si dispiegano propriamente le vicende riassumibili in uno schema formalmente completo: inizio, svolgimento e fine (anzi: lieto-fine, happy-end). Non sarebbe dunque stato il caso di retrodatare proprio al 1992 la data d’inizio della post-storia sudtirolese, riservando al periodo successivo (1992 – 2008) una più sobria considerazione d’epoca di transizione verso qualcosa di non meglio precisato?

3. Forse Durnwalder aveva in mente proprio quello

Ma forse Durnwalder aveva in mente proprio quello. Non ancora perfettamente a suo agio nei panni recentemente indossati (il vocabolario filosofico, si sa, non è molto maneggevole), il richiamo alla “fine della storia” allude agli effetti del consolidamento autonomistico verificatosi dopo il 1992 e li puntualizza (il 2008 come suggello del 1992 e, sul piano personale, l’incipit dell’ultima legislatura da lui presieduta) alla luce dei segni più tangibili di questo sviluppo: parlando di hardware, il Landeshauptmann allude chiaramente a quanto di buono e di solido è stato costruito, agli edifici, alle strutture e alle infrastrutture che manifestano il potere e la potenza dell’amministrazione locale, riservandosi così d’investire adesso nel capitale umano (il software) che dovrà completare il passaggio verso il “futuro”. “Südtirol steht am Beginn der Zukunft”, per l’appunto, un futuro da modellare attraverso una maggiore iniziativa individuale, pensando esplicitamente alle nuove generazioni e puntando sulle qualità “umane” che non possono essere plasmate (è evidente) se non poggiando bene i piedi su una “terra” (filosoficamente: un’autocoscienza) pienamente riconquistata.

4. Filosofia della storia in Südtirol?

Poniamo però una questione più generale: è possibile applicare il linguaggio della filosofia della storia alle vicende altoatesine/sudtirolesi? È possibile cioè riattualizzare (magari solo per divertimento) una modalità di considerare gli eventi inaugurata (come ci informano i filosofi, quelli veri) dallo storico greco Polibio, nel II secolo a. C., e una teorizzazione che postuli la convergenza di molteplici e accidentali particolari nel quadro di un’unica e orientata “storia universale” (Bodei 1997)? Ovviamente no. E neppure l’accostamento o l’assonanza di espressioni quali “am Ende der Geschichte” e “End of History” (il fortunato titolo di Francis Fukuyama è di certo alla base della formula utilizzata da Durnwalder, senza per questo implicarne una citazione esplicita o la conoscenza diretta) possono convincerci che per comprendere che cosa sia accaduto, che cosa accada e che cosa accadrà tra il Brennero e Salorno sia utile andare a rileggersi Alexandre Kojève o addirittura la Phänomenologie des Geistes e le Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte di Hegel.1 Tuttavia, la suggestione della formula e l’invincibile tendenza a considerare le nostre così ristrette vicende alla stregua di un microcosmo autocentrato, non estinguono la tentazione di sottoporre a una prova ermeneutica il corso di questi anni, abbozzando davvero l’idea di un movimento complessivo, con le sue cesure e i suoi mutamenti, tanto da rendere affascinante l’idea di una dinamica storica drammatizzabile in un méta-récit.2 Durnwalder – un po’ impropriamente, come visto – ci ha provato parlando di hardware e di software: ma questi due termini non costituiscono una scansione dialettica, non rimandano cioè a un confronto tra posizioni che – opponendosi e superandosi a vicenda – potrebbero realmente farci comprendere il senso di una Bewegung epocale. Piuttosto, è singolare che nel messaggio del Landeshauptmann non risuoni più il Leitmotiv senza il quale, propriamente, non risulterebbe possibile neppure avvistare il contorno del Sudtirolo così come noi lo conosciamo. Questo “rimosso”, questo “motore” della storia sudtirolese posto a riposo nel cuore di una macchina esibita adesso come perfettamente funzionante, è esattamente ancora il tema dal quale occorre ripartire per circoscrivere almeno il “punto” nel quale noi sostiamo.3 Il “rimosso” del quale parlo – occorre dirlo? – è costituito dal cosiddetto contrasto etnico, o meglio dalla sua rappresentazione.4

5. La rappresentazione del contrasto etnico

L’intera storia del Sudtirolo, almeno a partire da quando la regione così denominata fu staccata dal grembo del suo Vaterland, può essere descritta nei termini di una lenta evaporazione di un contrasto solido, duro, apertosi tra il gruppo linguistico tedesco e quello italiano, verso uno stato di sospensione opalescente, costituito dalla sua mera rappresentazione. Facendo leva sull’anno che ha segnato la conclusione diplomatica della questione altoatesina/sudtirolese (1992), si potrebbe forse addirittura parlare di un’evoluzione capace di traghettare questa piccola isola dai mari perigliosi di un’epoca dichiaratamente storica (e perciò satura di accadimenti) a un presente fatto di placida contemplazione e rimembranza di quel che è stato, congiunto al continente ancora inesplorato della sua (e dunque della nostra) post-storia.

Evocando però il concetto della “post-storia” bisogna cercare di non commettere l’errore di considerare quanto adesso risulta visibile alla stregua di un progresso che ha definitivamente cancellato i passi compiuti per manifestarlo. È piuttosto vero il contrario ed è esattamente penetrando il meccanismo d’ipostatizzazione attivo nelle strutture profonde dell’autonomia – la cornice istituzionale grazie alla quale sono state disinnescate le principali minacce rivolte contro la convivenza – che risulta possibile comprendere pienamente il motivo della rappresentazione esalata dall’estinzione del contrasto vero e proprio, ovvero la sua forma attuale e la sua codificazione perenne.5

Che l’autonomia (per come è stata concepita, per il tipo di problemi ai quali era chiamata a rispondere) non possa di fatto essere vista come un mezzo atto alla soluzione definitiva del contrasto etnico (al suo “superamento”) dipende certamente dalla sua impostazione, che non concerne infatti una messa in questione del dato “etnico” di partenza, in quanto tale, bensì opera esclusivamente al fine di regolare, e dunque ridurre, le occasioni di scontro e di frizione che potrebbero subentrare in un regime di libertà effettiva. Questo ha però come conseguenza sia la solidificazione dei rapporti tra i gruppi linguistici (assunti come entità meta-storiche e in un certo senso “eterne”), sia il congelamento della dialettica democratica entro limiti che non possono essere trascesi, perché ogni ipotesi di cambiamento rischierebbe di strappare la rete di norme posta a protezione della (presunta) sussistenza dei singoli gruppi.

È esattamente a questo livello, a partire dall’intrascendibilità del suo orizzonte, che l’autonomia è costretta così ad appoggiarsi indefinitamente alla riproposizione allusiva del ventaglio di occasioni che ne hanno determinato il raggio d’intervento. E in mancanza di ciò (beninteso: mancanza da rubricare senza dubbio tra i successi della sua strategia) è l’estensione di una superficie atta alla perpetua (sebbene intermittente e spesso pretestuosa) rappresentazione o alla ripetizione immaginaria dei suoi momenti costitutivi a dominare l’intero spazio della pensabilità sociale, culturale e infine della dinamica politica, o anche soltanto polemica, alla quale siamo invariabilmente consegnati. Questa superficie avvolgente e pervasiva si comporta come un’interpunzione calata in ogni nostra possibile frase, divide ogni narrazione in ambiti già da sempre orientati alla legittimazione del suo impianto di base, fissa la mobilità, intrinseca a ogni destino individuale, al giogo di un’identità collettiva, da molti ritenuta più vera e più intima della stessa identità personale. In altre parole, non offre alcuna via d’uscita dal cerchio di una provenienza intesa come sempre “di là da venire”: passato più futuro di ogni possibile futuro.

Chi non vuole arrendersi all’idea di una simile ineluttabilità, tenderà forse a osservare che, nonostante il raggelamento appena descritto, al di sotto dello strato di racconti e di interpretazioni ricorrenti che noi possiamo imbastire a proposito della realtà in cui viviamo, una mutazione innegabile (e in positivo) delle condizioni di partenza non potrà che portare all’estenuazione del fascino di quei racconti e di quelle interpretazioni, sottraendo dunque anche spazio alla rappresentazione della loro immodificabilità (a una rappresentazione che non ammette modificazioni). Ma affinché ciò accada bisognerebbe comunque che si realizzassero due eventi concomitanti, attualmente molto difficili da immaginare: in primo luogo un mutamento radicale della mentalità e del sentire comuni, un mutamento cioè capace di contestare il predominio della rappresentazione del conflitto etnico attraverso una rappresentazione alternativa, non più invischiata nella logica oppositoria (“noi” vs “gli altri”) che per adesso continua a informare di sé la gran parte del discorso pubblico sudtirolese; inoltre, e contestualmente, occorrerebbe che qualcuno cominciasse a ritenere plausibile sottoporre a una revisione priva di remore anche l’assetto autonomistico, considerandolo non più come il termine definitivo e perentorio di ogni nostra ipotesi comunitaria, ma semplicemente come il punto di partenza o la piattaforma di lancio per un progetto territoriale completamente innovativo. Come detto, è inutile negare che tanto la prima, quanto la seconda di queste mutazioni siano ancora – per dirlo con una bella espressione tedesca – Zukunftsmusik.

Piuttosto, se riportiamo lo sguardo da questo scenario utopistico alle circostanze nelle quali tuttora ci troviamo, si danno effettivamente soltanto due modalità per abitare dignitosamente la rappresentazione del conflitto etnico, che sembra assorbire tutto quello che è dicibile. La prima, praticata da molti, consiste nell’abbandonarci ad essa, non coltivando troppa speranza di un suo prossimo dissolvimento, ma cercando di vivere con ironia e perfino con divertimento la sua piega irreale, come se insomma si trattasse di uno spettacolo o un gioco al quale non è possibile sottrarsi se non intendendolo appunto come un gioco (e all’occorrenza dichiarandosi disposti a non giocare più, a lasciare che giochino gli altri e dedicandosi ad altro, almeno in quegli ambiti dove la rappresentazione gira per così dire “a vuoto” o “s’inceppa”). La seconda, più difficile, ma forse più affine a chi non voglia rinunciare a esprimere pensieri critici, consiste nell’elaborazione di una particolare tecnica “decostruttiva” da applicare alla trama narrativa del conflitto, per evidenziare ciò che precede e colloca le sue linee di frattura: non muovendoci quindi più su un solo lato della scacchiera, ma cercando di trattenerci sempre al centro, fra le linee, anzi sulla mobile linea di confine che produce e ritaglia le “diverse” posizioni. Se mai un “altro Sudtirolo” potrà nascere è da qui che può nascere.

Appendice: Enrico De Zordo, Sudtirolo ideale eterno.
Il conflitto etnico ben temperato vent’anni dopo6

Qualche anno fa avremmo scritto: “Il contrasto etnico è la parola parlata dell’autonomia”. Oppure, non senza un briciolo di vanità: “L’autonomia è la grammatica profonda del contrasto etnico”. Oggi dobbiamo dire qualcosa di diverso: la Provincia Autonoma di Bolzano non è fondata sul contrasto etnico, bensì sulla sua rappresentazione pubblica.

La rappresentazione del contrasto etnico non sostituisce la realtà della separazione (non la nega), ma serve a giustificarla: essa è precisamente quella regione dell’immaginario collettivo entro la quale la realtà della separazione appare pietrificata e dunque insostituibile.

Il contrasto etnico, destinato in condizioni normali ad affievolirsi e infine a estinguersi, viene tenuto in vita, e in alcuni casi letteralmente inventato, dalla sua continua rappresentazione. Parafrasando Slavoj ŽiŽek, si potrebbe anche dire che “qualcosa (la rappresentazione pubblica del contrasto etnico) emerge, causando retroattivamente le proprie cause (il contrasto etnico)”. Si badi però: qui non stiamo parlando semplicemente di causa ed effetto, bensì di “una causa che in qualche modo causa retroattivamente i propri presupposti”.

Antonio e Karl, due amici d’infanzia che condividono la passione per l’alpinismo, dopo aver commentato un articolo di cronaca su un presunto omicidio a sfondo etnico, hanno concluso la serata di ieri prendendosi a calci in un angolo buio vicino alla chiesa. (Con Claudio Magris, “viene il sospetto che prima di ogni accadimento reale o inventato, ci sia il suo racconto, la fantasia che lo immagina, la parola che fonda e crea la realtà”).

Per capire questa specie di cortocircuito tra il contrasto etnico e la sua rappresentazione pubblica, bisognerebbe riuscire a figurarsi una polla acquifera che alimenta una sorgente, che a sua volta la alimenta. Dovremmo immaginare un sistema idrico fantastico, la cui efficacia visionaria avesse a coincidere con la semplicità irreale del suo funzionamento: nel punto esatto in cui la polla diviene altro da sé, facendosi sorgente, l’acqua sgorga dal terreno e percorre alcuni metri incanalata nel suo letto. Poi, poco prima di diventare rivo rigagnolo o torrente, essa s’infila in una crepa e, senza dispersioni, torna alla sua polla per ripetere daccapo il medesimo percorso.

Non basta dire che la convivenza e il contrasto etnico sono la temperatura minima e la temperatura massima del nostro stare insieme. Accorgersi che l’idea del contrasto etnico è solidale con l’idea della convivenza non è sufficiente. Bisogna aggiungere che il rapporto di solidarietà che rinsalda le due idee è precisamente lo spirito composito, a un tempo malevolo e benigno, della nostra autonomia.

L’autonomia ha bisogno del contrasto etnico, ma non può fare a meno della convivenza. Il contrasto etnico serve a dimostrare che il modello autonomistico è ancora necessario, mentre la convivenza ci dice che il modello funziona.

Nel “grande racconto della separazione etnica” la convivenza è l’idea fissa degli autonomisti mancati. Contrapporla frontalmente al contrasto etnico è il modo più sicuro per non raggiungerla mai. A modo di provocazione, si potrebbe anche dire che l’ideale della convivenza è l’arma reale che l’autonomia mette a disposizione dei suoi avversari per farne i più strenui difensori della separazione.

Esistono due categorie di Autonomisti: gli autonomisti e gli antiautonomisti. Gli antiautonomisti, per il solo fatto di esistere, dimostrano che l’autonomia è ancora necessaria.

Alimentandosi di un parodosso attivo che poggia sulla dicotomia non risolvibile tra efficacia e necessità, l’autonomia perfetta si dà soltanto nella forma di un’imperfezione: dev’essere efficace ma non troppo, necessaria ma non indispensabile. Vista in quest’ottica, essa soggiace a una logica ostinata: essendo indispensabile, confesserebbe la propria scarsa efficacia; se invece funzionasse a dovere, non sarebbe più necessaria. Nel primo caso andrebbe modificata, nel secondo senz’altro eliminata. L’autonomia è allora uno strano meccanismo, che per poter funzionare non può funzionare perfettamente, e che per essere necessario non può esserlo del tutto.

Non diversamente dalla Nike di Samotracia, l’autonomia è destinata a restare incompleta, nella forma di una distemperanza equilibrata, di un’opera che non può essere conclusa, pena il suo disfacimento. Sarebbe immaginabile una Nike con la testa? Avrebbe ancora senso un’autonomia pienamente realizzata? In entrambi i casi, il compimento dell’opera coinciderebbe con la sua distruzione. Così come il significato estetico della Nike è ormai imprescindibile dalla sua mutilazione, il significato politico dell’autonomia non può fare a meno della sua incompletezza.

“L’autonomia è una necessità”: affinché questa proposizione abbia un senso, non è importante che il contrasto etnico ci sia, ma che esso “si veda”, che venga comunque esibito anche laddove esso non c’è. La convivenza, al contrario, ci deve essere ma non si deve vedere: in questa prospettiva, essa è il volto osceno dell’autonomia e in quanto tale non può essere rappresentata.

Per mostrare l’efficacia del modello autonomistico, invece, è sufficiente invertire i due termini della questione: in tal caso il contrasto etnico va senz’altro occultato, mentre la convivenza deve essere esposta in piena luce.

La rappresentazione del contrasto etnico e la rappresentazione della convivenza sono il recto e il verso della stessa moneta. In alcune circostanze è bene esibire l’uno, in altri casi conviene mostrare l’altro.

Provo a riassumere in forma di fiaba: “Scendendo in cantina per prendere del vino, l’autonomia è cascata in terra e si è strappata i pantaloni. Ora è tutta scoperta e le si vede il fondoschiena. Ma niente paura. Qualcuno sta già provvedendo a rimettere insieme la solita toppa: temperare il contrasto etnico, pur esasperandone la sua rappresentazione”.

Note

1 Kojève e Hegel sono i due autori che hanno influenzato Fukuyama nella composizione del suo famoso articolo, apparso sulla rivista The national interest nell’estate del 1989, rielaborato poi tre anni più tardi nel volume The End of History and the Last Man. Il termine “post-histoire”, invece, fu introdotto nell’Ottocento dal fisico Cournot, anche se con un significato differente da quello oggi corrente (cfr. Bodei 1997, pag. 71).

2 Il concetto di “meta-racconto”, come noto, è stato utilizzato da Jean-François Lyotard, “per il quale tutte le filosofie della storia sarebbero schemi di organizzazione retorico-narrativi di racconti che, specie in età moderna, rappresentano in forma drammatica la favola per adulti dell’emancipazione del soggetto umano in generale o la leggenda eroica di un popolo o di una classe” (Bodei 1997, pag. 62, corsivo dell’autore).

3 “Il cammino della storia dunque non è quello di una palla da biliardo che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o da uno strano taglio di facciate, e giunge infine in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare. L’andamento della storia è un continuo sbandamento. Il presente è sempre un’ultima casa al margine, che in qualche modo non fa più completamente parte delle case della città. Ogni generazione si chiede stupita: chi sono io e chi erano i miei antecessori? Farebbe meglio a chiedersi: dove sono io?” (Robert Musil, L’uomo senza qualità, tr. it. Einaudi 1996, pp. 408 – 409).

4 Ho già pubblicato il capitoletto seguente, in forma di post, su un blog (http://segnavia.wordpress.com) da me gestito tra il 16 dicembre del 2007 e il 14 dicembre del 2008 (dunque appena prima che Durn­walder pronunciasse la sentenza della quale ci stiamo occupando): un anno di tempo nel quale mi ero proposto di scandagliare il “discorso pubblico” sudtirolese raccogliendone, per così dire, una testi­monianza “enciclopedica” e vagamente ispirata alla ricognizione della particolare bêtise locale, sul model­lo flaubertiano di Bouvard et Pécuchet. Il testo costituiva la risposta all’intervento di un utente (Enrico­ De Zordo) – anch’esso pubblicato sul blog e intitolato paradigmaticamente e anti-dialetticamente “Sudtirolo ideale eterno” – che riporto come appendice.

5 Forma e codificazione che, l’abbiamo visto, se vengono rimosse (come ha cercato di fare Durnwalder) sottraggono all’osservatore l’intero spazio di pensabilità nel quale è possibile immaginarsi una concreta dialettica storica sudtirolese.

6 Cfr. Langer, Alexander, Il conflitto etnico “ben temperato”, in Aufsätze zu Südtirol / Scritti sul Sudtirolo (1978 – 1995), Alpha&Beta 1966, pp. 183 – 188.

Riferimenti bibliografici

Machiavelli, Niccolò (1513). Lettera XI a Francesco Vettori (10 dicembre 1513), in: http://it.wikisource.org/wiki/Lettere_(Machiavelli)/Lettera_XI_a_Francesco_Vettori (29.1.2009)

Di Michele, Andrea/Palermo, Francesco/Pallaver, Günther (2003) (a cura di). Fine di un conflitto. Dieci anni dalla chiusura della questione sudtirolese, Bologna: Il Mulino

Durnwalder, Luis (2008). Südtirol steht am Ende der Geschichte. Und am Beginn der Zukunft, in:
www.stol.it/nachrichten/artikel.asp?KatId=fa&ArtId=129877 (29.1.2009)

Bodei, Remo (1997). Se la storia ha un senso, Bergamo: Moretti & Vitali Editori

Abstracts

Südtirol und das
„Ende der Geschichte“

„Südtirol steht am Ende der Geschichte und am Beginn der Zukunft.“ Dieser Satz wurde von Landeshauptmann Luis Durnwalder in seiner Regierungserklärung während der Landtagssitzung ausgesprochen. Eine unangemessene boutade oder eine plausible Interpretation lokaler Begebenheiten, welche durch einen ungewöhnlichen Sprachgebrauch der Geschichtsphilosophie zum Ausdruck gebracht wurde?

Um dieser These reale Substanz zu verleihen, müsste man eigentlich jenen Aspekt thematisieren, der mehr als alles andere Motor der geschichtlichen Dynamik Südtirols ist: der ethnische Konflikt. Obwohl aus diplomatischer Sicht die Südtirolfrage seit 1992 abgeschlossen ist, lebt ihre Geschichte im Sinne einer reinen „Darstellung“ weiter und beeinflusst immer noch unsere Gegenwart. Unbestritten ist die Tatsache, dass das Verdienst der Autonomie in der Abschwächung dieses Konfliktes liegt, aber ebenso offensichtlich ist der dafür bezahlte Preis: Er verhindert, dass die Vergangenheit Geschichte wird.

Südtirol y „la fin dla storia“

„Südtirol é ala fin dla storia y tl scomenciamënt dl dagnì.“ Chësta frasa é gnüda fora dla boc´ia dl presidënt dla Junta Provinziala Luis Durnwalder te süa protlamaziun dl govern intratan la sentada dl Consëi Provinzial. N’ afermaziun inadeguada o na interpretaziun plausibla de avenimënc´ locai che à ciafè süa espresciun tres l’adoranza de n lingaz nia normal dla filosofia dla storia?

Por ti dè a chësta tesa na sostanza reala messàsson pordërt tematisé chël aspet che é deplü co döt l’ater le motor dla dinamica storica de Südtirol: le contrast etnich. Scemìa che la chestiun de Südtirol é stlüta jö dal 1992 incà dal punt de odüda diplomatica, vir süa storia inant tl significat de na pura rapresentaziun y influenzëia tres c´iamò nosc tëmp. Incontestè é le fat che le mirit dl’autonomia sta tl indeblimënt de chësc contrast, mo avisa tan tler é le prisc che é gnü paié: al impedësc che le tëmp passè devëntes storia.

South Tyrol and the “end of history”

In his inaugural speech, made in front of the assembly of the Council of the province of Bozen/Bolzano, the president Luis Durn­walder stated: “South Tyrol finds itself at the end of history and at the beginning of the future”. Is it an inopportune remark or a plausible interpretation of the local occurences, though expressed by using the language of the philosophy of history? As a matter of fact, to give substance to such a thesis as expressed by Durnwalder, it is necessery to pick out as a central theme an aspect which more than others has constituted the driving force of the historical South Tyrolean dynamics, that is to say the ethnic conflict. If we discussed the above-mentioned aspect, we would realize that the South Tyrolean question continues to live as mere “representation”, even if its diplomatic history was brought to a close in 1992. The merit of the local autonomy to have tempered the ethnic conflict is undeniable, but it is evident just as well that this merit was only possible at the cost of avoiding the past to go by.