Stefano Fait
La superbia dell’Heimat
Note sul delirio patriottico in Alto Adige-Südtirol
“I Sudtirolesi hanno continuato, sempre e comunque, a sentirsi degli eroi.
Il continuo inneggiare alla Heimat minacciata addormenta le coscienze.”
Reinhold Messner
“L’Heimat è il luogo dove dormono i nostri morti e
dove vegliano i loro pensieri.”1
Eva Klotz, Süd-Tiroler Freiheit
1. Introduzione
Sono convinto che la società altoatesina, che pretende di essere moderna, persino un modello per il resto del mondo, è almeno in parte culturalmente arcaica. Il problema che denuncio è quello dell’eccessiva invadenza di ideologie illiberali e antidemocratiche come l’identitarismo, il patriottismo localistico e nazionale, l’integralismo cattolico e la xenofobia mascherata da tutela della tradizione e dell’etnia. La mia impressione è che in Alto Adige manchi una genuina cultura liberale, cioè una cultura del rispetto e della dignità dell’individuo, perchè la tradizione locale non ha mai realmente saputo che farsene, o l’ha addirittura giudicata nociva. Ancora oggi sembra essere una sorta di esotismo buono per le chiacchiere da salotto, ma di nessuna utilità pratica, se non addirittura pericoloso per i sottili equilibri di questa società. La cultura liberale è avversata da ogni parte: cattolici, estrema sinistra ed estrema destra, l’intera rappresentanza politica di lingua tedesca e a volte persino dai Verdi, che pure, in quanto partito mistilingue, costituiscono un’avanguardia politica e intellettuale in Alto Adige. È come se uno dei valori in comune tra i gruppi etnici del Sudtirolo fosse proprio il rigetto del liberalismo. Diritti e interessi collettivi affiancano e talora sovrastano quelli della persona. L’autonomia per come è concepita odiernamente ha una grave responsabilità per questo stato di cose, perché non ha aiutato chi vive in Sudtirolo ha guardarsi attorno, ad accorgersi che ogni individuo è magnificamente originale e prezioso, che etnie e culture non sono marchi di fabbrica o d’infamia. Peggio, ha ostacolato quella che dovrebbe essere una rivelazione spontanea, una graduale presa di coscienza. Purtroppo, date le condizioni attuali, il superamento dell’autonomia su base etnica attraverso l’emergere di un’autonomia territoriale non risolverebbe tout court i problemi esistenti; sposterebbe piuttosto il punto focale della contrapposizione dall’interno verso l’esterno (aree confinanti). In questo scritto io sostengo che, senza un cambio di mentalità generalizzato che ponga al centro l’individuo e non le collettività, ogni tentativo di superare il “disagio” sarà infruttuoso. Ignorare il problema della logica immanente all’autonomismo altoatesino significa accettare implicitamente che, se verranno a mancare le risorse economiche, si tornerà al punto di partenza e il confronto identitario che è rimasto congelato per decenni riemergerà, com’è purtroppo già avvenuto altrove. Certi politici sembrano continuare a giocare col fuoco, irresponsabilmente, sulla pelle della gente, difendendo l’assetto etnico esistente, fomentando il patriottismo dell’Heimat e il nazionalismo italiano, accettando che l’arte, la cultura e la scienza possano essere censurate. Questa è una patologia sociale che potrebbe risultare fatale, in circostanze meno favorevoli (Obkircher 2006). Alexander Langer sosteneva che in Alto Adige c’è necessità di “traditori” della compattezza etnica, cioè di persone che obiettano alle pratiche e schemi mentali del proprio gruppo etnico di riferimento. Ma il problema è di portata ben più ampia. L’essere umano deve venire sempre e comunque prima di qualunque astrazione. Purtroppo il futuro prossimo sembra volgere al peggio. I partiti popolari della Baviera e della regione alpina sono tutti in ritirata, ma non di fronte all’avanzare di movimenti liberal-progressisti. La vittoria va invece ai movimenti etno-populisti. Non è la libertà del singolo che ricercano, non la sua autodeterminazione, ma la fuga dalla libera circolazione dei capitali, delle idee e delle persone. Il concetto di autodeterminazione assume un significato particolarmente angusto – questa è casa mia e ci faccio quel che mi pare – come se un fazzoletto di terra su questo vasto pianeta potesse chiudersi a riccio e far finta che la globalizzazione non esista o possa essere arrestata. Un’illusione pericolosa anche per chi la coltiva. La conseguenza più nefasta è l’imposizione di una visione monocroma del passato, del presente e del futuro, la diffusione della credenza che all’Arcadia seguirà l’Utopia. Ma i Mondi Ideali (le Heimat appunto) sono sempre ostili alle persone reali, perché si prefiggono degli obiettivi irrealistici, rispetto ai quali gli esseri umani non potranno mai essere all’altezza. Ciò comporta la condanna dell’autonomia decisionale dei singoli; e quando l’individuo abdica dalla propria autonomia morale si abbandona alle forze superiori della storia e del fato, cioè si deumanizza.
Qui sta il paradosso: l’interpretazione della nozione di autodeterminazione in voga nella regione alpina (collettiva) di fatto nega o restringe sostanzialmente quella originale e più nobile, ossia quella individualista-umanista. Chi si oppone al separatismo sudtirolese e all’idea di un piccolo stato altoatesino dovrebbe usare argomenti più radicali dell’analogia con il Tibet che, sebbene sottoposto a un governo coloniale, non richiede l’indipendenza ma l’autonomia. Il Dalai Lama è perfettamente consapevole del fatto che pretendere l’indipendenza causerebbe immani sofferenze ai Tibetani. Il suo è un atto di responsabilità. La ragione per cui al momento attuale l’Alto Adige, a mio parere, non “merita” la forma statuale (Freistaat Südtirol) è che qui manca una cultura liberale e dunque non esistono le garanzie minime necessarie a potersi dire certi che in uno stato indipendente i diritti degli individui non saranno condizionati dall’enfasi sui doveri e sui diritti collettivi. Queste garanzie minime per la sopravvivenza di una società genuinamente aperta, antitetica alle “democrature”, esisteranno solo quando: (a) l’inquadramento etnico sarà un imbarazzante ricordo del passato; (b) le municipalità, i mezzi d’informazione, gli istituti scolastici, i cittadini in generale saranno trattati da adulti, messi nelle condizioni di decidere da sé, e non sottoposti alla tutela paternalistica della Provincia di Bolzano. Ciò presumibilmente non si verificherà nel breve. Infatti solo i grandi stati nazionali con una lunga tradizione di efficace gestione della globalizzazione riescono a difendere il loro assetto di società aperte. Una fetta considerevole dell’elettorato delle piccole patrie non sembra considerare la possibilità di vedere l’incertezza e il cambiamento come un’opportunità. Piccolo è forse bello, ma piccolo è anche insicuro, l’insicurezza genera paura e la paura è seguita dall’aggressività. Per questo promuovere l’autodeterminazione dell’Alto Adige è un errore. Bisogna unirsi, non dividersi – e forse anche un Grande Tirolo non basterebbe –, perché solo così si possono diluire gli effetti negativi della globalizzazione e ricavare il massimo dai suoi benefici. Solo così si cresce e si matura come persone e come società. Ma ciò comporta un ulteriore e probabilmente inaggirabile paradosso. Il Sudtirolo potrebbe secedere solo se si lasciasse alle spalle il paradigma identitario neo-tribale che lo caratterizza, volente o nolente, ma se ciò avvenisse non ci sarebbe forse più ragione di farlo.
2. La superbia del patriota
L’irrigidimento etno-patriottico-populista si autoalimenta e il suo combustibile è, a mio avviso, la superbia, una manifestazione del narcisismo. Siamo tutti superbi, chi più chi meno, in varie forme. È un vizio connaturato alla condizione umana. Esistono tanti tipi di superbia: quella del credente, quella del fanatico, quella del tecnocrate, quella dell’eterna vittima, quella dell’eterno innocente e puro, quella del moralista, quella del cinico, quella del falso modesto, quella dell’eterno risentito, eccetera. In particolare la falsa modestia e il risentimento di certi patrioti sono espressione di superbia, per di più ipocrita, perché dissimulata. Il patriota è un localista su più ampia scala. Invece di ritenere speciale il campanile, ritiene speciale un certo territorio e il popolo che vi risiede. Spesso così speciale che chi è diverso dal gruppo è in torto, ed è – somma ironia della psiche umana – etichettato come superbo e sprezzante. “Abbassa la cresta” è il tipico ammonimento delle società chiuse e conservatrici che non rispettano il valore dell’individualità e non sanno quindi valorizzarla come risorsa per il bene comune. Non è forse quintessenzialmente superba la presunta identità di popolo, che si fa più stridente e soffocante a misura che si fa strada il dubbio che non esista alcuna identità di popolo, essendo quest’ultima solo l’abbaglio di chi guarda una foresta da lontano e la vede sostanzialmente omogenea e uniforme, rifiutandosi di apprezzare la varietà e diversificazione del bosco misto. Alexander Langer è rimasto vittima di questo abbaglio, dell’impulso ostracizzante etnico e patriottico che condanna come traditori, come corpi estranei da espellere, chiunque diverga da una norma stabilita da chi detiene il potere politico e simbolico ed esercita un’egemonia culturale. Non era lui ad essere sbagliato e “disarmonico” – come qualcuno ancora sostiene –, era la società in cui viveva che era arrogantemente superba a tal punto da non poter accogliere chi ne denunciava gli eccessi, i pregiudizi e i vizi. Forse l’Alto Adige non è ancora cambiato a sufficienza da allora, anche se certamente c’è molta più tolleranza e autoanalisi da parte di tutti, anche degli stessi politici (cfr. Stecher 2008).
Il patriottismo, chiamato in causa dai politici di lingua italiana e tedesca per giustificare l’avversione a ogni tentativo di superare le barriere linguistiche e psicologiche in Alto Adige, è il retaggio di un modo retrogrado di intendere i rapporti umani ed è quindi una sciagura per l’intera società e per i principi che hanno ispirato l’idea stessa di Europa moderna. Ne consegue che la concezione di autonomia, libertà e patria/Heimat che domina il dibattito locale ed è più o meno esplicitamente accettata da entrambi i “blocchi” maggiori è corresponsabile del deficit democratico locale e non può che alimentare gli antagonismi etnici. C’è da chiedersi come sia possibile che, dopo i disastri del secolo scorso, non sia ancora sufficientemente chiaro che patriottismo/heimatismo, localismo e campanilismo, nazionalismo ed etnocentrismo sono fenomeni sociali potenzialmente tanto devastanti quanto il razzismo. Possiamo realisticamente continuare a credere che i pensieri e le azioni dei nostri cari e delle persone che ci circondano siano il precipitato di una Cultura e di una Razza che non esistono in natura e non invece il frutto di una creazione soggettiva, bella o brutta che sia? Possiamo continuare a credere che il meticciato etnico e l’ibridazione culturale siano una minaccia per la solidità della comunità, a causa del loro potenziale di diluzione delle essenze collettive?
Se mi si passa l’analogia volutamente provocatoria, questo è “il mondo che è stato messo davanti agli occhi della gente per nascondere la verità” nella Matrix sudtirolese, la gabbia che, sempre per citare la celebre trilogia, “non si può odorare, toccare e vedere”. Queste gabbie sono un acido che corrode la democrazia e non i nobili fondamenti sui quali essa ufficialmente si sostiene. Concordo pienamente con quanto sostiene il filosofo politico statunitense George Kateb, secondo il quale, “tutta questa energia ed impegno che emanano dall’amore per la patria irrobustiscono alcuni dei peggiori aspetti della vita politica moderna e, come tale, questo amore, questo patriottismo, sacrifica i principi morali universali nella venerazione di un falso dio. Il patriottismo non è solo una forma dissimulata di auto-venerazione, non è solo volonterosa auto-abiezione, non è solo consapevole auto-sfruttamento; più di tutto, è un’idolatria” (Kateb 2006). Se sostituiamo etnia o lingua al termine patria/Heimat, il giudizio non cambia. Patriottismo, etnicismo e culturalismo sono espressioni della spinta collettivistica generata dalla paura di essere liberi, di poter decidere del proprio destino, con tutta la zavorra di insicurezze che questo comporta. Il mio contributo, come detto, intende mostrare come il patriottismo autonomistico ed etnicista tanto in voga nell’odierno Sudtirolo sovverta i valori e principi fondanti della democrazia costituzionale. A partire dalla stessa libertà, sbandierata come slogan buono per ogni stagione fin dai tempi di Andreas Hofer, ma vilipesa nella sua interpretazione collettivistica di libertà di popolo, a detrimento della libertà degli individui. O come l’uguaglianza e la fratellanza, mortificate da un assetto sociale che è intrinsecamente inconciliabile con il loro carattere universalistico.
Un aspetto positivo della questione è che l’amore per l’Heimat Sudtirolo è comunque più ampio e inclusivo di quello del proprio paese, della propria valle, o del proprio partito e questo sta ad indicare che, con il tempo, i confini dell’inclusione sono destinati a estendersi ulteriormente fino a comprendere l’intera umanità. L’obiettivo di spingersi verso forme di egoismo simpatetico sempre meno ristrette e superbe non pare essere una chimera, se pensiamo che già di per sé l’attaccamento al Sudtirolo comporta in ogni caso un legame affettivo con centinaia di migliaia di sconosciuti, cioè entità astratte di cultura, aspetto, estrazione sociale, fede e lingua diversa. Questa rimane una fase transitoria. Necessaria, ma transitoria. Il razzismo e il nazionalismo sono stati condannati dalla storia – al prezzo di milioni di vite, non solo umane –, ma sono ricomparsi nella forma più mite, ma ancora pericolosa, dell’etnicismo e del patriottismo. La battaglia civile e morale del progressismo liberale per questo secolo dovrà dunque essere quella di infiacchire questi feticci, confidando nel fatto che il buon senso della gente possa sottrarci alla prospettiva di altri disastri che spazzino via sanguinosamente ogni residua idolatria e superbia.
3. Il vizio patriottico
“L’identità è la matrice della vita di una persona”
Pius Leitner, Die Freiheitlichen
“L’Italia agli Italiani”
Donato Seppi, Unitalia
Ecco un estratto della deposizione al processo di Norimberga di Karl Brandt, medico personale di Hitler e responsabile del “Progetto T4” per la soppressione dei Tedeschi “inadatti alla vita”: “Posso, come individuo, separarmi dalla comunità? Posso rimanere fuori e farne a meno? Posso, come parte della comunità, eluderla dicendo che voglio vivere in questa comunità, ma non voglio fare alcun sacrificio per essa, fisico o spirituale che sia? […] Noi, quella comunità ed io, siamo in un certo senso la stessa cosa”. Vorrei chiedere la stessa cosa ai lettori. È possibile farlo? Io penso proprio di sì. Il ragionamento di Brandt è viziato da un errore di fondo: manca un nesso di conseguenza logica. Da (a) “Io cresco in una determinata comunità e ho degli obblighi nei suoi confronti” (ad esempio il rispetto delle norme, se non le ritengo immorali o obsolete) non consegue (b) “Non posso abbandonarla, non posso ‘tradirla’, perché io e la mia comunità di riferimento siamo una cosa sola”. È una visione patriarcale dei rapporti tra individui e società che deriva dall’assolutizzazione della pietà filiale, che rende incontestabili e inappellabili le decisioni dei genitori, anche nella sfera delle scelte affettive e lavorative. In una società liberale questo, fortunatamente, accade più di rado. Brandt era nato a Mülhausen in quella che allora era l’Elsass, l’Alsazia Lorena tedesca. È più che probabile che sia stato influenzato fin dall’infanzia dalla convergenza degli chauvinismi francesi e tedeschi e dalla mistica dell’Heimat che, come in Alto Adige, si fa soffocante ai confini con aree culturali non germaniche. Nel 1947 il medico alsaziano si rivolse al figlio per educarlo all’amore per l’Heimat, prima che fosse troppo tardi (la sua esecuzione era prevista per l’anno successivo): “Il suolo che ha assorbito la nostra gioventù dovrebbe esserci sacro e dovrebbe rimanere tale. I nostri genitori ed antenati hanno calcato la stessa terra prima di noi, hanno respirato lo stesso odore di terra, hanno visto le stesse colline e boschi e valli ed hanno sentito lo stesso vento che soffiava. Come si può lasciarsi tutto questo alle spalle? Le montagne, i castelli, il mormorio dei fiumi e lo scrosciare dei ruscelli! Heimat!” (Schmidt 2007). Non è singolare che questo legame assoluto si possa essere riprodotto con uguale intensità nei confronti di una personalità autoritaria alla quale consegnarsi anima e corpo, qualcuno come Hitler, appunto. Chi non appartiene a sé stesso ma alla terra in cui vive e alla sua storia, alla gente con cui vive ed alla loro cultura, è facile preda degli incantatori. Brandt cercava una casa per la sua coscienza e un padre che lo guidasse. Li trovò, come li trovarono altri come lui, e ciò decreto la morte di milioni di esseri umani. Non era forse un patriota anche Eichmann? Le sue ultime parole prima della sua esecuzione furono: “Lunga vita alla Germania. Lunga vita all’Austria. Lunga vita all’Argentina. Queste sono le nazioni con le quali mi sono identificato più strettamente e non mi dimenticherò di loro. Ho dovuto obbedire alle regole della guerra ed alla mia bandiera. Sono pronto”. L’inabilità di pensare di Brandt e Eichmann era dovuta al loro fanatico attaccamento a identità collettive, che li aveva convinti del fatto che le loro responsabilità morali andavano riservate al Führer, all’Heimat e al Volk e che il loro comportamento infantile, narcisistico, megalomane e nichilista era in realtà nobile, lucido, solerte e solidale. Tali sono gli effetti delle intossicazioni comunitariste.
A questo punto qualcuno potrebbe controbattere che un patriottismo depurato dalla mistica del sangue e del suolo è del tutto accettabile e che è esattamente questo che si cerca di creare in Alto Adige. In effetti Luis Durnwalder, l’attuale presidente della Provincia di Bolzano, ha dichiarato che “la patria è qualcosa di più di un pezzo di terra o di un insieme di persone che parlano la stessa lingua. Patria significa anche pluralismo e rispetto del prossimo” (Durnwalder 2006). Un patriottismo dello statuto sarebbe quindi la migliore garanzia per il buon funzionamento di un eventuale Sudtirolo indipendente sul modello sanmarinese. Io credo che questa posizione sia sbagliata. Credo che il patriottismo in ogni sua forma sia una calamità e non un pilastro della democrazia. A differenza dell’ex presidente Ciampi ritengo che il patriottismo sia un ospite-parassita delle democrazie liberali che si nutre delle loro sostanze vitali, i valori e principi costituzionali, per poi infestarle con il suo manicheismo distorcendone il significato e le finalità. Così facendo il patriottismo rende più probabile il ricorso alla violenza, l’arrendevolezza della cittadinanza di fronte a decisioni del governo che andrebbero contestate pubblicamente e l’uso di strumenti nominalmente razionali nel perseguimento di obiettivi irrazionali. Il patriottismo, come l’etnicismo, è una forma di feticismo del valore intrinseco di un’astrazione che viene normalmente legittimata spiegando che non si possono abbandonare le persone a sé stesse. I cittadini, se lasciati soli, tendono all’egoismo, all’anarchia, al “tutti contro tutti”, ecc. Invece il patriottismo produce quel tipo di legame emozionale che tiene insieme una comunità e rafforza la percezione dell’esistenza di una volontà e di un interesse comune. In una società secolarizzata in cui la religione dominante non funge più da collante, senza una religione civile come il patriottismo non si possono ottenere quella fiducia, coesione, solidarietà e lealtà civica che permettono ad una società di funzionare. Solo così – si sostiene – si potrà costruire quella “comunità intensa”, quella Gemeinschaft aggiornata ai tempi moderni, quella comunità di destino (Schicksalsgemeinschaft) che è indispensabile nelle società complesse a rischio di atomizzazione e alienazione.
Il fatto che: (a) nessuna ricerca empirica abbia individuato un interesse e una volontà comune a tutti gli abitanti di un gruppo umano anche di ridotte dimensioni; (b) l’esperienza abbia dimostrato che gruppi umani isolati non scivolano irrimediabilmente verso uno scenario à la “Signore delle Mosche”, ma si auto-organizzano; (c) che proprio il comunitarismo nelle sue varie forme (nazi-fascismo, fondamentalismo, maoismo, colonialismo e imperialismo, eccetera) sia stato responsabile dei peggiori disastri del passato, non sembra scuotere la sicurezza di questi cantori del patriottismo. La patria deve rimanere l’elemento primario di identificazione dei cittadini, che sono tenuti a prendersi cura di lei, a effettuare un investimento emotivo in essa, responsabilmente, mettendo da parte il proprio interesse privato, come se si trattasse della propria famiglia. Anche se nel farlo si erigono degli steccati tra gli esseri umani, poco importa, in fondo essi sono naturalmente inclini a sentire un attaccamento tribale e territoriale alla propria gente e alla propria terra. Negare le identità collettive significa andare contro natura, cancellare la propria stessa identità. Non esistono cittadini del mondo e anche se esistessero, i loro cuori sarebbero freddi e calcolatori. Questa è il nocciolo della vulgata comunitaria fin dai tempi di Rousseau e del contro-illuminismo. Non c’è pensatore liberale che non abbia dovuto impegnarsi a fondo per contrastare quello che rimane, ancora oggi, il sentimento dominante tra la popolazione: l’idea che le persone non siano neutrali, ma tendenzialmente egocentriche e per questo malvagie e potenzialmente pericolose. Non v’è un ordine interiore senza un ordine imposto dall’esterno, dallo Stato, dalla patria o da Dio e dai suoi rappresentanti in terra. Ancora oggi si tende a credere che una democrazia laica e liberale debba porre rimedio alla contraddizione tra “convincimenti personali” e “bene comune”, sebbene questa istituzione sia nata proprio dall’intuizione che l’unico bene comune concepibile è il benessere e la felicità del maggior numero possibile di cittadini, e che questo non può essere definito e stabilito da uno Stato etico-confessionale.
La domanda che dovremmo porci è invece quanta coesione sociale sia realmente necessaria in una società moderna. I principi costituzionali non danno forse per scontato che una democrazia liberale si fondi sulla libera circolazione delle opinioni, anche se conflittuali, e sulla valorizzazione della variabilità umana, considerata un fattore congeniale allo sviluppo della creatività e del progresso? Pur accogliendo la considerazione che c’è un limite al livello di diversità che una democrazia può gestire, come possiamo impedire che, in determinate circostanze, il patriottismo conferisca allo Stato, o al governo di una provincia autonoma, uno status morale superiore, tale da poter esercitare una vera e propria autorità morale? E quanto efficace può essere il patriottismo nel cancellare lealtà più localizzate e privatistiche che metterebbero a repentaglio la coesione dell’intero sistema? Non è forse plausibile concludere che esso semplicemente aggiunge altre linee di demarcazione esclusive senza peraltro indebolire in modo decisivo quelle pre-esistenti? In fondo gli Statunitensi sono stati patriottici per la loro intera storia nazionale, ma non sembra che ciò abbia sradicato il razzismo, il fondamentalismo religioso e politico, il sessismo, il localismo, il classismo e ogni altra forma di discriminazione generalmente praticata dalla nostra specie. Al contrario l’Olanda è un caso esemplare di nazione che pur non coltivando il patriottismo si è avvicinata più di molte altre agli ideali della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Forse proprio perché in quel paese ci si è gradualmente liberati della credenza conscia o inconscia nel Peccato Originale o nella Bestia Interiore, secondo cui gli individui sono troppo ignoranti, empi, scellerati, deboli e carenti per poter condurre la propria esistenza senza abbisognare della guida illuminata di un guru, di una tradizione o di un’istituzione che siano al di là di ogni possibile biasimo. Il fatto è che troppe volte accade che la patria/Heimat finisca per rappresentare l’innocenza stessa, giustificando ogni tentativo di compartecipare alla sua sacralità, assolvendo i cittadini patriottici da ogni responsabilità, autorizzando la salvaguardia dello status quo e della mentalità dominante. La Storia ha dimostrato ripetutamente che le persone tendono a commettere azioni spregevoli nella convinzione che, in quanto essenzialmente buone, coscienziose e rispettose della legge, queste stesse azioni non possono che essere legittime. Non abbiamo certo bisogno del patriottismo per rafforzare la convinzione che un atto riprovevole possa essere dettato dalla propria coscienza e quindi diventare non solo consentito ma persino lodevole.
Va anche detto che la convinzione che una società comunitaria sia più idonea alla produzione di capitale sociale è contraddetta dai fatti. Un numero sempre crescente di studi empirici, che in precedenza non erano mai stati intrapresi in modo così sistematico, sta dimostrando che è invece vero il contrario. Più una società coltiva un ethos individualista più i suoi membri sono felici, autonomi, interagiscono responsabilmente e disinteressatamente e non con una passiva, acritica, consuetudinaria accettazione di regole e norme desuete o persino autolesionistiche (cfr. Kasser 2002; Houtman 2003; Allik/Realo 2004; Inglehart et al. 2004; Van de Vijver et al. 2008). L’evidenza empirica dimostra che quando le persone si liberano dai sensi di colpa e di vergogna imposti da autorità esterne, cioè quando cominciano a sentirsi padroni della propria vita e del proprio destino, esse cominciano anche a beneficiare di una maggiore autostima e benessere. Ciò a sua volta permette loro di sviluppare una personalità più estroversa, tollerante e aperta al cambiamento e alla sperimentazione. Insomma una società moderna che pone al centro la valorizzazione dell’individualità democratica è più felice, ottimista, meno aggressiva, più disponibile alla negoziazione, più responsabile e più equa. Ne consegue che l’individualità democratica, che rifiuta patriottismo ed etnicismo, è l’architrave della coesione sociale, dello sviluppo economico e civile e della fiducia nel prossimo (Lyubomirsky et al. 2005; Veenhoven 2008). Che questa evidenza empirica non sia ancora stata presa in considerazione è un’evidente indicazione della potenza e tenacia di certi preconcetti nella ricerca sociologica e nell’opinione comune.
Se non ce ne rendiamo conto è perché più le persone si sentono libere più, almeno inizialmente, sono a rischio di sentirsi a disagio con la loro libertà e conseguente carico di responsabilità, e possono sentire il bisogno di donarla al più presto a chiunque – in genere un demagogo, la figura chiave delle società in via di modernizzazione e democratizzazione – prometta loro di accollarsi le loro responsabilità e di farli sentire meno isolati e alienati. Così le persone finiscono per diventare ancor più dipendenti nei confronti di nuove istituzioni e nuovi padroni. Invece di promuovere una società e una cultura diversa e aperta, la nuova dirigenza politica sarà egocentrica e opaca e incline al populismo, alla tecnocrazia, alla strumentalizzazione della democrazia diretta (nella forma della volontà generale di Rousseau). Il patriottismo è strumento principe di questa strategia ed è per questo che esso infesta invariabilmente le società coinvolte in una rapida transizione verso la democrazia liberale. Queste esperiscono moti di reazione al cosmopolitismo e al pluralismo universalista che potremmo classificare come “comunitarismo atomistico” o “individualismo statista” e che molto probabilmente affondano le loro radici nel paternalismo e autoritarismo libertario delle società contadine tradizionali. Un libertarismo da enclave chiusa che non è indirizzato al singolo ma alla comunità, ferocemente coercitiva e intollerante nei confronti delle interferenze esterne.
A questo punto alcuni avranno forse concluso che se il processo di transizione è inevitabile, non rimane che attendere tempi migliori. Questo è certamente vero, ma il problema è che la reazione comunitarista all’apertura della società insiste su virtù civiche, definite impropriamente primarie, come l’obbedienza, la disciplina, la lealtà (indiscussa), l’armonia, l’autocontrollo, il senso del dovere e del rispetto (acritico), la coesione del gruppo, eccetera e ciò può avere conseguenze devastanti. Basti pensare ai risultati allarmanti delle celebri ricerche effettuate da Asch, Sherif, Milgram, Zimbardo e da tanti altri psicologi sociali sul problema dell’influenza nefasta del gruppo e del ruolo sui singoli, nonché su quello del conformismo, della polarizzazione sociale e dell’obbedienza all’autorità (Sunstein 2000). Queste sono le virtù tanto care ai leader condizionati dalla sindrome del cane pastore che non resiste alla tentazione di radunare le pecore, sempre e comunque.
In una società complessa noi dovremmo coltivare un’etica dell’autonomia che valorizzi principi universali e il senso critico, fiduciosa nella ragionevolezza della gran parte dei cittadini. Dovremmo invece respingere un’etica della comunità cinicamente diffidente verso gli esseri umani in generale, che soffoca l’autonomia decisionale e morale nel nome di un determinismo cosmico che pone le persone al servizio dei morti (idealizzazione del passato, arcadismo) o dei non nati (idealizzazione del futuro, utopismo) senza saper apprezzare il presente e il valore intrinseco di individui che non sono così miserabili da doversi fondere in un gruppo per acquistare pregio. Dovremmo anche respingere chi ci invita a corrompere il significato stesso della parola amore ingiungendo di non limitarsi ad amare gli esseri viventi ma di estendere il nostro sentimento alle cose e alle costruzioni dell’immaginario, come la patria e la volontà generale. Il fine ultimo della politica è il benessere degli esseri umani e degli altri esseri viventi o la preservazione di certe istituzioni e idee che sono di ostacolo alla felicità degli individui? E se è vera la prima cosa, allora la Costituzione Italiana e perciò lo Statuto di Autonomia (redatto “sulla base dei principi della Costituzione”, Art. 1) meritano un amore incondizionato, un’indulgente deferenza, come se fossero Sacre Scritture, o piuttosto il mio rispetto e apprezzamento per quel che rappresentano, ossia l’ufficializzazione da parte di un popolo dell’evidenza del fatto che gli esseri umani valgono in quanto tali e solo secondariamente come membri di una qualche categoria? Se anche questo è vero allora il concetto di patriottismo costituzionale e, per estensione, di patriottismo dello statuto è a tutti gli effetti un ossimoro.
4. Heiliges Land Tirol
“Contemplare l’Heimat significa immaginare uno spazio incontaminato,
il regno dell’innocenza e dell’immediatezza.”
Eric Rentschler, Harvard University
“Ogni persona ha bisogno di una patria (Heimat). Noi Sudtirolesi sappiamo anche troppo bene che cos’è la patria: è l’amore per la propria terra, il senso di protezione e sicurezza, di familiarità e amicizia.”
Siegfried Brugger, Südtiroler Volkspartei
Dopo lo spettacolare fallimento della moralità convenzionale (di stampo comunitario) nel corso del secolo scorso, la mansueta, meccanica identificazione dell’individuo a una collettività, sia essa un’etnia, una patria o una corporazione, è estremamente problematica e va trattata come ogni altra forma di idolatria o tribalismo, ossia con il più lucido scetticismo. L’Heimat è un territorio dell’immaginario, non un’entità naturale. Gli esseri umani fanno già abbastanza fatica a non fuggire da sé stessi per paura di essere inadeguati e a non essere prevenuti nei confronti degli sconosciuti per paura di scottarsi l’anima: indurli ad amare una finzione che esalta le differenze verso l’esterno e annulla l’unicità di ciascuno di noi è irresponsabile.
Dunque il valore dell’Heimat/Patria non solo non esercita effetti virtuosi sulla società civile, ma addirittura la danneggia, sia a livello morale sia a livello pratico. Vediamo meglio come e in che misura ciò avvenga nel contesto altoatesino. C’è una significativa testimonianza di Bernhard Pircher che fu intervistato dalla rivista “Una Città” quando aveva 19 anni ed era membro della compagnia di Schützen venostana di Glurns/Glorenza (Pircher 1997). Illustrando le ragioni che lo avevano indotto a diventare uno Schütze, Pircher spiega che “Quello che mi affascinò di più era questo essere dalla parte della Heimat, delle tradizioni, della religione e anche del bisogno di coesione, il fatto cioè che ci si raduni per le celebrazioni pubbliche e per marciare insieme. L’ammissione nella compagnia degli Schützen di un nuovo membro deve essere unanime”. Questa scelta fu resa più facile da un evento particolarmente spiacevole, una rissa con degli italiani per futili motivi. Così Pircher confessava di essere stato per lungo tempo anti-italiano: “Adesso però la vedo diversamente. Anche gli italiani sono esseri umani e hanno quindi molto in comune con noi”. Una frase che chiarisce meglio di dozzine di saggi la natura disumana e de-umanizzante, per entrambi i gruppi etnici, della separazione etnica in vigore nella Heimat altoatesina, specialmente per i giovani, inesperti e quindi estremamente influenzabili. E l’Heimat? Cos’era l’Heimat per quel giovane Schütze della Val Venosta? “Heimat è quel luogo in cui ci si sente “a casa”. Qui da noi ci si conosce tutti. Ci si saluta anche se non ci si conosce e si ha fiducia negli altri […] Heimat è per me lì dove si sta volentieri. Io nella mia terra posso fare le cose che amo fare […] Nella mia Heimat io ho l’aria pura e un ambiente quasi incontaminato, che rispetto”. Per Pircher l’Heimat non è chiusa ai forestieri: “Essa è per tutti, questo lo voglio ben sperare. Anche per quegli italiani che sono nati qui. Io vorrei anche che ognuno si prendesse cura di questa Heimat, anche delle sue tradizioni. Quando ad esempio si preparano i fuochi per il “Sacro Cuore di Gesù”, è bello perché vecchi e giovani si incontrano, salgono insieme sulla montagna e condividono il piacere di queste tradizioni. Si ascoltano storie di tempi passati, e quando poi bruciano i falò, si sente dentro di sé una gioia e un senso di comunione così unico e profondo. Tutti aiutano, tutto il paese si dà da fare affinché queste feste riescano bene. È anche un modo per incontrare persone che altrimenti non si incontrerebbero. È un’alternativa al solito bar, e magari pure alla discoteca in cui i più vecchi in ogni caso non vanno. Anche questi incontri sono Heimat”. O forse no. Forse l’idea di Heimat è una sovrastruttura del tutto superflua. Tant’è che in Italiano basta dire – “sentirsi a casa” – senza tanti fronzoli mistici politicamente manipolabili. Heimat non è l’unica risposta, o la migliore, allo spaesamento da globalizzazione. “La mia terra” o “mon pays” offrono uno spettro di connotazioni che si sovrappone in gran parte a quello di Heimat. Nelle lingue slave Heimat si traduce senza problemi come dom, dòmovina, domov o rodina. Il paesaggio emotivo tedesco non è poi così diverso da quello latino o slavo. Così in Trentino si possono fare le stesse cose e provare le stesse sensazioni senza che la mente chiami in causa come un automatismo del tipo “stimolo-risposta” la nozione di patria/Heimat. C’è chi si è chiesto come mai una parte del mondo germanico sia così fermamente aggrappata a questa idea di Heimat. Ad esempio Peter Blickle, docente di germanistica presso l’Università del Michigan, ritiene (Blickle 2002) che essa nasca dalla fusione di Romanticismo e anti-Illuminismo e che il bisogno psicologico derivi in primo luogo dal desiderio di ricavarsi uno spazio idealizzato e protettivo, un’appartenenza di tipo neo-tribale percepita come naturale nella quale perdersi. È una provincia dello spirito che è emanazione di una spiritualità provinciale, locale e che impregna una “individualità collettiva” che “rassicura i germanofoni circa il loro valore, identità e unicità” (Blickle, 2002, 50). Il sé, come detto, si perde nell’Heimat e diviene un sé diverso da quello descritto da Freud, un sé “preconscio, dipendente dal gruppo e sociale […] bisognoso di radici. Un sé sradicato è percepito come sminuito o guastato” (ibidem, 69) che confonde persone e cose, l’errore ontologico del pensiero magico-superstizioso, che un tempo si chiamava idolatria pagana. In passato quest’invenzione del pensiero umano è servita a tenere in piedi un sistema di valori, poteri e rapporti umani fortemente lesivo della dignità delle donne e discriminatorio nei confronti dei bambini e delle minoranze (Boa/Palfreyman 2000). Inoltre l’aura di innocenza che spira attorno all’Heimat è saldamente legata alla semplice e perniciosa equazione di bello e buono. Se l’Heimat è un idillio di bellezza, innocenza e purezza, allora chi la ama è buono e irreprensibile per definizione. Anzi, è un eletto. Non è quindi per nulla sorprendente che l’Heimat sudtirolese attiri le personalità narcisistiche. Tutti, anche se in misura diversa, siamo affetti da narcisismo. Il militante etnicista o patriottico va oltre, dando libero sfogo alla sua immaginazione ipertrofica. In talune circostanze la discrepanza tra realtà e immaginazione è tale che questo tipo di narcisista inveterato trova arduo non provare disgusto per ciò che stona, fosse pure una certa classe di esseri umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli altri come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, si chiude autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale universo di riduzionismi che lo deresponsabilizzano e spostano la colpa sui difetti congeniti degli altri. Necessita di ordine e chiarezza e li può trovare nella superstizione del gene onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità totalizzante e neo-tribale, cioè nell’idea in quanto tale, immacolata e omogenea. Il Südtirol come filo a piombo dell’anima (Stecher 2008). Un’idolatria che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia tutto ciò che contamina la purezza dell’idea. Se questa minaccia non è opportunamente neutralizzata la condanna è all’alienazione. Un inconscio processo di alienazione è già comunque in atto, perché il narcisista immaginifico è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi altro non sono che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno, vere e proprie epidemie di narcisismo. Ciò potrà sembrare strano per chi è abituato, erroneamente, a pensare al narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo amor proprio. In realtà il narcisista, se privato della sua sorgente di conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo, amorfo, ansioso e insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi a una qualche figura o idea dominante che fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione, perché queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché entrambi sono narcisi e hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino di un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo pensiero non è mai profondo, né lo è la sua stima nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai davvero suoi simili e per questo possono essere ordinatamente incasellati in categorie arbitrarie. Il feticismo, l’illusionismo nella sua accezione più ampia è il vizio caratteristico del narcisista. Non potendo contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo spettro della morte concentrandosi sull’immagine e sull’idea – la Patria, l’Etnia –, rendendole immortali, e si autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il suo amor proprio è dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è molto precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico a un movimento e a un leader che incarnino le idee fisse che danno senso alla sua esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è autonomo e indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua esistenza. Al contrario è eterodiretto, e si lascia facilmente assimilare da fazioni, sette, tribù, razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi distorti della realtà. Si intossica di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, apprezzamenti di un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha bisogno di ripetute conferme e le trova nella grandezza del Gruppo. È una comparsa nella sua vita, non il protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e risorse per rinsaldare ancora di più questo stato di cose.
Oggi, in Alto Adige come nell’Europa dell’Est, la logica etnarchica, – essenzialmente narcisistica – che antepone il particolare all’universale sacrificando il motto Liberté, Égalité, Fraternité sull’altare della Cultura e dell’Identità, è sopravvissuta alla sconfitta del nazismo e del comunismo. Si è tornati a parlare di identità naturali anche se nessuno ha saputo ancora spiegare cosa ci sia di naturale e di univoco in queste identità. Ma d’altronde quello identitario non è un appello alla ragione, ma alle emozioni, ai sensi di colpa e alla paura di chi, sentendosi in dovere di appartenere “anima e core” a un insieme più ampio, non si sente di poter affrontare il giudizio altrui e l’ostracismo degli altri membri del gruppo. La moda etnarchica non va però affrontata in modo sbrigativo. Non è un atavismo ma piuttosto uno stimolo umano primordiale (quello al raggruppamento) che trova pretesti e razionalizzazioni eminentemente moderne quando il modello universalista segna il passo, cioè ad ogni seria crisi internazionale o sotto la spinta dell’immigrazione di massa.
Essa rimane una strategia fallimentare sotto ogni punto di vista. A livello etico perché non rispetta la dignità intrinseca e l’autonomia delle persone e dissimula la loro unica, comprovabile appartenenza, quella alla specie umana. A livello pratico perché non esiste alcun modo per tenere sotto controllo le forze centrifughe e atomizzanti messe in moto da una politica della differenziazione identitaria. Ci sarà sempre una minoranza che pretenderà il pieno autogoverno se non riceverà un’adeguata compensazione. Pensiamo a quel che sta avvenendo in Bosnia, dove la Republika Srpska a forte maggioranza serba sta già meditando di seguire l’esempio del Montenegro, distruggendo quindi ogni sforzo pacificatore e unitario della comunità internazionale in Bosnia. Oppure pensiamo alla contrapposizione tra Scozia e Inghilterra, tra Catalogna e Andalusia, tra Fiandre e Vallonia, tra Padania e Meridione. In caso di separazione, il paradigma etnico che la giustifica sarebbe nel contempo il maggiore ostacolo alla realizzazione di una società equa, giusta, e solidale. La maggioranza etnica sarebbe autorizzata a decidere in funzione dell’interesse primario della conservazione della sua egemonia. E non è precisamente quel che avviene in Alto Adige, con la ben remunerata connivenza di quasi tutti i partiti? Cosa succederebbe in Alto Adige se si arrivasse al distacco dall’Italia? Cosa farebbe la maggioranza italofona di Bolzano e dell’Oltradige-Bassa Atesina? E come si può evitare che degli standard etici locali non finiscano per logorare la coesione dell’Unione Europea attorno ai principi universalistici ereditati dall’ecumenismo cristiano, dall’Umanesimo e dall’Illuminismo? Il separatismo localistico e il differenzialismo identitario non sono né assennati né moralmente giustificabili. Non possono costituire una risposta ai problemi dell’autogestione territoriale né possono mitigare l’impatto della globalizzazione a livello socio-economico, se non altro perché i movimenti etnopopulistici europei sono sempre e invariabilmente libertari (di destra), in quanto il loro bacino elettorale si concentra soprattutto nella piccola e media impresa, cioè tra elettori che troppo spesso sono più propensi a pretendere tutele per sé stessi, anche se a discapito del resto della popolazione e degli immigrati che pure loro stessi assumono in gran numero (Tamás 2000). Quel che è scandaloso è che una parte della sinistra, in nome dell’anti-imperialismo, si sia sentita in dovere di combattere la destra su un campo come quello delle identità collettive, che è il terreno naturale della destra stessa.
5. Conclusioni
Negli ultimi anni un numero crescente di filosofi ha riconosciuto l’importanza di accettare una nozione di “sacralità laica” non fondata su un ragionamento puramente razionale e che incorpora un profondo, intuitivo rispetto per la vita umana. Quest’idea di rispetto non ha molta presa quando la si àncora ai valori della razionalità, della dignità e dei diritti inalienabili. Sono concetti sfuggenti. Per questa ragione Gaita preferisce enfatizzare la “condivisione della vita umana” e un “senso di comunanza tra individui” (Gaita 1991). Per Iris Murdoch non esiste una vera comprensione senza amore, giustizia, apertura all’Altro e compassione: “Il concetto centrale della moralità è l’individuo inteso come conoscibile attraverso l’amore” (Murdoch 2001, 29). Sullo stesso tono la riflessione di Martha Nussbaum su ciò che è determinante in una condotta eticamente esemplare: “Il dolore di un’altra persona mi coinvolgerà solo se riconosco l’esistenza di un qualche tipo di accomunamento con questa persona, che sarà a sua volta strettamente legato al riconoscimento della mia vulnerabilità e incompletezza. […]. Senza questo senso di accomunamento, reagirò con sublime indifferenza o curiosità intellettuale – come uno scienziato marziano, o un qualche genere di dio” (Nussbaum 1994, 143). Il culto dell’Heimat procede nella direzione opposta. Il futuro non appartiene alle appartenenze forti ma a quella multiple, flessibili e universaliste. L’esempio di Singapore, una piccola Heimat governata da un governo autoritario, paternalista e tradizionalista, dovrebbe essere sufficiente a evidenziare i rischi che si corrono in una piccola patria, per quanto prospera e pulita, quando le dimensioni limitate facilitano il compito di chi fissa e applica d’imperio delle norme di condotta in virtù di una “superiore” interpretazione dell’essenza della cultura locale. In questo caso, come in molti altri, la libertà di autodeterminazione collettiva finisce per confondersi con la soppressione delle libertà personali. Compresa la libertà di rifiutare una certa modalità di adesione alla cultura nella quale si è nati e cresciuti, o rifiutare la cultura stessa nella sua interezza, o rifiutare di appartenere ad alcunché e specialmente a un’astrazione. Un governo che promuove appartenenze gelose e autoritarie non è migliore di un padre che obbliga i figli a scegliere: o me o tua madre!
Note
1 Le citazioni di dichiarazioni rilasciate da politici locali sono tratte dagli archivi digitali del quotidiano “Alto Adige”.
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Abstracts
Der Stolz der Heimat
Der Heimatkult legitimiert die Verwandlung von Menschen in Symbole und Bilder, Projektionen des eigenen Narzissmus. Ein Gift insofern, als dass er Individuen in Käfigen irrationaler und gefühlloser Symbolismen, Stereotypen, Vorurteilen, Etikettierungen und Verdinglichungen gefangen hält, die oftmals ans Pathologische grenzen. Er ist eine Ersatzreligion, die das Heimatland verehrt, da es seinen Bewohnern eine ewige und heilbringende Identität, sprich: Unsterblichkeit zu verschaffen vermag. In Südtirol wird dieses Phänomen durch ethnische Spannungen und eine noch unterentwickelte liberale Sensibilität verschlimmert. Dies führt dazu, dass sich viele Südtiroler leichter entlang ihrer Unterschiede identifizieren, anstatt sich auf gemeinsame Interessen, gemeinsame Sorgen und auf Angehörigkeit zur Menschenfamilie zu berufen. Darum wird auch die Idee von einem Freistaat Südtirol eine rein intellektuelle Übung bleiben. Selbstbestimmung würde nämlich nur dann einen Sinn machen, wenn das derzeit herrschende neo-tribalistische Identitätsparadigma zurückgelassen wird. Wäre dem so, fiele jedoch auch das Bestreben nach Selbstbestimmung weg.
La superbia dla „Heimat“
Le cult dla „Heimat“ (nosc inc´iasa) legitimëia la trasformaziun de porsones umanes te simbols y imajes, proieziuns de so narzisism. Al é de dann, canche al röia tla mosöra da intrapolè i individuums te na gabia de simbolisms, stereotips, preiudizi, etichetatöres y reificaziuns irazionales y groies, val’iade söl ur dl patologich. Al é na religiun laica che idolatrëia la patria en virtù de süa vocaziun da ti conferì ai zitadins na identité eterna, l’imortalité. Te Südtirol vëgn chësc fenomenn agravè dales tenjiuns etniches y da na sensibilité liberala nia c´iamò madüda. Chësc comporta che tröc südtiroleji se identifichëia plü saurì en relaziun a sües desfarënzies plütosc che a sü interesc coletifs, ales preocupaziuns che ai partësc y ala portignënza ala raza umana. Por chësta rajun romagnarà le „Freistaat Südtirol“ n eserzize inteletual. L’autodeterminaziun ess ma n significat, sce an lasciass sö na pert le paradigma identitar neo-tribal che dominëia c´iamò, mo sce al jiss manc´ia chël, se destodass inc´e ia l’aspiraziun al’autodeterminaziun.
The pride in the Heimat
The Heimat cult serves the purpose of legitimizing the conversion of human beings into symbols and images, the projections of one’s own narcissism. It is toxic to the extent that it traps individuals into a cage of irrational and callous symbolisms, stereotypes, prejudices, brandings and reifications, sometimes bordering on the pathological. It is a surrogate religion that idolises the Homeland in its power to bestow an eternal, salutory identity, i.e., immortality on its citizens. In South Tyrol this phenomenon is exacerbated by ethnic tensions and by an undeveloped liberal sensibility, leading many locals to identify themselves on the basis of their differences rather than their common interests, shared concerns, and human fellowship. Therefore, the Freistaat Südtirol idea is destined to remain an intellectual exercise: national self-determination would become meaningful and viable only through the elimination of the currently prevailing neo-tribalist paradigm, which is the driving force behind the self-determination movement.