Mauro Fattor
Le elezioni amministrative 2008
L’offerta politica, i partiti, i cartelli partitici e i programmi a confronto
“Quanto più è piccola la comunità formata da una persona collettiva,
tanto più distruttiva diventa l’esperienza del sentimento fraterno.”
Richard Sennet
1. L’offerta politica
Le elezioni amministrative dell’ottobre 2008 hanno segnato un punto di svolta importante nelle vicende politiche altoatesine, e questo per almeno due motivi. Il primo. Per la prima volta nella sua lunga storia, la Südtiroler Volkspartei (Svp) ha perso la maggioranza assoluta scendendo al di sotto della soglia del 50 per cento dei consensi. A destra del partito di raccolta si è affermato infatti un blocco di partiti che ha raccolto il gradimento di oltre il 20 per cento dell’elettorato di lingua tedesca. E poi il secondo motivo, che in parte è direttamente correlato al primo e in parte supera invece le logiche di schieramento toccando trasversalmente quasi tutti i partiti. Si tratta della contestazione diffusa e crescente, da destra e da sinistra, dell’assetto autonomistico scaturito dal Pacchetto, con una gamma di posizioni che vanno dalla necessità di un riequilibrio in chiave etnica del modello attuale, a un suo effettivo superamento. Verso che cosa e con quale visione del futuro dell’Alto Adige, lo vedremo.
Alla competizione elettorale hanno preso parte 15 formazioni in tutto. Si tratta di sei partiti schiettamente nazionali (Popolo della Libertà/Pdl, Partito Democratico/Pd, Italia dei Valori/Idv, Comunisti Italiani, Unione di Centro/Udc e Lega Nord/Ln); tre partiti frutto di aggregazioni locali ma con forti agganci in sede nazionale (Verdi-Liste Civiche e Sinistra dell’Alto Adige, cartello di partiti, quest’ultimo, in cui sono confluiti Rifondazione Comunista, Sinistra Democratica e Partito Socialista) oppure “federati” con partiti nazionali (Unitalia con La Destra di Francesco Storace); e sei partiti a vocazione territoriale (Südtiroler Volkspartei, die Freiheitlichen, Süd-Tiroler Freiheit, Union für Südtirol, Bürgerbewegung e Ladins Dolomites), anche se nel caso dei Freiheitlichen il riferimento esplicito è alla formazione gemella che opera sulla scena austriaca. Si tratta comunque, nella quasi totalità dei casi, di formazioni già presenti e attive da anni sulla scena altoatesina. L’unica vera novità era rappresentata dalla discesa in campo del coordinamento della composita galassia delle liste civiche comunali, che negli ultimi anni avevano raccolto buoni risultati quasi ovunque in Alto Adige, erodendo significative quote di consenso al partito di raccolta. Il passaggio dalla dimensione municipale a quella provinciale non è stato però indolore. Le Liste Civiche si sono infatti spaccate confluendo per una parte in un’alleanza organica con i Verdi, e per l’altra dando vita a una formazione autonoma monoetnica dal nome di Bürgerbewegung, dalla collocazione più moderata e centrista, idealmente a sinistra della Svp ma comunque a destra della lista dei Verdi. Accanto a questo elemento di novità, c’era poi un fattore di notevole incertezza legato alle divisioni interne e alle lotte intestine che hanno lacerato i partiti del centrodestra italiano – Alleanza Nazionale e Forza Italia – finendo col logorarne l’immagine pubblica.
A questo punto, prima di procedere, ricordiamo velocemente il quadro generale dei risultati. Parlano i numeri, quelli della vittoria della destra tedesca, Freiheitlichen in testa, e quelli della sconfitta della Volkspartei. Il dato nudo dice Svp al 48,1 % (equivalente a 18 consiglieri), Freiheitlichen al 14,3 % (5 consiglieri), Süd-Tiroler Freiheit al 4,9 % (2 consiglieri) e Union für Südtirol al 2.3 % (1 consigliere). Questo significa che a destra della Volkspartei esiste un blocco di consensi forte del 21,5 %. Questo come dato generalissimo. Sul fronte dei partiti italiani a spartirsi l’elettorato sono il Popolo della Libertà con l’8,3 % (3 consiglieri) e il Partito Democratico con il 6 % (2 consiglieri). Un consigliere va anche a Unitalia (con l’1,9 %) e Lega Nord (2,1 %). I Verdi-Grüne, alleati con il troncone “progressista” delle Liste Civiche, e storici eredi della linea interetnica di Alex Langer, si fermano al 5,8 % (2 consiglieri). Fuori dal consiglio provinciale restano Italia dei Valori, Unione di Centro, Sinistra dell’Alto Adige (Rifondazione Comunista-Sinistra Democratica-Partito Socialista), Comunisti Italiani, Ladins Dolomites e Bürgerbewegung (il troncone “moderato” delle Liste Civiche), con percentuali di voti che oscillano dallo 0,4 di queste ultime all’1,6 % del partito di Di Pietro.
Detto questo, non c’è dubbio che l’elemento che si impone all’attenzione degli osservatori sia la forte avanzata della destra tedesca, ed è da qui che dobbiamo partire.
2. Il voto alla destra tedesca
Voto alla destra tedesca significa soprattutto Freiheitliche. Vediamo quindi di tracciare il quadro di un’ascesa che nell’immobile panorama politico sudtirolese ha avuto l’effetto di un terremoto. A parte il dato macroscopico con i consiglieri provinciali che passano da due a cinque, a colpire sono alcuni elementi che riguardano la geografia e la velocità di crescita del voto ai blu di Pius Leitner. Ancora nell’aprile del 2008, vale a dire sei mesi prima del voto regionale, in occasione delle elezioni politiche, i liberali sudtirolesi erano fermi al 9,4 % su base provinciale. Anche se fermi è il termine sbagliato, perché già in quell’occasione avevano quasi raddoppiato i consensi facendo dimenticare il 5,4 % racimolato nell’aprile del 2006, in occasione delle precedenti elezioni politiche. Il 26 ottobre 2008 e quindi, come detto, appena sei mesi dopo le elezioni politiche nazionali, all’appuntamento col voto amministrativo, i Comuni altoatesini in cui i Freiheitlichen hanno superato la soglia del 9,4 % è di 98. Novantotto su 116. Questo vuol dire che, al netto dell’inevitabile effetto di diluizione in ragione del voto urbano dei centri più grandi dove la frammentazione è maggiore e, ovviamente, del voto italiano, la popolazione rurale sudtirolese si è spostata massicciamente a destra. La realtà dice infatti che sono ben 81 – 81 su 116, sarà bene ribadirlo – i Comuni in cui il partito di Leitner supera quel 14,3 % che rappresenta il dato su base provinciale. E sono 33 i Comuni in cui i Freiheitlichen si attestano saldamente sopra il 20 % dei consensi. Questo significa che il trend di crescita è tendenzialmente omogeneo e capillare se pure, come è ovvio, con differenze significative tra un Comune e l’altro. Non si tratta, in altre parole, di picchi di consenso puntiforme, di roccaforti esclusive, in un contesto fortemente differenziato. Proprio il contrario: la tentazione del voto a destra – e quindi non solo verso i Freiheitlichen, ma anche verso l’Union e verso Süd-Tiroler Freiheit – si è insinuata ovunque e la “fuga” dalla Volkspartei è un fenomeno che interessa l’intera provincia.
Per quanto non esclusive, come abbiamo detto, questo non significa comunque che non si siano profilate all’orizzonte realtà elettorali in cui il voto a questi tre partiti, con i Freiheitlichen sempre nel ruolo di capofila, ha assunto particolare rilevanza. È il caso questo dei distretti della media Val d’Isarco e della Bassa Val Pusteria, cioè di ambiti geografici pressoché contigui nel settore centro-orientale della provincia. Il caso più eclatante è quello di Vandoies, dove il 40,3 % degli aventi diritto ha votato a destra della Svp, vale a dire quasi il doppio del blocco di elettori della destra tedesca su base provinciale (che si attestavano come abbiamo visto al 21,5 %). E ancora: Rio Pusteria 40,1 %, Villandro 39,8 %, Terento 37,5 %, Rodengo 37,2 % e Velturno 34,2 %. In questi sei Comuni il dato più modesto dei Freiheitlichen è il 27,5 % di Velturno. Aperta parentesi. Da notare che il medesimo processo di radicalizzazione ha trovato spazio dentro la stessa Volkspartei, con il dimezzamento dell’ala sociale e il successo del conservatorismo rurale del Bauernbund e della destra economica, a dimostrazione di uno spostamento complessivo del baricentro del voto tedesco sudtirolese verso destra, a prescindere da quella che è poi la sua declinazione in senso partitico. Dunque, sarebbe più corretto dire, uno spostamento della società sudtirolese nel suo complesso, verso destra. Chiusa parentesi.
Fino a questo momento abbiamo disegnato un quadro generale, certamente rispondente alla realtà del voto amministrativo di ottobre, ma pensato, politicamente parlando, per macroaree. In realtà è sbagliato considerare Freiheitlichen, Union für Südtirol e Süd-Tiroler Freiheit come un blocco unitario. Perché non lo sono. Ci sono punti di convergenza programmatica evidenti, ma anche di mancata convergenza (più che di divergenza vera e propria). Dentro le pieghe di queste differenze, e nella distanza che le separa dalla Volkspartei, stanno le ambizioni, i progetti, la visione del mondo della nuova destra sudtirolese.
La parola chiave per guardare al fenomeno si chiama etnonazionalismo, un etnonazionalismo connotato in chiave populista. La realtà è che la forte rimonta di posizioni etnonazionaliste e lo spostamento a destra dell’asse della Volkspartei si stanno divorando il mito della società plurietnica e del modello di autogoverno sudtirolese. L’etnonazionalismo trionfante di oggi è quello che un filosofo come Carlo Sini chiamerebbe “la verità cruciale”, il momento in cui un sistema “corre incontro alla verità della propria non verità” (Sini, 1983, 149 – 155), cioè fa esperienza del suo carattere illusorio, del proprio fallimento. E questo è appunto il caso del modello altoatesino. L’etnonazionalismo sudtirolese mette a nudo, paradossalmente, tutte le debolezze di un modello – per altri versi, soprattutto nella fase di ricomposizione del conflitto che lo ha originato – di indubbio successo. Quella altoatesina è oggi una società non integrata, cresciuta dentro un ideale ampiamente teorizzato e praticato di “convivenza incompiuta”, che ha in sé, strutturalmente, tutti i problemi irrisolti che caratterizzano le società post-conflittuali. Come rileva Francesco Palermo:
“L’esperienza internazionale e quella comparata mostrano l’esistenza di molti strumenti per la composizione dei conflitti di carattere etnico-nazionale, ma la totale assenza di prassi efficaci per l’integrazione delle società dopo il superamento del conflitto. Come disse una volta un diplomatico americano rispetto ai conflitti nei Balcani, è molto facile trasformare un acquario in una zuppa di pesce, ma è impossibile fare il contrario. L’autonomia sudtirolese è un esempio emblematico di grande efficacia nella soluzione dei conflitti e di comprovata incapacità di immaginare il ‘dopo’.” (La lite sui monumenti, in: Alto Adige, 17.02.2009)
Quella che emerge oggi è proprio la fragilità derivante da questa incompiutezza, al punto che la società altoatesina ha mostrato di essere estremamente sensibile allo stesso vento del nazionalismo tedesco che ha soffiato nelle regioni alpine vicine, dalla Carinzia alla Baviera, senza riuscire a differenziarsi in alcun modo in ragione di una propria – presunta – specifica e consolidata “consuetudine” alla disomogeneità culturale e all’organizzazione plurale della cosa pubblica, se non proprio della società. Un’illusione di “diversità”, un esercizio di ideologia positiva, che aveva trovato compiuta teorizzazione nel programma del Partito Democratico, che nel paragrafo dedicato a “Immigrazione e nuova cittadinanza” scriveva:
“L’Alto Adige può vantare un’esperienza e uno sviluppo positivo per quanto riguarda la convivenza tra le diverse culture. Il mantenimento della propria identità culturale e l’apertura all’altro (il ‘diverso’), fanno parte della nostra storia locale.” (Pd, Programma per il nuovo Alto Adige 2008, 8)
In realtà, come l’esito del voto dimostra, questo non è vero, o lo è solo in minima parte. Lo spostamento a destra in chiave etnonazionale c’è stato, e anche massiccio. Spostamento a destra che, lo ricordiamo, non ha toccato invece il vicino Trentino, pur esposto a sua volta alle seduzioni altrettanto forti della politica della Lega Nord in tema di immigrazione e di rivendicazione di appartenenza. Una differenza che, dentro i confini del Tirolo storico, non può mancare di segnare una linea di demarcazione, e anche piuttosto netta, tra ciò che sta accadendo a nord e a sud di Salorno.
Per capire che cosa etnonazionalismo significhi in termini programmatici, perché abbia preso piede e che significato abbia per gli scenari futuri dell’autonomia altoatesina, facciamo un’ipotesi di lavoro in direzione di quanto a suo tempo sostenuto da Walker Connor (Connor, 1994). Connor sostiene che in realtà sono pochi gli studiosi in grado di poter affermare di aver previsto questa rinascita dell’etnonazionalismo e di averlo riconosciuto alle sue prime manifestazioni. Come mai? Per una lunga serie di motivi. Lo studioso americano ne elenca una dozzina, tre dei quali per noi particolarmente interessanti e tra loro assolutamente coerenti.
Il primo: un’incomprensione della natura del nazionalismo etnico, che ha come conseguenza la tendenza a sottovalutarne la forza emotiva. Principale risultato: l’incapacità di esplorare la natura profonda dei sentimenti etnici. Troppo spesso il conflitto etnico è percepito come basato su lingua, religione, costumi, iniquità economica o qualche altro elemento tangibile. Ma ciò che è fondamentalmente coinvolto in tale conflitto è quella divergenza nell’identità di base che si manifesta nella sindrome “noi-loro”. E la risposta ultima alla domanda se una persona sia una di noi, o una di loro, raramente dipende dall’aderenza ad aspetti visibili.
Il secondo: un’arbitraria esagerazione dell’influenza del materialismo sulle vicende umane. Principale risultato: l’implicita e l’esplicita presunzione che le origini della discordia etnica siano economiche e che una minoranza etnica possa essere integrata se ne viene migliorato lo standard di vita, sia in termini assoluti che relativi agli altri segmenti della popolazione dello Stato.
Il terzo: l’accettazione indiscussa del postulato che maggiori contatti tra i gruppi conducano, di per sé, a una maggiore consapevolezza di ciò che i gruppi hanno in comune, piuttosto che di ciò che li rende distinti (cfr. Connor, 1995, 115 – 117).
Ma cosa c’entra Connor con le elezioni amministrative in provincia di Bolzano? E cosa c’entrano proprio questi tre postulati? C’entrano moltissimo. Connor infatti afferma sostanzialmente una cosa: volete capire qualcosa dell’affermarsi dell’etnonazionalismo? Bene, dimenticatevi degli aspetti economici, degli aspetti tangibili e materiali delle società multietniche. Dimenticatevene perché sono importanti ma non sono mai decisivi. Guardate altrove. Questo “altrove” è il luogo dove l’emozione diventa ideologia, anche in modo strumentale. E le elezioni altoatesine dell’ottobre scorso sono state tra le più connotate ideologicamente della storia recente del Sudtirolo. A questo massimo di connotazione ideologica ha corrisposto, a ulteriore conferma di quanto sostenuto da Connor, un livello minimo di differenziazione dei programmi in senso economico e socioeconomico. E questo è il primo dato su cui vogliamo soffermarci: il benessere diffuso e trasversale in senso sociale ed etnico, i livelli minimi di disoccupazione, la crescita economica degli ultimi decenni, e in generale i benefici economico-finanziari derivanti dall’autonomia, hanno complessivamente un peso relativamente basso nella formulazione della proposta programmatica dei partiti. Al punto da essere assai spesso inessenziali. È come se facessero da sfondo alla competizione elettorale, alla stregua di un elemento connaturato in modo strutturale alle prerogative dell’autogoverno. E se autonomia è uguale per definizione a benessere, nulla questio, siamo di fronte a un dato acquisito che non può entrare, e di fatto non entra, nel gioco elettorale. Anche se ovviamente le cose non stanno così, e non si tratta affatto di un dato acquisito. Va da sé, comunque, che se vogliamo entrare nelle pieghe del voto e marcare delle differenze tra i vari schieramenti, è agli aspetti immateriali e ideologici che dobbiamo prestare attenzione, assai più che a quelli tangibili e di politica economica. Partiamo comunque da questi ultimi, proprio per verificare questa scarso livello di differenziazione e di attenzione.
3. I programmi economici a confronto
Come cornice generale va ricordato, in ogni caso, che nell’ottobre del 2008, quando si è votato per le provinciali in Alto Adige, la crisi che sta scuotendo l’economia mondiale non era ancora esplosa in tutta la sua drammaticità, e se oggi i riflettori dei media e l’attenzione dell’opinione pubblica sono massimi, al momento del voto la situazione era ben diversa. Questo, ovviamente, può avere avuto un certo peso anche nelle scelte dell’elettorato. In che misura e in che direzione, è però impossibile stabilirlo. Connor comunque non si straccerebbe le vesti per questo. Ciò detto, quello che è accaduto è invece piuttosto chiaro. Tutti i partiti che hanno proposto un’analisi all’insegna della complessità, introducendo magari legittimi elementi di criticità e di incertezza, sono stati puniti dall’elettorato (Volkspartei) o hanno ottenuto risultati di gran lunga inferiori alle attese (Verdi, Pd). Viceversa i partiti che sono usciti vincitori dalle elezioni, in particolare Freiheitlichen e Süd-Tiroler Freiheit, si sono tenuti alla larga dai temi economici, o comunque hanno offerto una lettura assai semplificata – spesso ideologicamente mirata e selettiva – delle prospettive economiche e degli interventi di indirizzo da parte della pubblica amministrazione. Questo non significa che tutti i partiti che hanno optato per un profilo basso in campo economico siano stati premiati. Sinistra dell’Alto Adige, Ladins, Italia del Valori, che hanno dedicato nei rispettivi programmi appena poche righe ai temi economici, non hanno infatti ottenuto neppure un mandato. Mentre è sicuramente vero il contrario. Puniti tutti, indistintamente, i partiti che hanno portato l’analisi a un livello superiore. E comunque sono soltanto tre, quelli che abbiamo già citato, cioè Volkspartei, Verdi e Pd. Partiti cioè che hanno alle spalle una solida tradizione di responsabilità di governo oppure, ed è il caso dei Verdi, partiti che hanno “di per sé” una sorta di vocazione alla complessità nell’approccio ai problemi.
La Volkspartei già nel preambolo del proprio programma evoca lo spettro degli anni di magra dopo “le vacche grasse” del passato (cfr. Gute Jahre – schwierigere Zeiten, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013), indicando i rischi connessi all’esaurimento progressivo delle materie prime con relativo aumento di prezzo dei combustibili fossili (cfr. Die globale Entwicklung, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013) e le incognite legate alla globalizzazione dei mercati, della mano d’opera e dei capitali (cfr. Wirtschaftliche Thematik, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013). Il tutto ovviamente per concludere con un invito a serrare i ranghi.
“Deswegen braucht es in Südtirol eine starke und geeinte politische Führung. Nur wenn die Bevölkerung zusammensteht und Vertrauen in die Politik, in ihre erbrachten Leistungen und ihre Perspektiven hat, werden die kommenden Zeiten bewältigt werden können.” (Gute Jahre – schwierigere Zeiten, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013)
Quanto ai Verdi l’analisi è su un piano leggermente diverso, ma il “rumore di fondo” è il medesimo.
“… La povertà e la perdita di benessere economico minacciano nuovamente la popolazione altoatesina e vanno combattute energicamente. […] Le persone povere sono in costante forte aumento. Il ceto medio, la punta di forza della società, diminuisce. La povertà aumenta soprattutto nelle città, […]. La lotta alla povertà e la ridistribuzione della ricchezza saranno questioni decisive per il futuro dell’Alto Adige.” (Giustizia e Lavoro, in: Verdi elezioni provinciali 2008)
Il Pd invece sceglie una strada diversa, gli accenti non sono particolarmente ansiogeni (eccetto forse il rilievo che le imprese altoatesine non sono attrezzate per la sfida della globalizzazione), ma l’analisi e le proposte sono spalmate su ben quattro paragrafi (cfr. Coniugare crescita e giustizia, La sicurezza sociale come priorità, Il mondo dei lavori delle professioni e delle imprese, Piena occupazione e lavoro di qualità, in: Partito Democratico Programma per il nuovo Alto Adige, 2008), venendo a formare – e di gran lunga – la più corposa e la più ridondante tra le sezioni dedicate ai temi economici tra quelle presenti nei programmi dei partiti. In termini quantitativi occupa 7 pagine sulle 34 del programma, vale a dire quasi il 20 per cento dell’intera offerta programmatica del Partito Democratico. C’è davvero tutto, dal TIS-Parco Tecnologico alla Camera di Commercio, dall’“impiego di software a risorse aperte open-source” agli accordi economici di secondo livello. C’è anche spazio per tecnicismi come
“Promuovere la crescita dimensionale e la capitalizzazione delle imprese, favorendone anche l’aggregazione o la fusione, nonché la trasformazione da società di persone a società di capitali.”
oppure
“va studiato un intreccio socioeconomico fra risparmiatore e aziende, per potenziare il loro capitale proprio e fare partecipi i risparmiatori dello sviluppo economico patrimoniale dell’economia regionale” (Il mondo dei lavori, delle professioni e delle imprese, in: Partito Democratico Programma per il nuovo Alto Adige, 2008).
Apparentemente, quanto meno nei toni, si tratta di un approccio diverso da quello di Svp e Verdi, e di fatto lo è. C’è però un elemento che li accomuna, e questo elemento è la complessità, o meglio il carattere problematizzante legato alla necessità di confrontarsi con fenomeni nuovi e con le loro conseguenze dentro un’economia globalizzata. È la complessità in quanto tale a risultare elettoralmente perdente. Non a caso. Tutto ciò ha infatti a che fare con il successo del blocco dei partiti che stanno a destra della Volkspartei. Non si parla ovviamente di un rapporto di causa-effetto, nel senso che l’appoccio analitico scelto da questi tre partiti abbia avuto conseguenze dirette sull’orientamento elettorale dei votanti, quanto piuttosto del fatto che la sconfitta elettorale dei primi si specchia, va letta anche in questo specifico caso, alla luce del successo dei secondi. La chiave di volta della mentalità populista è infatti la diffidenza verso tutto ciò che non può essere racchiuso nella dimensione dell’immediatezza, della semplicità, del rapporto diretto e visibile con la realtà, delle abitudini e delle tradizioni (Tarchi 2003, 25).
Nei programmi elettorali di Freiheitlichen, Süd-Tiroler Freiheit e Union i temi economici – intesi come necessità di attrezzarsi rispetto a un mercato in continua e rapida trasformazione – di fatto scompaiono. Dove sopravvivono questo accade solo indirettamente, in termini di semplice rivendicazione a favore di questa o quella categoria. In questa chiave ci si può persino permettere di ricordare le ventitremila famiglie che vivono sotto la soglia di povertà, come fanno i Freiheitlichen rivendicando appunto i diritti degli autoctoni contro chi arriva “da fuori” (cfr. Einwanderung-Integration-Sicherheit, in: Freiheitliches Wahlprogramm, 2008). Oppure come fa l’Union, chiedendo “Mehr Lohn für die Arbeitnehmer” (cfr. Das Bürgerprogramm der Union, 2008). Oppure ancora individuando un “nemico”, qualcosa o qualcuno che minaccia da fuori le prassi del buon tempo antico e che può essere L’Unione Europea, cavallo di battaglia dei Freiheitlichen (cfr. Freie Bauern. Starke Landwirtschaft, in: Freiheitlichen Wahlprogramm, 2008), oppure la soffocante burocrazia statale, come è per Süd-Tiroler Freiheit (cfr. Starke Wirtschaft – starkes Land, in: Süd-Tiroler Freiheit Programmatische Grundzüge, 2008). La parola globalizzazione è inesistente, così come qualsiasi altro riferimento al mondo delle imprese, grandi o piccole che siano, e tantomeno alla finanza anonima, smaterializzata e cosmopolita dei giorni nostri. Scrive il politologo Marco Tarchi:
“Il mondo basato sul denaro si colloca all’opposto degli ideali coltivati dal populismo, che non a caso nelle sue prime manifestazioni di rilievo in epoca moderna ha fatto del contadino, quintessenza del lavoro produttivo e vittima esemplare dello sfruttamento, la propria icona …” (Tarchi 2003, 27).
Perfetto. E non è certo un caso se tutti e tre i partiti della destra tedesca fanno un’eccezione rispetto a un atteggiamento di basso profilo sul piano dell’analisi economica, scegliendo appunto di spendersi e di mettersi in gioco per gli agricoltori, quelli di montagna in particolare, saldando così in modo compiuto le idiosincrasie populiste con l’ideologia tirolese del Bergbauer (cfr Cole/Wolf 1993, 253 – 256).
“Der Bergbauer muss in erster Linie Unternehmer bleiben und stolz darauf sein können, Bauer zu sein.”
scrivono i Freiheitlichen nel proprio programma in uno specifico paragrafo dal titolo quanto mai significativo: “Freie Bauern. Starke Landwirtschaft”. Anche la Volkspartei, com’è facilmente immaginabile, si sofferma sul tema dell’agricoltura di montagna e della difesa dei “Bergbauern” (cfr. Herzensache Berglandwirtschaft, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013) ma, come abbiamo visto, sono il contesto, la cornice operativa a essere diversi. Il partito di raccolta non rinnega infatti il quadro generale internazionalizzato entro cui bisogna trovare nuove soluzioni.
Da notare che il tema dell’agricoltura compare anche come tema specifico nei programmi di altri partiti, compresi due partiti “italiani”, come il Pd e la Lega Nord. In questo caso a fare la differenza è apparentemente una mera questione lessicale, ma mai come in questo caso la forma è sostanza. Vediamo. Scrive il Pd nel paragrafo dal titolo “Promuovere l’agricoltura di qualità”:
“L’agricoltura va sostenuta in un quadro di sviluppo di qualità […]. L’agricoltura montana, già ben sviluppata in Alto Adige, va difesa e sostenuta in modo particolare…” (Promuovere l’agricoltura di qualità, in: Partito Democratico Programma per il nuovo Alto Adige, 2008)
Così invece, assai sinteticamente, la Lega Nord nel paragrafo dal titolo “Agricoltura”:
“Sostegno e valorizzazione delle agricolture locali. Valorizzazione della commercializzazione diretta dei prodotti locali.” (Agricoltura, in: Lega Nord Südtirol Programma, 2008)
La differenza lessicale sta in questo: l’accento linguistico non cade mai sul fattore umano, soggettivo. “Il contadino” in quanto soggetto sociale, portatore di valori implicitamente ed esplicitamente identitari non esiste e non viene mai citato. In altre parole, quella di Pd e Lega è un’agricoltura impersonale, un’agricoltura senza agricoltori. Qualcosa di lontanissimo, in termini emotivi, dal sentire comune del blocco conservatore – Volkspartei compresa – dei partiti di lingua tedesca. Con questa osservazione torniamo alla preminenza, una preminenza rilevata “sul campo”, per così dire, di quegli aspetti immateriali e ideologici teorizzati da Connor da cui siamo partiti e grazie ai quali è possibile marcare le effettive distanze che separano i diversi partiti. Quanto al resto infatti le ricette divergono ben di poco: sostegno alle imprese, sostegno al turismo, sostegno alle famiglie, migliori servizi sono temi trasversali ampiamente condivisi. Del resto, tanto l’economia di scala entro cui si colloca il sistema produttivo altoatesino, quanto il carattere generalissimo delle enunciazioni di principio e delle relative proposte – a parte poche eccezioni – spingono verso convergenze che appaiono quasi dei passaggi obbligati.
Alla fine di questa lunga disamina, quello che possiamo utilmente portare con noi per proseguire in questa analisi del voto dell’ottobre 2008, è in definitiva proprio l’individuazione, in modo chiaro, di una certa propensione populista all’interno dello schieramento dei partiti di lingua tedesca che si collocano a destra della Südtiroler Volkspartei. Perché si possa parlare di populismo vero e proprio, servono però almeno altri due elementi: una buona dose di antipolitica e un atteggiamento di insofferenza conclamata verso le élite (Tarchi 2003, Meny/Surel 2001). Dobbiamo però intenderci su che cosa significhi “antipolitica”. L’antipolitica dei populisti è reazionaria, non rivoluzionaria. Come spiega bene Marco Tarchi:
“… il loro progetto è rifondare l’ordine politico e i rapporti su cui esso è basato, ma ‘non certo la società nel suo insieme, che non è assolutamente il caso di sconvolgere’: esistono posizioni di preminenza sociale che sono state acquisite per la via ordinaria e lodevole del lavoro e dell’impegno produttivo, che un populista non si sognerebbe mai di mettere in discussione […]. Quello che spesso viene definito antielitismo è in realtà, nel populismo, condanna di un blocco di potere autoreferenziale, oligarchico, sdegnosamente distaccato dalla gente comune […] e un posto d’onore, nel pantheon dei nemici del popolo, spetta al mondo della politica” (Tarchi 2003, 25 – 26).
In questa accezione, la vocazione “antipolitica” del populismo è più che altro una rivolta contro l’intero establishment. E l’establishment in Alto Adige ha un nome solo e si chiama Volkspartei. Sono tutti elementi che si ritrovano in pieno nei programmi dei partiti della destra sudtirolese. Da questo punto di vista il programma dei Freiheitlichen è addirittura paradigmatico. Ci sono due paragrafi interi costruiti attaccando frontalmente la Volkspartei, citata non meno di dieci volte. Si parla esplicitamente di lotta ai privilegi e alle rendite di posizione e l’attacco del paragrafo “Freie Bürger. Freies Land” è un pugno nello stomaco:
“Nach dem Ende des Kommunismus gibt es in Europa wohl kaum ein anderes Land, das – wie Südtirol – von einer Partei beherrscht wird. Mit gravierenden Folgen: Südtirol ist auch 2008 noch ein besonderes negatives Beispiel für Parteibuchwirtschaft, Postenschachner, Privilegienwirtschaft, ‘Diktatur des Apparates’.”
Chiarito che di populismo si tratta, con tutti i suoi rituali, siamo appena a metà del guado. Siamo infatti di fronte a quella peculiare forma di populismo che è il populismo etnonazionalista. E dobbiamo ancora spiegare che cosa significhi. È qui che tornano in gioco prepotentemente i tre paradigmi di Connor ed è a lui che ci affidiamo per andare a esplorare la natura profonda del nazionalismo etnico sudtirolese. Perchè è la forza dei sentimenti etnici ad avere determinato l’esito delle elezioni amministrative dell’ottobre scorso, e saranno questi sentimenti – nella loro versione populista e vincente, come abbiamo visto – a condizionare pesantemente e orientare gli sviluppi futuri dell’Autonomia, costringendo la Volkspartei a radicalizzare le proprie posizioni in chiave etnica per tentare di fermare l’emorragia di voti a destra. Per apprezzare la vera natura di questi sentimenti, per coglierne la “filosofia inconsapevole” e per capire che tipo di scenario si verrà delineando nei prossimi mesi e nei prossimi anni a partire da queste posizioni, scegliamo un ambito apparentemente neutro, un po’ defilato rispetto alla ribalta mediatica di temi che vanno per la maggiore come la sicurezza o l’immigrazione. Ci occupiamo di ambiente. La nozione di ambiente, a fronte infatti di una certa apparente neutralità, ha invece in sé una forte connotazione ideologica.
4. L’ideologia dell’ambiente
Cominciano col dire che si tratta ormai di un tema tipicamente trasversale, entrato a far parte dei programmi di quasi tutti i partiti, anche se con accezioni molto diverse. E sono appunto queste diverse declinazioni a essere interessanti e significative. Com’è facilmente intuibile, il nazionalismo etnico si aggancia al tema della “svendita della Heimat”, ma prima di arrivarci conviene fare una riflessione più ampia sui programmi relativamente a questo specifico ambito. Perché se è vero, come abbiamo detto, che il tema ormai è trasversale, è altrettanto vero che un approccio autenticamente moderno a questo tipo di problematiche lo si trova ancora esclusivamente nel programma dei Verdi. Il concetto di biodiversità e di tutela della biodiversità come etica della responsabilità sono stati elaborati dal biologo Edward Wilson nell’ormai lontano 1992 (Wilson 1992). Si tratta dei concetti chiave che hanno rivoluzionato il dibattito sulle questioni ambientali a livello internazionale per tutto il decennio successivo, arrivando fino ad oggi. Di tutto ciò però non c’è traccia nei programmi dei partiti che hanno preso parte alla competizione elettorale in Alto Adige, a dimostrazione di una certa arretratezza nello stile di approccio alle questioni ambientali. Come detto, solo nel programma dei Verdi il concetto di tutela della biodiversità – con tutto quello che un obiettivo del genere comporta – compare esplicitamente come obiettivo da perseguire e compare di conseguenza anche nel “vocabolario” elettorale (cfr. Una casa comune e Più natura e meno cemento, in: Verdi elezioni provinciali 2008). Tra gli inseguitori, usando una metafora ciclistica, c’è poi un nutrito gruppo di partiti che rendono esplicito il proprio impegno in campo ambientale a partire invece da un approccio che riguarda soprattutto la corretta gestione delle risorse primarie, come acqua o aria, o le scelte di politica energetica, intesa come sforzo in direzione delle energie rinnovabili. Tra questi, la Volkspartei, il Partito Democratico, i Freiheitlichen, i Ladins, l’Italia dei Valori, la Sinistra dell’Alto Adige, Süd-Tiroler Freiheit. La posizione di questi partiti è ancorata ad una prospettiva ancora prettamente economica della questione ambientale; economica nel senso etimologico del termine, come spiegato da Robert Delort e Francois Walter (Delort/Walter 2002, 296), ossia come preoccupazione di gestire la “casa comune” (oikos) in modo rigoroso (nomos), in quanto dalla corretta gestione di questi beni primari dipendono conseguenze importanti per la collettività, intesa come società degli umani. C’è poi un terzo gruppo di partiti, di cui fanno parte Unitalia e Alleanza Nazionale – ma non il Pdl in quanto tale1 – per il quale vale un approccio del secondo tipo, ma su base ancora più ristretta, con una attenzione esclusiva cioè per tutto ciò che concerne la politica ambientale in relazione alle ricadute – economiche, sanitarie o di qualunque altro tipo – sul cittadino utente, perlopiù urbanizzato. Ed è in questa logica che si possono trovare proposte come quella “di incentivi economici per la rottamazione dell’auto o del motorino” (cfr. Politica ambientale e dei rifiuti, in Programma politico di Unitalia, 2008) oppure il “monitoraggio permanente delle fonti di inquinamento con particolare riguardo ai grandi centri urbani” (cfr. Trasporti e Ambiente, in Proposte di Alleanza Nazionale per il programma del Popolo della Libertà per una nuova autonomia altoatesina, 2008).
In altre parole, tornando al quadro generale, si passa da un concetto di politica ambientale che abbraccia la nozione di biosfera in senso estensivo, a uno riduzionista, o più riduzionista, che si muove verso l’antroposfera lungo un gradiente che finisce, nel punto più basso, con l’occuparsi di dettagli di scala minima e con riferimento a specifiche categorie.
Oltre questo punto, c’è solo un quarto gruppo di partiti, del quale fanno parte unicamente Il Popolo della Libertà e la Lega Nord, cioè due formazioni della maggioranza di centrodestra che esprime il governo, che non si occupano di tematiche ambientali. Addirittura, nel caso della Lega Nord, gli unici, scarsi, riferimenti in questa direzione sono inseriti nel paragrafo che riguarda infrastrutture e trasporti.
Ricordiamo a questo punto quello che abbiamo detto in apertura di capitolo, cioè che l’alto grado di trasversalità del tema non è indice di neutralità ideologica, perché è vero esattamente il contrario. È evidente infatti che il gradiente che abbiamo delineato ha una fortissima connotazione ideologica, soprattutto ai suoi estremi, e che per la stessa connotazione ideologica è giocoforza inserire a questo punto un quinto gruppo di partiti – che sono poi quelli che ci interessano maggiormente perché in grado di condizionare le scelte future dell’autonomia altoatesina, considerato lo sforzo dell’Svp di recuperare i consensi perduti a destra (cosa che invece non avviene quasi mai per i partiti di lingua italiana, da questo punto di vista inessenziali) – questo gruppo è formato dai partiti che interpretano le politiche ambientali anche, o in alcuni casi soprattutto, come argine alla “svendita della Heimat”, o alla sua distruzione. Si tratta di Union für Südtirol, Freiheitlichen, Süd-Tiroler Freiheit e Südtiroler Volkspartei.2
Con ciò siamo agli antipodi di quello che abbiamo definito prima come “approccio economico”. Si tratta infatti in questo caso di un punto di vista totalmente ideologico, sentimentale, e quindi immateriale dell’idea di ambiente, per quanto tutt’altro che privo di effetti pratici e di concretezza, anche a livello propositivo. Siamo in piena “zona Connor”, per usare una metafora, dove l’emozione diventa ideologia. La Heimat è infatti innanzitutto un “ecosistema culturale” che si specchia nella morfologia del territorio, sia in termini di difesa del paesaggio che in termini di difesa della proprietà. Sarebbe troppo lungo, per quanto estremamente interessante, dilungarci sul concetto di Heimat. In questa sede è sufficiente ricordare che sulla centralità della Heimat si è imperniata tutta la politica della Volkspartei da quando esiste. La robusta iniezione di populismo antisistema che ha punito duramente il partito di raccolta in termini di perdita di consensi, ha semplicemente cancellato l’esclusiva della Svp su questo tema, tema che è stato sviluppato in questi anni secondo modalità precise di esasperazione emotiva e di doping identitario. Concetti sui quali dovremo tornare, perché ciò che sta dietro i proclami contro la “svendita della Heimat” non è una concezione moderna del territorio e del paesaggio e della loro difesa dai rischi della modernità; cosa che una filosofa del paesaggio come Luisa Bonesio, che di questi temi si è occupata a lungo, definirebbe come doverosa, in quanto territorio e paesaggio sono venuti connotandosi come manifestazioni visibili delle modalità di abitare dell’uomo sulla terra (cfr. Bonesio 1997, 117).
Qui si tratta di altro, di qualcosa che ha a che fare con la paura – in parte reale e in parte indotta e alimentata artificiosamente per decenni – di perdere l’identificazione con la riconoscibilità simbolica e visiva del proprio orizzonte, di marciare verso un processo di deterritorializzazione che suona come una campana a morto. Questa concezione è, per questo motivo, un pericoloso innesco di rivendicazioni regressive di identità e di chiusura (cfr. Bonesio 1997, 16) in chiave etnonazionalista, rivendicazioni che infatti compaiono puntualmente. L’Union:
“30 Prozent der Zweitwohnungen in der Hand von Provinzfremden ist keine Seltenheit mehr. Der Ausverkauf der Heimat droht zum Schlussverkauf zu werden.” (Stopp dem Ausverkauf der Heimat, in Das Bürgerprogramm der Union, 2008)
Questo è un esempio perfetto di come il dibattito sempre vivo sulle seconde case e sulla necessità di arginare la speculazione edilizia in ambito turistico – vecchio cavallo di battaglia ambientalista – possa venire stravolto trasformandosi in qualcosa di sapore totalmente diverso. Qui infatti il problema non è affatto la proliferazione delle seconde case, il problema sono gli acquirenti, con uno spostamento di accento che cambia radicalmente i termini della questione.
5. Esasperazione emotiva e doping identitario
Abbiamo detto che esasperazione emotiva e doping identitario hanno caratterizzato per decenni la politica della Volkspartei e hanno plasmato intere generazioni di sudtirolesi. E continuano a farlo, anche oggi che il partito di raccolta è in flessione. Vediamo allora di chiarire che cosa intendiamo quando usiamo questi due concetti. C’è un aspetto della rigidità territoriale e comunitaria che gli antropologi definiscono con il termine di pseudospeciazione, con il quale indicano una tribù, anche in senso lato, che si comporta come se fosse l’unico gruppo di umani veramente “umano”. Le altre tribù sono ritenute meno o per nulla umane. Secondo Richard Sennet
“lo sviluppo di questa intolleranza non è il prodotto di un orgoglio smisurato, di arroganza o di sicurezza di gruppo. È un processo molto più fragile e incerto, nel quale la comunità esiste soltanto attraverso una continua esasperazione emotiva” (Sennet 2006, 379).
Che sia il sentimento comunitario a essere portatore di una innata distruttività, o se sia invece – come Sennet è propenso a ritenere – la società moderna ad assumere una struttura in cui, senza adeguate sollecitazioni e forzature, i legami sociali appaiono irrimediabilmente deboli, è una questione non di poco conto. Ma anche fondamentalmente inessenziale. Perché l’unica cosa certa è che non cogliendo simultaneamente entrambi gli aspetti mettendoli dialetticamente in relazione, finiamo col privarci della possibilità di comprendere molte delle dinamiche in atto nella regione alpina in relazione al problema dell’identità. A chi, come Sennet, ma come tanti altri, sostiene che il sentimento comunitario si rafforza come risposta adattativa a una società in cui gli spazi sociali sono sempre più atomizzati, si può contestare che è anche vero l’esatto contrario: il senso di precarietà e di isolamento degli individui nelle società atomizzate – ma potremmo dire nelle società moderne tout court – che si declina localmente, a livello di gruppo, in senso di “accerchiamento”, può venire alimentato, amplificato, se non addirittura costruito del tutto artificialmente e in modo finalizzato e strumentale, proprio da quella “esasperazione emotiva” attraverso la quale si intende rafforzare lo spirito comunitario come difesa dalla modernità. È così che l’antidoto si trasforma in veleno. L’esasperazione emotiva ha il valore di una chiamata alle armi che si alimenta della paura che essa stessa genera, in una rincorsa che, di fatto, porta il sistema stimolo-risposta in un vicolo cieco, dentro un’architettura che basta a se stessa e che si autosorregge, finalizzata al semplice mantenimento dello status quo. Certo la “psuedospeciazione” è una forma estrema di tribalità, ma ogni comunità che si definisca organica ha nella pseudospeciazione la propria vocazione ultima – e talvolta inconfessabile – e il proprio destino, fosse anche solo come orizzonte di possibilità, finendo assai spesso con l’adottarne in modo più o meno consapevole tratti significativi. Dentro una dinamica di inclusione-esclusione, infatti, qualsiasi scelta che vada in direzione di una maggiore esclusività muove verso quell’orizzonte e questo anche se il sistema nel suo complesso, per altre sue caratteristiche, si mantiene a un livello più basso di un ipotetico gradiente. Tratti di pseudospeciazione, cioè di forte intolleranza, in sistemi formalmente aperti sono sempre più frequenti, in particolare nel mondo alpino e dentro il mondo alpino in particolare in Alto Adige.
“Il convincimento emotivamente radicato nelle società tradizionali – sostiene Annibale Salsa ne “Il tramonto delle società tradizionali. Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi” – di pensare e vivere l’identità come una forma ascritta, cioè innata geneticamente, trasferisce il discorso identitario sul terreno della legittimazione naturale, fuori dai circuiti della processualità e della costruzione sociale artificiale” (Salsa 2007, 27). È esattamente questo che spiega il senso delle crescenti incursioni di tratti di intolleranza dentro le società alpine. Con una specifica. Ciò che Salsa definisce come forma ascritta, cioè geneticamente innata (che, non certo a caso, risulta quasi essere la premessa necessaria di ciò che chiamiamo percorso di pseudospeciazione), riguarda la convinzione dei membri della comunità di condividere la stessa vita pulsionale e la stessa struttura motivazionale (cfr. Sennet 2006, 381; Holzer 1999, 51 – 52), che si esplicano all’interno del medesimo sistema di valori. Inutile sottolineare che questa convinzione, in realtà nulla ha a che fare con la genetica, cioè con un determinismo biologico che marca una differenza. La forma ascritta di cui correttamente parla Salsa è in realtà il frutto di un “immaginario collettivo”, in totale contrasto con
“un presupposto che solitamente viene accettato da molti come ovvio e scontato quando si parla di popolazioni e culture di montagna, cioè che l’identità montanara costituisca un’evidenza del tutto “naturale”, iscritta in una sorta di DNA, che verrebbe trasmesso diacronicamente alle generazioni successive” (Salsa 2007, 28).
Ed è appunto questo immaginario collettivo, o meglio un immaginario collettivo costruito in termini di condivisione della medesima vita pulsionale e della stessa struttura motivazionale dentro un sistema di valori riconosciuto, l’elemento peculiare delle Gemeinschaften etno-populiste delle Alpi, in cui le identità collettive sono le uniche ammesse e schiacciano le libertà individuali. Ovviamente tutto questo, come ogni “costruzione” culturale, richiede uno sforzo, una tensione, che spiegano molto della “continua esasperazione emotiva” di cui parlava Sennet. Si tratta infatti – stiamo parlando dell’esasperazione emotiva – di una precondizione necessaria perchè questo tipo di comunità possa continuare a esistere. Una forma di “doping identitario” indotto dalle conseguenze tutt’altro che irrilevanti. Una volta unite vita pulsionale e vita collettiva, si spiana infatti la strada a forme di dittatura a bassa intensità, di cui Alto Adige e Carinzia sono esempi altamente significativi. Modelli, peraltro, a cui tendono e aspirano anche altre realtà territoriali vicine, come il Trentino, senza per ora riuscire a eguagliarli. Perchè parliamo di dittatura a bassa intensità? Perché unire vita pulsionale e vita collettiva impone la necessità di innescare forme di controllo sociale, culturale e politico assai invasive. La devianza di singoli individui, ma qualsiasi devianza in generale, si affaccia sulla scena sociale come elemento potenzialmente disgregante. Se compaiono sulla scena nuovi soggetti, magari esterni, portatori di nuovi impulsi, l’intera comunità è minacciata perché cesserà di condividere i medesimi sentimenti. La deviazione dei singoli indebolisce la forza di tutta la comunità e per questa ragione va tenuta sotto controllo. La Gemeinschaft alpina moderna è dunque una condizione in cui la comunità di sentimenti prevale sull’azione e la governa. Questo tipo di comunità, come sintetizza ancora una volta il solito Sennet
“non può accettare, assorbire o includere elementi esterni, perché comprometterebbe la propria purezza. La personalità collettiva si oppone quindi alle interazioni sociali, che costituiscono l’essenza della socievolezza. La comunità psicologica entra in conflitto con la complessità sociale” (Sennet 2006, 382).
Entra in conflitto ma, in una certa misura, è costretta a mediare, tentando – di norma – di assorbire il processo di modernizzazione mediante aggiustamenti graduali, soprattutto in campo tecnico ed economico, opponendo su tutto il resto resistenze molto forti e mettendo in campo forme di controllo sociale, culturale e politico che sono tanto più significative quanto più marcati sono gli sforzi di apertura in campo economico, aperture che sono percepite come una potenziale minaccia rispetto al sistema di valori tradizionale. Tutto questo è causa di un sostanziale fallimento dei processi democratici nelle vallate alpine, e in Alto Adige in particolare. Nelle comunità organiche esiste un deficit di democrazia sostanziale che nulla ha a che vedere con il rispetto della democrazia formale, cioè con il funzionamento delle istituzioni e con il rispetto delle procedure democratiche, dell’esteriorità delle forme della democrazia.
Ora, non c’è dubbio che il caso più semplice di formazione di un’identità collettiva, e di conseguenza di una comunità organica, si ha quando la sopravvivenza di un gruppo è messa o è stata messa in pericolo. Da questo punto di vista la società altoatesina, soprattutto per ciò che riguarda le dinamiche interne alla minoranza di lingua tedesca, si profila come un laboratorio perfetto dove tutti i meccanismi di cui abbiamo parlato in precedenza, dall’“esasperazione emotiva” al “doping identitario” sono ancora in piena fioritura condizionando non poco la vita civile e politica della società nel suo complesso. A questo proposito, è opportuno chiarire la relazione che intercorre tra questi due aspetti e che è di totale corrispondenza: il doping identitario si alimenta di esasperazione emotiva, e l’esasperazione emotiva si traduce in doping identitario.
In campo sportivo, per doping si intende l’assunzione da parte di un atleta di sostanze di origine esogena che ne alterano in modo significativo, e in termini ovviamente positivi, le prestazioni psicofisiche. La stessa identica cosa vale per il doping identitario. Si tratta di superstimolazioni – di ordine culturale, storico, politico – volte a consolidare, ravvivare, riaffermare un’identità collettiva, alimentando il senso di appartenenza a un comune destino. E nulla di meglio che fare leva sull’emozione per incrementare, sempre più spesso in modo artificioso e al di là di ogni ragionevole evidenza, le prestazioni identitarie di un determinato gruppo. Due esempi chiariranno meglio di ogni altra cosa si intenda per “continua esasperazione emotiva”. Nel gennaio del 2003, il Presidente della Giunta provinciale di Bolzano, Luis Durnwalder, l’uomo forte della Südtiroler Volkspartei, ha paragonato le sofferenze dei sudtirolesi, vittime del nazifascismo e della politica di snazionalizzazione perpetrata da Mussolini, a quelle degli ebrei sterminati dalla Shoah, suscitando un coro di indignate proteste (Alto Adige, 29/30 gennaio 2003). E ancora: nell’aprile del 2008, in piena tempesta anticinese per la repressione in Tibet, lo stato maggiore della Volkspartei, con in testa il segretario del partito, Elmar Pichler Rolle, ha convocato una conferenza stampa e lanciato un’iniziativa di sensibilizzazione pro-Tibet paragonando la storia e le traversie dei sudtirolesi dopo l’Accordo di Parigi e il passaggio all’Italia, a quelle dei tibetani sotto il regime di Pechino. Ad accumunarli, sempre secondo il partito, la repressione violenta dei moti di piazza, gli omicidi, la violazione dei diritti umani e la negazione delle libertà democratiche (Tibet come noi 60 anni fa, in: Alto Adige, 10 aprile 2008). Esterrefatto lo storico sudtirolese Hans Heiss che commenta:
“Non ci posso credere. È davvero fuorviante e storicamente scorretto. Sessant’anni fa, nel 1948, in provincia di Bolzano si svolsero le prime elezioni libere, dove la Südtiroler Volkspartei elesse i suoi primi parlamentari. A Roma questi cominciarono a lavorare per migliorare le condizioni dei sudtirolesi, che comunque non erano minimamente paragonabili a quelle dei tibetani di oggi. Allora non c’era la piena autonomia, ma i diritti civili e politici della popolazione sudtirolese erano garantiti. I candidati Svp, dopo l’elezione, andarono a Roma, dove nessuno li arrestò, li picchiò o li uccise con ferocia. Poterono dire la loro ed essere ascoltati in Parlamento.” (Tibet come noi 60 anni fa, in: Alto Adige, 10 aprile 2008).
Certo, si tratta di due esempi limite, per certi versi persino grotteschi. Ma la distanza che li separa, cinque anni, è il segno di una continuità schiettamente ideologica – nella costruzione dell’immaginario collettivo del gruppo linguistico di lingua tedesca (di cui la Volkspartei è stata ed è ancora il principale partito di riferimento), nell’interpretare il proprio ruolo, e infine nel calibrare, di conseguenza, la propria azione politica – che lascia poco margine di manovra alla possibilità di evolvere l’autonomia altoatesina verso modelli più aperti, meno condizionati da “chiamate alle armi” collettive, e più partecipativi, nel senso di una rivincita della democrazia sostanziale e dei diritti individuali sulla democrazia formale che tutela le identità collettive. È infatti del tutto ovvio che se doping identitario ed esasperazione emotiva continueranno a essere così invasivi, lo spazio per immaginare uno sviluppo diverso delle prerogative autonomistiche si fa assai ridotto. Delle due infatti l’una: o la costruzione di questo immaginario collettivo, quello in cui Durnwalder è come il Dalai Lama e i sudtirolesi sono come i tibetani perennemente minacciati nella loro identità cultura e perennemente in preda alla paura di scomparire, è frutto di un’operazione cinicamente strumentale, costruita a tavolino e volta a compattare il gruppo linguistico tedesco attorno al partito di raccolta in funzione della conservazione del potere, magari a beneficio di un’élite (operazione però, a quanto pare, fallita); oppure il senso di sé, l’identità autopercepita dei promotori di quel forzatissimo parallelismo pseudostorico è genuinamente questa. In entrambi i casi, a poco meno di quarant’anni dal varo del Secondo Statuto di Autonomia, c’è poco da stare allegri. E che le cose stiano effettivamente così, chiarito il quadro generale, è abbastanza evidente. Lo schema vincente della Volkspartei, alla prova del voto dell’ottobre scorso, è andato incontro alla propria “verità cruciale”, ma ad andare in frantumi è stato solo il carattere monolitico della Svp, non lo schema di fondo, che non solo regge, ma si è addirittura rafforzato con la vittoria dei partiti della destra conservatrice. E l’abisso che separa i partiti italiani da quelli di lingua tedesca, con la debita eccezione dei Verdi, che non sono così immediatamente classificabili essendo per loro natura interetnici, a questo punto è addirittura macroscopico. Le aspettative, l’analisi di fondo, per non dire la percezione della realtà altoatesina sono infatti decisamente divergenti.
6. Le aspettative dei partiti
Con l’eccezione di Unitalia, il cui programma è fortemente improntato in senso nazionalista italiano e che si batte contro il bilinguismo obbligatorio e per la
“Rivalutazione dell’orgoglio e del senso di appartenenza alla Comunità Italiana attraverso il recupero delle nostre radici culturali e storiche, la conservazione e la valorizzazione delle nostre tradizioni e dei nostri simboli.” (cfr. Diritti Civili e Comunità Italiana, in: Programma politico di Unitalia per le elezioni provinciali 2008)
tutti gli altri partiti nazionali riconoscono, pur con diverse modalità di declinazione, nel multilinguismo e nelle competenze interculturali un valore primario, e quindi un obiettivo da perseguire attraverso adeguate politiche scolastiche, sociali e formative. Cresce in generale la richiesta di maggiori occasioni di contatto tra i giovani dei diversi gruppi con la creazione di centri giovanili bilingui e di eventi musicali, artistici, culturali che favoriscano l’incontro, il dialogo, la reciproca conoscenza (Alleanza Nazionale, Pdl, Lega Nord, Verdi, Partito Democratico); cresce enormemente la richiesta di un sistema scolastico più aperto, plurilingue, che incentivi i contatti tra le scuole dei diversi gruppi e che sostenga le esperienze culturali che vedano coinvolte le scuole di tutti i gruppi linguistici (Lega Nord, Verdi, Italia dei Valori, Alleanza Nazionale, Partito Democratico, Sinistra dell’Alto Adige); cresce la richiesta di riconoscimento, sia in senso giuridico che come modello sociale di sintesi positiva tra diverse culture, per la realtà dei mistilingue (Verdi, Partito Democratico, Lega Nord, Pdl). Quanto ai ladini, lo stato di multilinguismo consolidato che caratterizza la realtà sociale di Val Gardena e Val Badia è tale che nel programma dei Ladins compare addirittura la richiesta di introduzione dell’indennità di trilinguismo (cfr. Indenité de trilinguism, in: Program Ladins Dolomites, 2008).
Su questi, pochi, valori di fondo che ispirano una specifica idea di convivenza e di gestione dell’Autonomia, le differenze tra le diverse formazioni, nonostante la distanza ideologica che le separa, sono effettivamente sottili, al punto che le posizioni paiono quasi sovrapponibili.
Alleanza Nazionale:
“… volontà di indicare strade di governo responsabile dell’Autonomia, che sappia rimuovere la radicalizzazione etnica e promuovere l’evoluzione dell’Autonomia in una Autonomia partecipata e rivolta alla crescita del territorio, della sua economia, delle diversità culturali e linguistiche secondo una ispirazione europea e rispettosa del ruolo che nella società da tutti i cittadini e da tutti i gruppi sociali è rivendicato.” (Premessa, in: Proposte di Alleanza Nazionale per il programma del Popolo della Libertà per una nuova autonomia altoatesina, 2008)
Verdi:
“L’Alto Adige-Südtirol può diventare laboratorio di un’Europa di pace, di convivenza e di democrazia, facendo fruttare la sua diversità culturale e linguistica, sperimentando l’integrazione e il dialogo, mettendo il plurilinguismo al primo posto.” (Una casa comune, in: Verdi elezioni provinciali 2008)
Partito Democratico:
“La sfida è quella di contribuire a costruire un Alto Adige più moderno ed innovativo, che faccia del plurilinguismo e dell’incontro delle diverse tradizioni culturali la sua forza e la sua vocazione.” (Il Partito Democratico è la voce del nuovo Alto Adige, in: Pd Programma per il nuovo Alto Adige, 2008)
Lega Nord:
“… La collaborazione fra i tre gruppi linguistici, consapevoli che la nostra terra è il nostro bene comune, dovrà essere rafforzata e si dovrà dare rilievo giuridico locale alla realtà socioculturale dei mistilingue.” (Autonomia e collaborazione fra i gruppi linguistici sudtirolesi, in: Lega Nord Programma, 2008)
Sul fronte dei partiti sudtirolesi che si rivolgono all’elettorato di lingua tedesca la musica è tutt’altra, naturalmente con l’eccezione dei Verdi interetnici. La percezione della “diversità” e della molteplicità come valori da promuovere attivamente, non esiste. L’idea del multilinguismo e delle competenze interculturali come chance o come vocazione territoriale, non esiste. Il problema dei mistilingue, non esiste. L’idea di una scuola più aperta che favorisca i contatti tra i gruppi, non esiste. Al punto che leggendo per intero il programma dei Freiheitlichen, dell’Union für Südtirol o di Süd-Tiroler Freiheit è praticamente impossibile capire che quella altoatesina è una realtà composita dove vive anche una comunità di lingua italiana. Una sorta di rimozione che ha molto di freudiano e poco di politico. Il doping identitario e l’esasperazione emotiva hanno prodotto una rivendicazione, ormai quasi incontrollabile, di “specialità”, di “unicità” che si traduce in una rivendicazione surreale di separatezza. Questo sul fronte dei partiti della destra conservatrice. Per quanto riguarda la Südtiroler Volkspartei – che di questa politica è stata unica e indiscussa monopolista per decenni – la situazione non è molto diversa, talvolta con risvolti abbastanza paradossali. Un esempio su tutti: l’unico caso in cui in tutto il programma si auspica esplicitamente il rafforzamento del rapporti tra i gruppi linguistici, questo rientra nel pacchetto di misure da adottare a tutela del gruppo etnico ladino (cfr. Die Ladinische Volksgruppe, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013). Idee chiare e tagliate con l’accetta anche sulla scuola:
“… in Südtirol und für Südtirol ist Bildung auch die Grundlage zur Wahrung und Pflege der Kulturellen Identität.” (Chancen, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013)
Ciononostante, quantomeno in ambito schiettamente culturale, senza quindi farne una bandiera, il partito di raccolta apre uno spiraglio e chiarisce quantomeno che
“Kultur ist ein breiter Bereich der Zusammenarbeit zwischen unterschiedlichen Sprachen und Kulturen und somit für Südtirol mit seiner Volksgruppenvielfalt eine Verpflichtung heute und morgen.” (Kultur, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013)
Chiariamoci però: si tratta di gestire l’esistente come si è fatto fino ad oggi, di rafforzare lo status quo, non di cambiare rotta verso una maggiore integrazione o verso politiche più inclusive. Non è un caso infatti che l’Svp si presenti agli elettori come garante dell’Autonomia, come anello di congiunzione tra passato, presente e futuro nel segno della continuità (cfr. Drei Ringe der Existenz, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013).
Cosa succederà a questo punto? Come risponderanno la Volkspartei e i partiti di lingua tedesca alle istanze di rinnovamento, di maggiore partecipazione, di maggiore apertura, di maggiore inclusione, che arrivano da ampi settori dell’elettorato italiano? Difficile rispondere. Pare abbastanza scontato che la Volkspartei, come detto più volte, si spenda da subito nel tentativo di recuperare il voto perduto a destra con politiche più conservatrici e quindi meno inclusive, meno partecipative e meno innovative nel senso di un crescente coinvolgimento dei gruppi linguistici nella gestione dell’autonomia. Un segnale abbastanza chiaro in questo senso è arrivato nei primi giorni di marzo, quando il consiglio provinciale ha messo in votazione e approvato una mozione presentata dall’Union für Südtirol che ripristina il parlamentino “monoetnico” pantirolese tra Sudtirolo e Tirolo, e quindi con l’esclusione dei trentini, riportando l’orologio indietro di una trentina d’anni, a prima della nascita del Dreier-Landtag della nuova Euregio, comprensivo invece della componente trentina e quindi italiana. Mozione presentata, come detto, dall’Unione e firmata senza fiatare anche da quindici consiglieri della Volkspartei, compreso il capogruppo (Rifacciamo l’Euregio senza Trento, in: Alto Adige, 04.03.2009). Impensabile fino a solo pochi anni fa.
Note
1 Alleanza Nazionale dell’Alto Adige aveva eleborato in vista delle elezioni un proprio documento dal titolo “Proposte di Alleanza Nazionale per il programma del Popolo della Libertà per una nuova autonomia altoatesina”, confluito solo in minima parte nei dieci punti programmatici ufficialmente fatti propri dal Pdl, e quindi anche da Forza Italia, in occasione delle elezioni amministrative dell’ottobre scorso.
2 cfr. Stopp dem Ausverkauf der Heimat, in: Das Bürgerprogramm der Union 2008; Sozial-und Gesundheitspolitik, in: Freiheitliches Wahlprogramm, 2008; Denkmal-&Ensembleschutz, in: Süd-Tiroler Freiheit Programmatische Grundzüge, 2008; Umwelt und Natur sind Heimat, in: SVP Wahlprogramm 2008 – 2013.
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Abstracts
Die Landtagswahlen 2008:
Das politische Angebot im Vergleich
Der Beitrag geht vom Wahlergebnis aus und weist nach, wie sich die Südtiroler Gesellschaft insgesamt nach rechts bewegt hat und wie dies über die wiederholte Verbindung zwischen der Ideologie des Tiroler Bauern und des ethnonationalen Populismus der deutschsprachigen, rechtskonservativen Parteien erfolgt ist. Das zunehmende, transversal zum Ausdruck gebrachte Unbehagen gegenüber der Art, wie die Autonomie derzeit verwaltet wird, mündet allerdings oft in diametral entgegengesetzte Modelle über die zukünftigen Formen der Selbstverwaltung. Multikulturalismus und Mehrsprachigkeit bilden unter den derzeitigen Rahmenbedingungen keine gemeinsamen Werte, wobei sich eine klare Bruchlinie in den politischen Programmen zwischen den deutsch- und italienischsprachigen Parteien nachweisen lässt.
Les lîtes provinziales 2008: L’oferta politica a confrunt
Le contribut va fora dal resultat dles lîtes y desmostra sciöche la sozieté südtiroleja s’à ôt döt adöm a man dërta y sciöche chësc é sozedü cun le coliamënt danter l’ideologia dl „paur tirolesc“ y dl populism etnonazional di partis todësc conservatifs de man dërta. La sensaziun da se stè ert, che se manifestëia tres deplü trasversalmënter al’espresciun defrunt ala manira de sciöche l’autonomia vëgn por le momënt aministrada, va ite porater gonot te modì diametralmënter contrars söles formes futures dl’autoaministraziun. Multiculturalism y plurilinguism ne forma sot ales condiziuns de basa atuales degügn valurs deboriada. Al se lascia desmostrè na ligna tlera de fratöra danter i partis de lingaz todësch y chi de lingaz talian.
Provincial elections: the political offers
by comparison
The article is based on election results and proves that society in South Tyrol as a whole has moved to the right and that this happened due to the repetitive connection between the ideology of the “Tyrolean farmer” and the ethno-national populism of the parties which are German-speaking, and right-wing conservative. The growing, transversely expressed unease towards the way the autonomy is currently administrated often leads to diametrically opposed models of future forms of self-governance. Under present general frameworks multiculturalism and multilingualism do not form common values, with German- and Italian-speaking parties having a distinctive dividing line in their political programs.