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Essay

Saggio

Lucio Giudiceandrea

Cosa resta del 2023
(e cosa ci occuperà negli anni a venire)

The heritage of 2023

Abstract Jannik Sinner, new star in the tennis world, fan’s favorite and most improved player of the year. This article tells how the 22 year old, born in South Tyrol, became a worldwide icon, standing for the positive values of sport: discipline, fairness, inclusion, and respect.

He came to Bolzano/Bozen, put on a big show, swayed public opinion, started an urban project changing the face of the city’s center, and in 2023 went bankrupt. End of the career of Austrian businessman René Benko.

A “creative city of music”, says Unesco. A deserved recognition for Bolzano’s long tradition of classical music. But for the city’s non-established musicians life is hard. “The administration treats our art as noise”, they complain.

Spruce Bark Beetle, the small parasitic insect which brings death to European Spruce trees, causing enormous damage to our woods. To contain this disaster man’s hand is not enough: we need help from mother nature.

1. Introduzione

Una cronologia degli avvenimenti più importanti è il modo tradizionale per ricor­dare l’anno andato in archivio; così anche nel dicembre scorso giornali, riviste, radio e televisioni hanno proposto le loro retrospettive.

Qui non trovate però una rassegna del genere, ma quattro brevi saggi che prendono spunto da quanto avvenuto nel 2023, cercando di andare oltre il dato fattuale per svelare le implicazioni del tema prescelto. Si parla di sport e del ragazzo di Sesto Pusteria/Sexten entrato nell’olimpo del tennis; di un imprenditore miliardario che ha affascinato Bolzano; di un riconoscimento prestigioso, ma non del tutto meritato; infine di un insetto che sta divorando i nostri boschi.

Non c’è alcun criterio in questa scelta, se non il fatto che mi sembrano temi di sicuro impatto anche per gli anni a venire. Seguiremo ancora a lungo le imprese di Jannik Sinner, vedremo che fine farà il WaltherPark di René Benko, avremo lodi e critiche per la politica culturale a Bolzano e assisteremo purtroppo all’opera distruttiva del bostrico, il parassita dell’abete rosso.

2. Jannik Sinner, personaggio dell’anno

Dalle Alpi alla Sicilia, nessuno ha dubbi: il personaggio dell’anno che ci lasciamo alle spalle è Jannik Sinner, per i suoi successi sportivi e non solo. L’Italia ha un ­nuovo beniamino e il tennis un nuovo idolo. Interviste, reportage, foto in copertina, libri, inviti, fan club, centinaia di migliaia di like sui suoi post… una vera Sinner-­mania. Lo confermano le statistiche di Google, in base alle quali il nome “Sinner” è quello tra i personaggi pubblici italiani che ha avuto il maggiore incremento di ricerche nel 2023. A fine stagione arrivano i premi “Fans’ Favourite” e “Most Improved Player of the Year”: è il primo italiano che riceve questi riconoscimenti della Association of Tennis Professionals (ATP). Già si pregustano i successi che verranno.

Sinner non è una sorpresa. In molti avevano riconosciuto e segnalato il talento del ragazzo nato a Innichen/San Candido il 16 agosto del 2001, e non pochi avevano previsto che sarebbe arrivato ai vertici del tennis mondiale. Così è stato. A 17 anni Sinner entra nella classifica ATP chiudendo la stagione al 551esimo posto. Quattro anni dopo è quindicesimo, migliore italiano davanti a Matteo Berrettini. Nel 2023, segnato inizialmente da problemi fisici, un crescendo bruciante: Sinner vince il ­Masters 1000 di Toronto, il China Open 500 di Pechino, l’ATP 500 di Vienna ed è il protagonista, anche se non vincitore, delle ATP Finals di Torino, riservate al Gotha del tennis. Subito dopo vengono i successi alle finali di Coppa Davis, che ­grazie alle sue vittorie riportano in Italia quel trofeo dopo 47 anni. In questa serie di incontri batte tutti e tre i nomi che lo precedono in classifica: Daniil Medvedev, ­Carlos Alcaraz e re Novak Djokovic, quest’ultimo due volte (e una terza volta nel doppio). Il tetto del mondo è a pochi passi.

L’Alto Adige/Südtirol è una terra di sportivi, questo è sotto gli occhi di tutti. Nessuna provincia d’Italia e probabilmente d’Europa ha mandato così tanti atleti alle olimpiadi in relazione al numero dei suoi abitanti. Movendo i primi passi da qui, molti sportivi sono diventati dei campioni, perché invero la caparbietà, la resistenza e una certa tendenza alla fatica e alla sfida fisica, riconosciute come tipiche della tradizione montanara, sono indispensabili per il successo di un atleta quanto la predisposizione e le doti naturali.

Negli anni ’70 c’era Klaus Dibiasi, dopo l’americano Greg Lougaris il miglior tuffatore di tutti i tempi. Tre ori olimpici dalla piattaforma e due titoli mondiali tra il 1968 e il 1976 (ma solo perché i mondiali di tuffi cominciarono nel 1973): nessun atleta locale ha un palmares così prestigioso come “l’angelo biondo”. Solo che il pubblico dei tuffi era ed è insignificante rispetto a quello del tennis, che è tra i primi cinque sport più praticati al mondo. Oltre al fatto che negli anni ’70 la produzione e lo sfruttamento commerciale degli avvenimenti sportivi da parte della televisione erano appena agli inizi.

Lo stesso vale per Gustav Thöni, lo sciatore più forte di tutti in quegli anni. Ha un oro olimpico, cinque titoli mondiali e “solo” 24 vittorie in gare di coppa del mondo, ma è risultato primo per quattro volte nella classifica generale, prova che oltre ad affrontare i pendii e le porte, sapeva pensare strategicamente. Era ed è rimasto una persona timida, a disagio di fronte a microfoni, fotografi e telecamere; ma furono i suoi successi e quelli della valanga azzurra, a partire dai campionati mondiali del 1970 in val Gardena, a dare un forte impulso all’industria bianca (e a fare delle ­Dolomiti la mecca dello sci). Bisognerà attendere le imprese di un eccentrico come ­Alberto Tomba negli anni ’90, amplificate e rilanciate da un sistema dell’informazione ormai adulto, per iniziare a parlare di sport di massa. Fermo restando che lo sci è praticamente sconosciuto fuori dall’Europa e dal Nordamerica.

Non si diventa una star mondiale vincendo nei tuffi, né nello sci e tantomeno nello slittino, altrimenti sarebbe famosissimo il nome di Armin Zöggeler. Dal 1995 al 2011 ha collezionato due ori olimpici, sei titoli mondiali ed ha vinto per dieci ­volte la classifica generale di coppa del mondo; giustamente s’è meritato lo stesso soprannome del ciclista Eddy Merckx, il “cannibale”, un altro che non concedeva nulla agli avversari. Alex Schwazer è invece un caso a parte. L’oro olimpico di ­Pechino 2008 nella 50 chilometri di marcia lo ha reso nazional-popolare; lo si è visto nei salotti tv insieme alla sua compagna di allora Carolina Kostner e anche protagonista di uno spot per un cioccolato. Schwazer ha riguadagnato un suo pubblico anche dopo le disavventure con il doping e probabilmente anzi proprio per la convinzione con la quale si difende. Nel 2021 il festival di Sanremo gli ha dedicato sei minuti di intervista, il che è significativo vista la portata mediatica dell’evento. Il suo caso è trattato in una serie Netflix di quattro puntate, mentre nel 2023 anche il reality “Il grande fratello” lo ha avuto tra i suoi ospiti. Personaggio suo malgrado, viene da commentare. Un fenomeno unico è poi quello di Reinhold Messner, che si è conquistato fama mondiale scalando montagne e ghiacciai e l’ha consolidata coi suoi libri, i suoi musei, i suoi film, le sue ricerche e le sue prese di posizione a favore di politiche sostenibili per la montagna. Tutto questo gli vale grande autorevolezza e gli consente un’indipendenza di giudizio che vanno molto al di là dei suoi meriti strettamente sportivi.

Se anche Sinner diventerà come Dibiasi, Thoeni, Zöggeler e Messner “il più forte di tutti” si vedrà dai risultati. Ha ventidue anni e la sua carriera è ancora lunga; facile prevedere che dominerà le cronache sportive, e non solo, per molto tempo. Intanto, migliaia di giovani e giovanissimi iniziano a praticare il tennis, affascinati dalle imprese di Jannik. Quanto sia arrivata a valere la sua immagine lo dicono i contratti pubblicitari firmati con i più prestigiosi marchi internazionali, tra cui ­Rolex, Gucci e Nike, quest’ultimo con un compenso di 150 milioni di dollari in ­dieci anni. Sono cifre pagate a tutte le stelle del tennis, che in cambio devono quel che in tedesco si dice liefern: portare a casa risultati, correre di torneo in torneo, essere presenti, curare le relazioni, concedersi alle interviste, alle photo opportunity, agli incontri coi tifosi, nutrire i social stando attenti a ogni parola. E tutto ciò in ­aggiunta agli allenamenti. Da questo punto di vista, Sinner è una rotella nel business mondiale dello sport, e c’è solo da augurargli di riuscire a reggere i ritmi infernali che il sistema impone alle sue icone. Come c’è da augurargli di resistere alla pressione dei tifosi, perché se le aspettative non vengono soddisfatte, l’entusiasmo diventa delusione e le lodi lasciano il posto agli attacchi.

Per ora sembra che questo ragazzo alto, dal portamento dinoccolato, viso aperto, capelli rossi e mossi, sguardo modesto e allegro (ma non quando è in partita, dove diventa serio e severo), abbia qualcosa in più rispetto ai suoi avversari, e ciò non tanto per la sua strabiliante crescita come atleta. È che lui meglio di altri rappresenta i valori dello sport, o meglio i valori che noi proiettiamo nello sport, che spesso per la verità è tutt’altro: l’impegno, la costanza, il rispetto delle regole e dell’avversario, la lealtà, la correttezza.

Fin da ragazzino, Sinner è il primo che si presenta agli allenamenti e l’ultimo che vuole smettere, sempre impegnato a “lavorare”, come ormai dicono tutti gli atleti, a migliorare, ad analizzare le partite facendo lezione di vittorie e sconfitte. Il pronome che usa di più è il “noi”, per ricordare che i successi si devono al team e ai tifosi che lo sostengono. Mai una protesta, mai una accusa, mai una scusa. Per nulla esibizionista, al contrario di tanti campioni della racchetta, solo di recente ha imparato a compiacersi dei colpi vincenti agitando l’avambraccio destro col pugno chiuso e qualche volta chiamando con la mano l’applauso del pubblico. Ha sangue freddo e nervi saldi, tanto da riuscire ad annullare tre matchpoint di fila a Djokovic. D’altra parte era lucido già da ragazzino, quando era una promessa sia dello sci che del tennis; scelse quest’ultimo perché, disse, nello sci se sbagli una sola volta hai già perso, nel tennis puoi sbagliare, ma vincere lo stesso. Vive per il suo sport, ma sa che al mondo c’è altro. “La mia pressione è niente in confronto a quella di un chirurgo, di un capofamiglia che deve mettere in tavola la cena. Questa è pressione: non sapere se ti entra un razzo in casa tra cinque ore o cinque giorni. Giocare a tennis è una cosa di cui sentirsi onorati. Mi rende felice ma è giusto avere dubbi”. Questa bisogna ricordarsela: “È giusto avere dei dubbi”. La modestia gli viene dalla famiglia e dall’ambiente in cui è cresciuto. Il padre Hanspeter fa il cuoco in un rifugio della val Fiscalina, la madre Siglinde serve in sala. Alle Finals di Torino, prendendo posto nella tribuna riservata, Frau Sinner chiede ad uno steward se può stare lì, senten­dosi rispondere: signora, lei può stare dappertutto, tranne che in campo.

Macchia l’aura di simpatia e stima che circonda Sinner l’aver trasferito la residenza fiscale a Montecarlo. Vengono subito in mente altri nomi di stelle dello sport e dello spettacolo che hanno fatto altrettanto: Matteo Berrettini, Lorenzo Musetti, Giancarlo Fisichella, Loris Capirossi, Luciano Pavarotti, Katia Ricciarelli…; e poi non c’è solo il Principato come paradiso fiscale: Valentino Rossi aveva scelto ­Londra, Sofia Loren la Svizzera… Non è per dire: lo fanno tutti, ma per segnalare che in realtà le critiche e gli insulti tolgono assai poco all’ammirazione di cui continuano a godere questi personaggi. Ci sono le folate di indignazione, con lettere ai giornali e commenti di severi corsivisti, poi si torna all’esaltazione.

Sinner avrà messo nel conto anche questo, come avrà messo nel conto l’esame di italianità, cui vengono sottoposti da certo giornalismo gli atleti che portano la maglia azzurra non appena c’è qualcosa che sembra stonare. Può essere il colore della pelle nei casi di Paola Egonu, Mario Balotelli e altri, che anzi secondo molti non andrebbero neppure ammessi all’esame di italianità; per gli atleti sudtirolesi è la provenienza da questa strana provincia, notoriamente da guardare con sospetto. Bisogna quindi fare attenzione: se durante le premiazioni cantano l’inno nazionale, gli occhiuti giornalisti (per fortuna non tutti) li lodano e si compiacciono; se non li vedono muovere le labbra, possono anche piazzarti un microfono davanti alla bocca e chiederti almeno la prima strofa. È realmente successo a Gerhard Plankensteiner, bronzo dello slittino doppio a Torino nel 2006. “Non conosco questa canzone”, s’è difeso l’atleta di Vipiteno.

Contro Sinner non si sono mobilitati tanto i tifosi, quanto il giornale che vuole esserne la voce e la guida, la “Gazzetta dello sport”, critica fin da quando l’atleta nel 2021 aveva rinunciato alle olimpiadi di Tokyo e scatenata nel settembre 2023 dopo il no del campione alle fasi iniziali della Coppa Davis. Oggi tutti concordano che quella di Sinner è stata una scelta giusta; l’atleta era reduce da una fitta serie di ­incontri, lamentava guai fisici e aveva comunque assicurato che avrebbe giocato la fase finale della Davis (i tennisti, tra l’altro, non sono i soli sportivi a lamentarsi di un calendario massacrante). Il quotidiano rosa la prende invece come un’offesa, dedicandogli la copertina dell’inserto settimanale “Sportsweek” con una foto a ­mezzo busto e il titolo “Caso nazionale”, dove il caso nazionale sarebbe dato dal ­fatto che Sinner si sente poco o per nulla italiano. Se il suo 2023 non si fosse chiuso con tutti quei successi, l’avrebbero demolito. Invece l’enfasi delle vittorie ha silenziato le accuse, e la campagna della Gazzetta si è arenata (pronta a ripartire se i ­risultati non dovessero brillare).

Facciano pure l’esame anche a Sinner, compreso l’inno: lo supererà a pieni voti. Intanto ha già unito l’Italia sportiva, dalle Alpi alla Sicilia, appunto. È nato e ha vissuto in Val Pusteria, secondo le tradizioni di quel luogo; è cittadino italiano di madrelingua tedesca, tesserato presso la federazione italiana, ha un nome e un cognome che finiscono per consonante, parla il suo dialetto pusterese, il tedesco, l’italiano, l’inglese. A tredici anni si è trasferito a Bordighera, in Liguria, al Tennis center di Riccardo Piatti; è di casa negli ambienti internazionali, indossa la maglia azzurra nelle competizioni a squadre… C’è bisogno di fargli la radiografia per capire se si sente italiano in misura sufficiente? C’è bisogno anche qui di estorcergli una dichiarazione di appartenenza?

Alla fine dunque ci risiamo. Dopo la dichiarazione di appartenenza (o aggregazione) a gruppo linguistico, che ogni bravo cittadino dell’Alto Adige/Südtirol è tenuto a compilare, si pretende dagli atleti sudtirolesi la dichiarazione di appartenenza nazionale. Cascano le braccia.

Forza Jannik!

3. Un miliardario a Bolzano

A partire dagli anni 2000 in Austria si sono fatti conoscere almeno tre Wunder­kinder, due nel campo della politica, il terzo dell’economia. Come si conviene ai giovani, dovevano svecchiare, innovare, portare nuova aria nella Alpenrepublik; avevano successo, fama e potere, piacevano, erano circondati da sinceri ammiratori e collaboratori più o meno interessati. Sono caduti tutti e tre.

Il primo è Karl-Heinz Grasser, cresciuto politicamente con Jörg Haider e nominato nel 2000, a 31 anni, Ministro delle finanze nel primo governo Schüssel. Gran sostenitore delle privatizzazioni, brillante conferenziere, personaggio mondano, Grasser s’interessa più alle finanze proprie che a quelle dello Stato. Travolto da una serie di scandali, lascia la politica nel 2007.

Il secondo è ancora più prodigioso nell’ascesa e nella rovina. Nel 2013, a 27 anni, Sebastian Kurz è Ministro degli esteri, a 31 prende il controllo del suo partito, la ÖVP, e diventa Cancelliere, il più giovane nella storia austriaca. La sua stella tramonta il 9 ottobre 2021, quando anche lui è costretto a lasciare in seguito ad un’indagine per corruzione.

Renè Benko è il terzo Wunderkind. Mollati i banchi di scuola a 17 anni, si fa strada come imprenditore immobiliare. Inizia ristrutturando soffitte, apre cantieri sempre più grandi e realizza palazzi sempre più prestigiosi, fino a diventare il quinto uomo più ricco del suo paese. L’informazione va presa ovviamente con riserva, ma è la Signa Holding stessa, da lui fondata, che dichiara di avere in portafoglio proprietà valutate per complessivi 27 miliardi di Euro, tra il resto anche quote del ­Chrysler ­building di New York. Nel 2023 i conti della Signa vanno in rosso. La holding avvia una serie di dismissioni, che però si rivelano insufficienti per far fronte ai bisogni di cassa. Agli inizi di novembre l’assemblea dei soci costringe il fondatore alle dimissioni, il 29 di quel mese l’impero Benko crolla definitivamente, quando il commissario chiamato a risanare la Signa Holding travolta da cinque miliardi di debiti è costretto a presentare istanza di fallimento al Tribunale commerciale di Vienna.

Non è escluso che Benko possa tornare sulla scena, protagonista di nuovi affari; intanto possiamo fare qualche considerazione sul rapporto tra l’imprenditore e la città di Bolzano, le sue istituzioni e i suoi abitanti. Per quanto i cantieri aperti qui siano piccola cosa rispetto al suo giro d’affari, la presenza del miliardario austriaco scambiato per una sorta di re Mida del cemento è stata decisamente ingombrante. Il progetto che alla fine è riuscito a far passare nelle trattative con il Comune sta cambiando il volto del centro storico, attacca interessi consolidati e rimescola l’opinione pubblica in modo assai singolare.

La definiscono “gentrificazione”: comprare il vecchio, farne lusso, vendere o affittare. Così si è mosso Benko nella sua Innsbruck e poi nelle grandi città tedesche: Vienna, Monaco, Amburgo, Berlino…; e così ha fatto anche a Bolzano col suo “Progetto di riqualificazione urbanistica” di una vasta area degradata del centro tra ­Viale Stazione, Via Alto Adige e Via Garibaldi, presentato ufficialmente nel 2013 dalla Kaufhaus Bozen Srl. In sostanza la proposta è questa: il Comune cede la vecchia e fatiscente stazione delle autocorriere e una parte del parco della stazione; in cambio ottiene cento milioni di Euro, settanta cash, il resto in opere pubbliche (una galleria sotto via Alto Adige, che diventerà zona pedonale, e la stazione delle autocorriere in via Renon). L’operazione non finisce qui, perché Benko in quegli anni si assicura il diritto di acquisto di altri immobili confinanti (l’albergo Alpi, un condominio che ha fatto il suo tempo, la ex sede della Camera di commercio) e dispone ora dello spazio per realizzare il suo “WaltherPark” che comprende un centro commerciale progettato dall’archistar David Chipperfield, un albergo, uffici, appartamenti di lusso, 830 posti auto sottoterra. Dell’accordo tra l’imprenditore, il Comune e la Provincia autonoma di Bolzano è parte anche l’intesa che verranno rilasciati tutti i permessi e le concessioni. Il Wunderkind sa come si mettono in piedi questi progetti.

Al Sindaco Luigi Spagnolli sembra un buon affare per la città, giudizio che mantiene fino a oggi. Della stessa opinione il suo successore Renzo Caramaschi, che più volte ha dichiarato: la città ci ha guadagnato 100 milioni. In realtà, almeno un punto incerto c’è, perché a fronte di questa dichiarazione del primo cittadino, risulta da un’interrogazione che il Comune deve in realtà acquistare per oltre 27 milioni le opere infrastrutturali previste dall’Accordo di programma sul “WaltherPark”; se davvero è così, allora i 27 milioni vanno sottratti, non aggiunti, a ciò che incassa il Comune, e i suoi primi cittadini si sono sbagliati di grosso.

La legge urbanistica provinciale, riaggiustata più volte proprio in funzione di questa operazione, così denunciano i Verdi/Grüne/Vërc, prevede che i privati pos­sano presentare progetti di riqualificazione ai comuni e anzi semplifica in quei casi la procedura. Una volta definito, il progetto non può più essere modificato: lo si ­accetta così come è o lo si boccia. Proprio in questa situazione viene a trovarsi il Comune, che nel luglio del 2015 approva con un voto dell’assemblea cittadina ­l’Accordo di programma sul “WaltherPark”. Da allora fino all’apertura del cantiere nell’estate del 2019 passano altri quattro anni con varie turbolenze. La giunta ­Spagnolli va in minoranza, anche se non su questo tema, ma il Sindaco, con una mossa molto contestata, prima di lasciare avvia tutti i passi necessari per mandare avanti l’Accordo. In Comune arriva quindi un commissario che nel 2016 indìce una consultazione popolare, vinta dai sostenitori del “WaltherPark” con due terzi dei voti.

Come dice Spagnolli, il Comune non ha i mezzi per interventi di questa portata; la collaborazione con imprenditori privati è dunque inevitabile, se non auspicabile. Dato però che gli imprenditori di solito non sono dei benefattori ma investono per guadagnare, bisognerebbe valutare quali vantaggi derivano dalle loro operazioni per il pubblico (oltre agli utili per il privato). Si risana una zona degradata, teatro di episodi di criminalità: così si è spesso ripetuto, anche per strizzare l’occhio all’opinione pubblica che chiede più sicurezza. D’accordo, ma alla città vecchia serve proprio un centro commerciale con fino a sette piani sopra terra? Il Comune non poteva scegliere altra destinazione per quelle aree, prevedendo più spazio per l’edilizia residenziale visto che a Bolzano mancano case? Il fatto è che la logica del “prendere o lasciare” privilegia gli imprenditori, in particolare quelli forti, e lascia ai governanti poche possibilità di far valere le ragioni della collettività. Se non altro, la vicenda Benko ha il merito di aver messo a nudo questa dinamica.

È significativa anche la vittoria ottenuta dal “WaltherPark” nella consultazione popolare, che ha finito per essere una sorta di legittimazione pubblica del progetto, al di là delle contestazioni su questo o quel passaggio procedurale. Si possono contestare le modalità con cui è stata organizzata la consultazione (seggi aperti per sei giorni, voto anche ai sedicenni…), ma l’indicazione delle urne è univoca. Il miliardario austriaco ha compiuto l’impresa di portare dalla sua soprattutto la Bolzano italiana, la Bolzano popolare che si sente Cenerentola nella provincia tedesca ricca, benestante e così piena di opere e progetti. Fin dall’inizio Benko insieme a Heinz Peter Hager, luogotenente dei suoi interessi in Italia, conduce una campagna di persuasione molto professionale ed efficace, sistematicamente bi- o trilingue (italiano, tedesco, inglese), un principio non sempre rispettato. Si fa vedere insieme a personaggi come l’eroe nazionale austriaco Niki Lauda, il fondatore di Eataly Oscar ­Farinetti, l’industriale austriaco Hans-Peter Haselsteiner, tra i maggiori azionisti della Signa e bolzanino d’adozione, lo stesso Luis Durnwalder, la cui opinione ha ancora peso. E poi gli incontri coi cittadini, lo show room con tutti i dettagli del “WaltherPark”, dépliant patinati e rendering spettacolari, presenza sui social media, slogan enfatici: “È tempo di svolta”, “Grüne Oase in der Stadt”, “Edificio sosteni­bile”, “Ciao shopping lovers”… Insomma, come sarà bella e lustra e prestigiosa la vostra città! Per costruire “il nuovo salotto di Bolzano” occorrono operai, cemento, gru, le carte con tutti i permessi e un bene più sottile: il consenso della popolazione. Hanno saputo come procurarsi anche questo.

Il Wunderkind non è stato invece bene accolto da buona parte della borghesia sudtirolese, e questo è inusuale per un imprenditore che viene dal Vaterland, godendo con ciò di un bonus di credibilità e serietà (almeno in quegli ambienti). Ma gli affari sono affari, e i Laubenkönige padroni di Via Portici e di buona parte del centro storico avversano il “WaltherPark” perché mette sul mercato nuove superfici commerciali minacciando così le loro rendite di posizione: finora le grandi catene di negozi devono bussare da loro se vogliono aprire a Bolzano. Una cordata di imprenditori locali presenta un progetto alternativo, che però perde la gara indetta dal ­Comune. Finisce nel nulla anche una causa davanti al Tribunale amministrativo; Benko ha subìto una condanna da un tribunale austriaco, ma ciò non è causa sufficiente per escludere una sua società dalla gara, come chiedevano i ricorrenti. La ­lobby del centro storico, data come la più potente in città, perde il confronto con l’imprenditore venuto da Innsbruck.

Un altro aspetto paradossale è che in questa contrapposizione una formazione politica che si autodefinisce anti lobby come il Team K, si è ritrovata dalla stessa parte dei Laubenkönige. Gli argomenti del Team K non sono certo gli stessi dei loro imprevisti alleati, questo va detto con chiarezza; ma la polarizzazione “Benko sì – Benko no” ha finito per sommergere le loro ragioni, che sono quelle di cui si è detto e che è difficile contestare, almeno in linea di principio: democrazia vorrebbe che sia il Comune, non un privato, a decidere come deve svilupparsi la città.

Contro gli avversari bolzanini Benko ha vinto, anche se non su tutta la linea. Fosse stato per lui, avrebbe comperato anche la collina del Virgolo, altra zona degradata e dunque per lui appetibile. Voleva piazzarci un auditorium e un paio di musei, a iniziare da quello per Ötzi, la mummia del Similaun, che chissà perché avrebbe dovuto essergli messa a disposizione. Avrebbe costruito anche una funivia per collegare la collina al suo “WaltherPark”, facendo cassa anche con quella. Il progetto si chiamava “Viva Virgolo”, ma è stato bocciato dalla Conferenza dei servizi, l’organo che doveva valutare varie proposte per il nuovo museo della mummia.

Nonostante il fallimento della holding e superate le iniziali difficoltà tecniche dovute a infiltrazioni d’acqua, al cantiere bolzanino si continua a lavorare (gennaio 2024). La società Kaufhaus Bozen Srl assicura che sarà terminato entro la prima­vera del 2025. Hager mette in fila una serie di argomenti per rassicurare (d’altronde non può far altro). Sostiene che il “WaltherPark” resterà fuori dalla massa fallimentare della Signa Holding. La costruzione è a buon punto, le risorse per finire l’opera ci sono, nessuno può avere interesse a bloccare tutto. Non gli investitori della Signa e consociate, e tantomeno le tre maggiori banche locali, la Volksbank, la Cassa di ­Risparmio di Bolzano, la Raiffeisen-Landesbank. Finora hanno investito circa 84 milioni di Euro; di fronte al rischio di perderne una buona parte, potrebbero decidere quel che si definisce una fuga in avanti: metterci altri soldi e portare a termine loro l’operazione. Sembra ragionevole visto che “le risorse ci sono”, ma non è detto che le cose si svolgano in modo ragionevole. Onestamente c’è da ritenere che nessuno sappia davvero come andrà a finire. Può darsi che l’operazione giunga a buon termine, nel qual caso potremmo dire di averla scampata bella; resterà poi da vedere come cambieranno i flussi del traffico e degli affari, che fine faranno i Portici, i pochi piccoli negozi che ancora sopravvivono e via dicendo. Lo scenario peggiore è che nella gestione di un fallimento così complesso come quello della ­Signa Holding Bolzano resti per anni con un rustico in progressivo degrado… fino a quando si presenterà un nuovo risanatore.

4. Un riconoscimento contestato

La notizia ha inorgoglito gli amministratori comunali e merita un posto d’onore nella storia della città. Dal 31 ottobre 2023 Bolzano può fregiarsi del titolo “Città creativa della musica”, assegnato dall’Unesco. Forse meno prestigioso di quello ottenuto nel 2009 dalle Dolomiti, “Patrimonio mondiale dell’umanità”, ma pur sempre un riconoscimento ambìto, di cui possono vantarsi solo altre due città italiane: Bologna e Pesaro.

Bolzano è stata premiata per la sua lunga tradizione in fatto di musica classica. Non è il caso di enfatizzare troppo, a questo riguardo, le tre visite di W. A. Mozart, tra il 1769 e 1772. Il ragazzo si fermò in realtà pochi giorni in città. “Botzen” non gli piaceva; alla sorella scrive che è traurig, anzi un Sauloch. Però dalle cronache sappiamo che già allora nelle case dei bolzanini benestanti si faceva musica da camera. Dalla seconda metà dell’Ottocento è documentata l’attività di insegnamento del Musik­verein Bozen, assorbito dopo l’annessione dell’Alto Adige/Südtirol all’Italia dal Liceo Musicale Gioacchino Rossini. Quest’ultimo divenne nel 1939 il Conservatorio Claudio Monteverdi, per il quale sono passate generazioni di bolzanini e fior di insegnanti, non solo quell’Arturo Benedetti Michelangeli che fu salutato come “il nuovo Liszt” e che insegnò qui dal 1950 al 1959.

Beato chi può farlo, ma non è necessario assistere all’esibizione delle grandi star per vivere l’emozione della musica, di qualsiasi musica, altrimenti essa non sarebbe presente in ogni angolo del mondo, fatta con più o meno professionalità, ma sempre con trasporto e passione. I bolzanini hanno avuto anche quelle occasioni, con Michel­angeli e con il “Concorso pianistico internazionale Ferruccio Busoni”, fondato da Cesare Nordio nel 1949. Molti nomi del suo albo d’oro sono entrati nella storia: Sergio Perticaroli, Martha Argerich, Roberto Cappello, Liliya Zil’berštejn sono tra i più famosi. Ottima musica è proposta dalla Società dei concerti, attiva dal 1942, e dall’Orchestra regionale Haydn di Trento e Bolzano, fondata nel 1960. Del 1977 è invece la legge provinciale sugli istituti musicali in lingua italiana, tedesca e ladina con sede a Bolzano. Per completezza andrebbero citate le bande, i cori, i gruppi strumentali e le associazioni e agenzie private formatisi negli anni e attivi a ­Bolzano, come del resto in moltissimi paesi e città non solo della nostra provincia.

Tra gli anni ’70 e ’80 l’Assessore alla cultura Claudio Emeri lanciò le estati musicali, di cui sono ospiti regolari fino ad oggi l’Orchestra giovanile della Comunità europea e la Gustav Mahler Jugendorchester. A dirigerle sono venuti fior di maestri, a iniziare da Claudio Abbado, cui piaceva molto lavorare con i giovani talenti perché, diceva, con loro puoi provare nuove interpretazioni, mentre i musicisti di orchestre più rinomate sono meno flessibili; in questo senso, Bolzano è stata davvero “città creativa della musica”. Da una buona iniziativa ne nascono altre; così da allora l’offerta delle estati bolzanine è andata ampliandosi e differenziandosi, sempre col sostegno del Comune e dei suoi sindaci, trovando nuovi sponsor pubblici e privati. Da luglio a metà settembre c’è da uscire ogni giorno con il “Südtirol Jazzfestival”, la rassegna “Bolzano Danza”, i concerti delle orchestre giovanili, il concorso Busoni, le performance del festival multidisciplinare “Transart” e molto altro. Negli ultimi anni l’amministrazione comunale guidata da Renzo Caramaschi ha aperto ai concerti il Parco delle Semirurali, valorizzandolo e coinvolgendo nuovo pubblico: ottima mossa. Alla musica, anzi più specificamente al musical, è riservata quest’anno la rassegna “La musa leggera”, proposta dal Teatro Stabile di Bolzano, che porta in città successi come “Sister Act”, “Neverland”, “Elvis” e “Chicago”.

Tutto bene dunque per la musa Euterpe a Bolzano? C’è chi ribatte niente affatto! Ci vorrebbero anzi cinque minuti di silenzio per commentare quel riconoscimento, ha detto il frontman di una storica band bolzanina, al termine della “Blues rock session”, organizzata nel novembre 2023 al teatro Cristallo. Parla a nome dei tanti musicisti non professionisti, che anche se non vivono della loro arte, si ritrovano per suonare e cantare, spesso peraltro a livelli notevoli. Propongono rock, blues, pop, heavy metal, west coast, repertorio italiano, disco, tecno, elettronica, pezzi originali e insomma tutto ciò che piace ai giovani d’oggi.

Non ci sono solo la classica o i grandi concerti come quello di Irene Grandi nel giugno 2023 o di Laura Pausini nel gennaio 2024 alla Sparkasse Arena. Quelli sono eventi che viaggiano su ben altri binari e che in fondo hanno poco a che fare con la città che li ospita, se non per la logistica. Però a Bolzano come in molte città c’è un fermento underground, che nasce dal basso, dall’entusiasmo di giovani che suonano nelle loro stanze, in cantine insonorizzate o in studi improvvisati. Il tempo e la pratica si incaricano di fare selezione. I più abbandonano gli strumenti, ma restano conservati alla musica come pubblico. Per alcuni l’entusiasmo diventa passione; vanno avanti, studiano, provano, migliorano, incidono pezzi, salgono sul palco e ottengono i loro successi piccoli o grandi. Pochissimi riescono, come si dice, a sfondare; ma anche in questo caso l’importante non è l’eccellenza, ma una buona media, con artisti capaci di intrattenere ed emozionare le persone: per cos’altro andiamo ai concerti? L’importante è tener viva un’arte, qualunque siano i suoi strumenti, le sue note, i suoi ritmi, le sue sonorità, che nasce dallo stare insieme, dall’accordarsi e armonizzarsi, dal realizzare qualcosa di originale con altri e per altri. A Bolzano questa scena c’è, animata da molti artisti di ottimo livello; solo che non gode della considerazione che meriterebbe da parte della “Bolzano città creativa”.

Sintomatico quanto accaduto all’“Altstadtfest - Festa della città di Bolzano” dello scorso settembre, organizzata ogni due anni da una ventina di associazioni di volontariato per raccogliere fondi. Gli stand vendono da mangiare e da bere, qualcuno ha la sua band, e ci sono sette palchi con musica dal vivo in diversi luoghi del ­centro. Succede che quattro locali privati chiedono di poter ospitare anche loro dei complessi negli stessi giorni; il Comune nega però l’autorizzazione perché quelle iniziative avrebbero danneggiato le associazioni. “Il comune vieta il rock”, titola un quotidiano. In realtà nel programma della festa si leggono i nomi e si intuiscono i generi più vari: Musikkapelle Zwölfmalgreien, Carlitos Band, Silver Beats, ­Creedence Song Band CCR Tribute, Blasco… c’è persino una Homeless Band. Non è che Bolzano vieta il rock; anche in luglio ci sono stati i Four Ever che hanno riempito Piazza del Grano di rock e di blues. Il fatto è che suonavano in occasione del “Giovedì culturale dell’Euregio”. Ed è questo che sembra interessare maggiormente al Comune: l’accredito, la cornice ufficiale. Chi non è allineato e riconosciuto non suona, almeno in pubblico.

Mancano spazi attrezzati. Il Cubo, che metteva a disposizione sale prova e strumenti, ha chiuso nel 2006. Stessa sorte nel 2013 per un’altra iniziativa privata, il Rock’n’roll club di via Galvani, che ci aveva provato con grande slancio, riscuotendo inizialmente buon successo. Solo che è stato impossibile mantenere nel tempo quel livello di pubblico, ha riconosciuto lo stesso imprenditore; probabilmente la città è troppo piccola per certe iniziative. Ci sono state in passato associazioni e circoli che hanno dato spazio alla scena musicale locale, ma la loro attività può sopravvivere solo se arrivano contributi pubblici. Quelli del Comune di Bolzano sono ridottissimi, anche perché la maggior parte se ne va per i grandi concerti classici; quelli della Provincia dipendono dall’orientamento dell’assessore di turno. Ne sa qualcosa l’ex circolo Masetti di via Resia, che ha dovuto gettare la spugna nel 2011 dopo anni di onorata attività. Tra i teatri pubblici, il Cristallo è quello che più spesso offre un palco alle band, mentre fa un gran lavoro di promozione il Sudwerk, che invece è un locale privato tenuto in vita dalla passione dei suoi proprietari. Lì si suona musica per tutti i gusti, finché si vuole.

Suonare all’aperto è una corsa ad ostacoli, secondo l’esperienza di organizzatori e musicisti. Lo storico locale Cà de Bezzi dispone di un cortile e in stagione occasionalmente ospita spettacoli, tra cui musica dal vivo. Solo che bisogna smettere ­entro le 20:00, consiglia la Polizia Municipale, perché se arriva anche solo una telefonata di protesta per schiamazzi, si deve intervenire per “tutelare la pubblica quiete”. Nel 2023 gli agenti hanno interrotto una manifestazione di musica metal organizzata dal Museion sul lato delle passeggiate, mentre l’amministrazione comunale ha silenziato le iniziative del Grest, il gruppo estivo al Centro pastorale di via ­Gutenberg, negando l’uso di microfono e altoparlanti. Sui prati del Talvera, lato città vecchia, c’è un piazzale usato d’estate per feste e concerti; ma anche qui il vici­nato protesta e bisogna smettere alle 23:00. Almeno per quelle quattro serate l’anno si potrebbe essere più tolleranti.

Più che “creativa”, la politica culturale seguita a Bolzano sembra molto istituzionale, ossequiosa, ingessata, conservativa, spaventata dalla burocrazia, diffidente verso il nuovo. Ha le sue manifestazioni importanti e blasonate e di quelle si accontenta. Il confronto con altre città e paesi della provincia è desolante. Il Renon, per dire, dove la buona borghesia di Bolzano va in Sommerfrische, è un luogo che si può senz’altro definire “perbene”; ma ciò non impedisce di ospitare ogni luglio “Rock im Ring”, con migliaia di giovani e decine di band. Numeri ridotti, ma grandi nomi della musica rock caratterizzano invece lo “Steinegg Live Festival”, che ha reso famoso il paesino di Collepietra portandovi musicisti come Chuck Barry, i Colosseum, il batterista dei Rolling Stones Charlie Watts e molti altri. La provincia non è affatto provinciale, tanto è vero che da lì sono venuti negli ultimi anni musicisti molto originali e affermati, come Herbert Pixner e Manuel Randi, le Ganes, con le loro splendide voci, Alex Trebo e le sue magie alla tastiera, Max Castlunger, percussionista che saprebbe far suonare persino un batuffolo di cotone, nonché gran trascinatore. Hanno potuto crescere evidentemente perché ci sono strutture, teatri e sale attrez­zate e più in generale un contesto favorevole alla tradizione come all’innovazione. Anche Bolzano potrebbe dar prova di ciò, per esempio con un appuntamento annuale che apra la città ai giovani e alla loro musica.

Di “creativo” c’è ben poco anche a giudicare da come vengono trattati a Bolzano i musicisti di strada. Tanto per iniziare li si definisce “suonatori ambulanti”, come si legge nell’ordinanza firmata dal Sindaco nel 2019. Lì si accerta che “sempre più abitanti, negozianti ed esercenti libere professioni lamentano il continuo e fastidioso disturbo” da essi causato e che la presenza di “mestieri girovaghi… reca intralcio e disturbo al libero passaggio di pedoni e veicoli”. Perciò si ordina: primo ci vuole una licenza della Polizia Municipale; secondo si può suonare solo dalle 10:00 alle 12:00 e dalle 16:00 alle 19:00 cambiando posto ogni ora; terzo si suona solo in tredici zone della città, escluso praticamente tutto il centro, rispettando “debita distanza da luoghi di culto, scuole, ospedali, pubblici uffici…” e soprattutto dai negozi. Questo ­l’ordinanza non lo dice, ma sono stati i negozianti del centro a chiedere e ottenere queste limitazioni. Quarto non si ammettono suonatori ambulanti durante altre manifestazioni autorizzate. Segue una decina di altri ordini, avvertimenti e minacce che possiamo risparmiarci.

Euterpe, “colei che rallegra”, è la musa della musica. Quando si sente qualcuno suonare o cantare, bisognerebbe tentare di sfruttare appunto questa possibilità: ricavare piacere da quei momenti (e dare un piccolo obolo a chi ce lo procura). Invece Bolzano tratta certa musica come rumore. A stonare, in questo caso, è la città.

5. Piccolo insetto – enormi danni

È un autentico disastro, ma almeno il 2023 è stato l'anno in cui anche i non addetti ai lavori hanno iniziato a prendere atto della gravità e delle implicazioni del problema: il bostrico sta distruggendo gli abeti rossi, che fanno circa il 60 per cento dei nostri boschi. Finora ha compromesso diecimila ettari, pari al 2,6 per cento della superficie forestale della provincia di Bolzano; la percentuale può sembrare modesta, ma ci sono interi pendii devastati, e dove le colonie dell’insetto colpiscono, lo fanno in modo devastante. I dati sulla sua diffusione sono raccolti nella “Relazione sul bostrico in Alto Adige/Suedtirol 2023”, completa di tutti i provvedimenti adottati, presentata a fine dicembre anche per rispondere alle critiche di attendismo venute da più parti: da comuni cittadini allarmati, come da esperti. Se può essere una consolazione, come o peggio di noi sono messe altre aree alpine in Italia, Svizzera, Austria e Slovenia, mentre in Baviera e nella Repubblica ceca, in passato grandi fornitrici dell’industria del legno, interi boschi di abeti rossi non esistono più.

Preoccupa la velocità con la quale il parassita si riproduce. Ogni maschio fe­conda fino a quattro femmine, e ognuna di queste depone oltre cinquanta uova; tra aprile e ottobre si osservano cicli riproduttivi che possono arrivare a tre generazioni sorelle. Ha pochi antagonisti naturali e gode anzi di ottime condizioni ambientali: molto legname con corteccia caduto sul terreno (il suo habitat naturale), inverni con poca neve, estati calde e poco piovose come le abbiamo conosciute negli anni passati. Ips Typographus, questo il suo nome scientifico, è endemico nell’area alpina. Vive tra la corteccia e il legno degli abeti e si nutre dei tessuti che si trovano in quella parte della pianta. Scava le sue gallerie che interrompono i vasi linfatici degli alberi e che fanno da incubatrici per le uova; sembrano impronte di piante preisto­riche, donde il nome “tipografo”. Contribuisce alla decomposizione degli alberi e in tal modo svolge la sua funzione nel ciclo della materia. Quando però si moltiplica oltre misura, le colonie sono in grado di attaccare anche abeti sani indeboliti, interrompendo il flusso della linfa e facendo morire le radici. La pianta rinsecchisce, perde il suo colore, presto o tardi cadrà. Altro che ridenti paesaggi montani, i segni di questa epidemia vegetale sono ormai presenti ovunque, dalla val Pusteria all’alta Venosta, dalla valle Isarco alla val Passiria, dalla val d’Ultimo ai boschi sotto lo Sciliar.

Le cause della moltiplicazione del bostrico sono state, in provincia di Bolzano, non tanto la tempesta mediterranea Vaia (fine ottobre 2018), che ha flagellato il nord-est d’Italia insieme a vaste zone della Slovenia, della Croazia e dell’Austria, quanto le nevicate dei due inverni seguenti, che hanno fatto cadere a terra in modo diffuso altre centinaia di migliaia di metri cubi di legname. Il Corpo forestale, i comuni, i proprietari dei boschi e le imprese specializzate hanno svolto un gran lavoro subito dopo Vaia, recuperando a tempo di record da allora in soli due anni il 95 per cento dei tronchi rasi al suolo dalle raffiche e sparsi sui pendii come tanti stuzzicadenti: una quantità di legname che occuperebbe una fila di tir da Bolzano a Firenze. Più problematico è però sgomberare le piante schiantate sotto il peso della neve bagnata, che sono in grande quantità, ma sparse a macchia di leopardo e spesso in zone molto impervie e pericolose. Senza entrare nella discussione se la tempesta e le pesanti nevicate siano da considerarsi eventi “naturali” o di origine antropica, è interessante anche solo osservare la catena di conseguenze cui danno luogo. Una tempesta o una nevicata abbattono piante, il legname a terra fa proliferare un insetto, l’insetto in certe condizioni estreme attacca le piante sane e distrugge il bosco, il terreno assorbe meno acqua, i pendii nudi sono più esposti all’erosione, aumenta il pericolo di inondazioni, frane e valanghe, rischiano di andarci di mezzo vite umane. E si può continuare, immaginando le conseguenze che tutto questo provoca più a valle: danni agli abitati, interruzioni di strade, allagamenti di coltivazioni e quant’altro. I disastri hanno questa aggravante, che uno ne genera altri, investendo nuove zone.

C’è da dubitare che si possa affermare qualcosa di analogo anche degli eventi favorevoli, ovvero che pure essi ne causano altri, favorevoli anch’essi a ciò che chiamiamo rigenerazione. La natura ha una sua capacità di ripresa che peraltro non rispetta alcuna finalità; in un modo o nell’altro troverà nuovi assetti. Certe forme di vita scompariranno, altre resteranno, altre ancora immigreranno in seguito ai mutamenti climatici; subirà modificazioni anche la fauna. Se ricresceranno, molto probabilmente i boschi che vedranno i nostri figli e nipoti saranno diversi da quelli che abbiamo visto noi, il che tra l’altro non è detto sia un male. La natura un suo assetto lo trova e non si cura della sopravvivenza degli abeti, né del bostrico e se è per questo neppure dell’uomo. È quest’ultimo che deve badare a far ciò che è necessario alla sua esistenza.

I biologi spiegano che un ambiente con molte varietà di piante è più al riparo dall’attacco di malattie o parassiti specifici di quanto sia un ambiente più povero di varietà. È un concetto molto chiaro: se in un bosco vi sono, poniamo, dieci specie diverse (in realtà ce ne sono molte di più, ma semplifichiamo) e ognuna con una quota del 10 per cento della vegetazione, un’eventuale malattia o un parassita di una pianta può al massimo distruggere il 10 per cento delle piante. Se invece una specie è predominante, come l’abete rosso nei nostri boschi (60 per cento), e se quella specie viene attaccata da un parassita, allora i danni sono molto maggiori. A ben guardare, i problemi sono dunque due: il bostrico e la predominanza dell’abete rosso.

Si tocca così la questione della monocultura. Gli uni osservano che il 60 per cento di abeti rossi è troppo; bisognerebbe rimediare consentendo maggiori abbatti­menti e mettendo a dimora piante diverse. Altri rispondono osservando che se gli abeti predominano, ve ne sono però di tutte le età, secolari e giovanissimi: per le funzione che la pianta svolge nelle sue diverse fasi, anche questo contribuisce alla biodiversità. Per parte sua, il contadino di montagna non tiene il bosco come se fosse un giardino ecologico, ma è interessato principalmente alle sue risorse. L’abete rosso è la principale e non a caso; vi sono ragioni biologiche, economiche e storiche che spiegano la sua predominanza. Nelle nostre valli trova condizioni ottimali e in questo senso si può dire che sta là, dove madre natura lo ha messo. Tende a imporsi sulle altre piante perché leva loro spazio e luce, ha tempi di crescita relativamente brevi e fornisce buon legno, anche se non di pregio come quello del pino cembro o del larice. L’uomo ci ha messo del suo nel favorire la sua espansione, mentre la politica provinciale ha seguito essenzialmente la linea della conservazione del patrimonio boschivo (tanto è vero che si attira le maledizioni di molti proprietari che vorrebbero più tagli). Probabilmente bisogna risalire alle due guerre mondiali per trovare l’origine di questa mentalità. Il bosco come risorsa a lungo termine e sicura, al riparo da svalutazioni e speculazioni, fatta di beni reali: legna da ardere e da costruire, selvaggina, stabilità del terreno, che è un interesse comune di tutti i proprietari.

In Alto Adige/Südtirol tutti i boschi, indipendentemente dal tipo di proprietà, sono ufficialmente censiti e descritti, uno per uno, in un apposito schedario. Sono circa 22.000 e sono degli osservati speciali. Si sa pressoché tutto di loro: l’esten­sione, la varietà di piante, la loro età, lo stato di salute; si segue la crescita, si monitora la flora e la fauna, dagli alberi ai licheni, dai cervi ai parassiti, e così via; si definisce la quantità di tagli possibili e sostenibili in base alle diverse funzioni ­assolte da ogni singolo bosco e si mettono in cantiere le eventuali azioni di miglioramento necessarie al mantenimento della sua stabilità e di conseguenza della sta­bilità idrogeologica. Il bostrico è un imprevisto sgradito nell’economia del bosco; eppure non siamo del tutto indifesi perché sappiamo quali fattori lo favoriscono e possiamo quindi fare la nostra parte per contenerne la diffusione.

Nel 2023 si è rafforzata la campagna informativa rivolta ai proprietari per raccomandare un primo tempestivo intervento: raccogliere quel che si può dei tronchi attaccati dal parassita e scortecciarli. Certe volte è possibile recuperarli con le usuali tecniche contadine; ma molto spesso occorrono macchinari e personale specializ­zato, non sempre disponibili. In ogni caso un lavoro pesante, pericoloso, come attestano i continui infortuni, e dai costi notevoli, solo in parte coperti dalle sovven­zioni; nel 2023 la Giunta provinciale ha stanziato venti milioni per far fronte all’emergenza.

Pulire il bosco è appena l’inizio. Poi vanno studiate e attuate misure a seconda delle diverse situazioni. Dove l’insetto, la neve e la tempesta hanno distrutto ampie aree, gli esperti raccomandano di ripulire e sostenere il rimboschimento facendo ricorso alla messa a dimora di piante dai vivai. Lasciar fare la natura in questi casi può non bastare. Tendenzialmente il bosco si riprende il terreno perduto; prima vengono le erbe, poi i cespugli, poi gli alberi; ma questo processo dura da venti a trent’anni, o anche più a seconda dell’esposizione, dell’altitudine e di altri fattori, e il ritmo di riproduzione rischia di non farcela contro l’erosione. Inoltre, bisognerà valutare quali alberi favorire anche in relazione ai cambiamenti climatici. Si tratta di interventi di lungo respiro, che hanno bisogno del loro tempo per dare risultati. D’altra parte, la ricrescita ha tempi più lunghi della distruzione, cosa che vale per gli ecosistemi naturali come per le opere umane; non illudiamoci quindi di poter rivedere boschi sani e rigenerati nel giro di pochi anni. Non è poi detto che tutti gli ­abeti secchi ma ancora in piedi, e così le ceppaie, debbano essere tagliati e rimossi; sulle piante cadute e morte da tempo il bostrico non alligna più e una volta accer­tato che non minacciano di crollare su case o strade, questi resti possono ancora svolgere in certe situazioni una funzione anti valanghe. In ogni caso sono decisamente peggio le colate di cemento o le strutture in acciaio tirate su ad esempio nel Bellunese, con le quali si spera di consolidare i versanti pericolanti, qualche volta ottenendo l’effetto contrario.

Questi sono i lavori da fare sul campo; prima ancora serve un programma pluriennale, che dal generale scenda al particolare: valle per valle, comune per comune, zona per zona, superficie per superficie, in modo da pianificare gli interventi secondo le priorità e le possibilità. Non è una parte secondaria dell’impegno di cui deve dar prova l’amministrazione provinciale, perché si tratta di coordinare più soggetti: proprietari, comuni, ditte specializzate, protezione civile e quant’altro.

Fin qui ciò che possiamo fare noi. C’è però un altro fattore che gioca un ruolo decisivo e che, almeno nell’immediato, resta al di fuori della nostra portata: quello climatico. Temperature e precipitazioni non dipendono da noi, almeno non a breve termine. E qui la tendenza è chiara. Negli ultimi anni le temperature sono state superiori alla media; gli alberi avrebbero quindi bisogno di più acqua per mantenersi sani ed avere più possibilità di resistere ai parassiti. Invece accade che d’estate piove meno della media e ciò li indebolisce. Da un lato dunque queste condizioni giocano a sfavore degli alberi, dall’altro rafforzano il bostrico, perché il parassita soffre il freddo e la pioggia, specialmente in primavera durante le fasi di riproduzione. Se anche in futuro le condizioni a lui favorevoli continueranno, allora dobbiamo esserne consapevoli: l’uomo con le sue opere potrà solo rincorrere il piccolo insetto e ­riuscirà solo in parte a rimediare ai disastri di cui è causa.

Ringraziamenti

Ringrazio i giornalisti sportivi Stefano Bizzotto e Franco Bragagna, che hanno letto l’articolo su ­Sinner correggendo le inesattezze e raddrizzando alcune mie affermazioni.

Ringrazio anche il Senatore ed ex Sindaco di Bolzano Luigi Spagnolli e l’eco­nomista e Consigliere comunale Matthias Cologna, che si sono presi il tempo di rispon­dere a domande sulla vicenda di René Benko a Bolzano.

Le critiche riportate nell’articolo “Un riconoscimento contestato” derivano da colloqui con l’organizzatore di concerti e chitarrista Franz Zanardo e con Agostino Accarino, animatore della scena rock. Paolo Crazy Carnevale ne è invece la memoria vivente che è d’obbligo consultare; le sue osservazioni sono state preziose come quelle di Franco Bertoldi, fondatore di MusicaBlu, agenzia che promuove la musica e il canto tra i giovani.

Grazie infine a Mario Broll, ex dirigente della Ripartizione foreste; è un privi­legio parlare con una persona così competente e informata.