Maurizio Ferrandi
Del perché gli italiani (e qualche sudtirolese) non hanno capito Silvius Magnago
1. La “forma mentis” del Padre della Patria
Forse ad indurre in errore sono la data di nascita e quella di morte: 5 febbraio del 1914 sull’atto anagrafico del Comune di Merano che certifica la venuta al mondo di Silvius junior, figlio di Silvius senior, magistrato austroungarico di origine trentina, e di Helene Redler, originaria di Bregenz, in Austria (Vorarlberg). Poi 25 maggio 2010, ben dentro il terzo millennio, per una morte arrivata ad un ventennio dal ritiro totale, irrevocabile dalla scena politica.
L’anagrafe colloca dunque senza alcun dubbio Silvius Magnago nel 1900, con un destino politico pienamente iscritto nel cosiddetto “secolo breve”.
Affermazione inoppugnabile, eppure qualcosa nel ragionamento non funziona.
C’è nella figura del Padre della Patria sudtirolese un elemento che urta contro questa definizione, che stride con i modelli di politica e di politici che nel 1900 sono andati per la maggiore.
Una sensazione che chi scrive ha avuto spesso nei numerosi momenti di colloquio e di incontro professionale con Magnago, ma che è rimasta per tanto tempo ad un livello di pura intuizione, senza fissarsi su giudizio più ragionato (Cfr. Benedikter 1983/2010, Calabrese 2010, Peterlini 2007, Solderer 1996).
A farla tornare alla mente, durante il “ripasso” che ha preceduto la stesura di queste righe, un fatto minore, poco più che un aneddoto.
È Magnago, intervistato da Hans Karl Peterlini (2007, 68), a raccontare: siamo nei turbolenti anni ’60, le cronache quotidiane riportano ogni giorno le notizie degli arresti dei processi e delle condanne che colpiscono soprattutto quel gruppo di sudtirolesi più o meno giovani che hanno scatenato la “guerra dei tralicci”. Una sera il campanello di casa Magnago suona e alla porta c’è Rosa Klotz, moglie di quel Georg divenuto già icona di chi nel Sudtirolo vuole la lotta armata contro l’Italia.
È venuta per parlare, per chiedere, forse per accusare. Prima ancora che il dialogo possa iniziare è Magnago a parlare: “Signora – dice – questa è la mia abitazione, non il mio ufficio. Per queste cose lei deve venire nel mio ufficio”.
Una scortesia? Il modo di cavarsi da un impiccio imbarazzante?
Né l’uno nè l’altro se si è conosciuto Magnago. Dietro a questo puntiglio formale c’è una mente educata, abituata ad un grande ordine, una logica che non ammette facilmente l’improvvisazione, l’emozione, l’estro del momento.
Per Silvius Magnago, ogni cosa deve stare ordinatamente al suo posto, nel suo ufficio come nella sua vita e nella sua azione politica. E questo non a caso.
Una “forma mentis” che allo statista sudtirolese deriva probabilmente da una precisa educazione familiare, dall’esempio e dalla figura del padre, dal modello con esso introiettato di quel mondo tutto particolare che fu, fino alla tragica conclusione bellica, quello ordinato ad amministrare il grande Impero d’Austria.
Un mondo che faceva dell’ordine formale, del rispetto delle regole e delle buone maniere, (gli affari d’ufficio si discutono in ufficio durante le ore d’ufficio), qualcosa di molto di più di un semplice galateo pubblico. Un universo multinazionale modellato con pazienza sulla figura di un Imperatore che non disdegnava di evitare raffigurazioni bellicose, per essere invece considerato come “ il primo impiegato del regno”.
Silvius Magnago nasce pochi mesi prima che la sequenza di eventi dell’estate 1914 conduca alla guerra. Cresce in un Tirolo schiacciato e impoverito progressivamente dal peso dello sforzo bellico. Ha poco meno di cinque anni quando le troppe italiane fanno il loro ingresso a Bolzano e si accasermano nelle stesse camerate dove fino a pochi giorni prima sostava l’armata imperiale. Conosce gli ultimissimi barlumi della scuola tedesca e poi la progressiva italianizzazione delle materie di studio, degli insegnanti. Si laurea, in giurisprudenza, a Bologna ma la tesi riguarda il Diritto germanico. Presta, da granatiere, gli onori militari al Duce, ma è pronto a mettersi a disposizione dell’autorità germanica quando inizia il drammatico processo delle Opzioni. La scelta si completa con il vestire nel 1943 la divisa della Wehrmacht, macchiata di sangue sul fronte russo, con una mutilazione che resterà uno dei suoi segni identificativi.
Non è dunque impossibile pensare che questa formazione abbia radicato nel Magnago giovane studente, militare, uomo fatto e poi politico per vocazione un rispetto profondo per quel mondo andato definitivamente perduto, per quella forma esteriore, specchio di una disciplina interiore, tutte e due brutalmente spezzate, ma proprio per questo ancor più desiderabili.
Quello della visita serale di Rosa Klotz è un episodio minore, ma in questa chiave possono essere letti e riletti molti tra i momenti fondamentali dell’azione politica di Magnago. Ne abbiamo scelto uno tra i tanti, probabilmente il più noto e citato, per provare a spiegare come mai gli italiani, politici, giornalisti, semplici cittadini abbiano spesso equivocato sulla figura di Magnago, sia quando lo lodavano che quando lo esecravano.
2. Il discorso di Castel Firmiano
Il momento chiave è quello storico del discorso di Castel Firmiano del novembre 1957. Scorrendone i passaggi centrali cercheremo di ricostruire a posteriori una figura, una politica.
A questo punto una piccola sorpresa impone di aprire una parentesi. Nonostante una ricerca abbastanza puntigliosa non è emerso un testo completo del discorso. Anche in volumi recenti ci si affida a quanto comparve, il giorno successivo alla manifestazione, sul quotidiano “Dolomiten”, poi ripreso dal “Volksbote”, organo ufficiale del partito. Un testo che interpolava anche parti del discorso con dei sunti effettuati dal cronista dell’epoca. Resoconto indubbiamente tale da non lasciar dubbi sui contenuti sostanziali dell’allocuzione, ma la versione integrale, di un discorso fondamentale per la storia altoatesina del 1900, non c’è.
Peccato davvero. Non resta che sperare a questo punto che il documento sia conservato nei fondi lasciati dallo stesso Magnago, che ci si augura siano resi pubblici quanto prima.
Magnago è salito alla guida del partito sei mesi prima, nel maggio del 1957. Con la sua elezione si è completato un processo politico che ha portato alla sostituzione quasi integrale della classe dirigente che ha fondato la Svp all’indomani della guerra. Gli uomini nuovi, fautori di una linea di maggior durezza con Roma, sigillano con la loro ascesa la definitiva chiusura delle divisioni causate dalle opzioni del 1939 nel mondo sudtirolese. Magnago ha aderito tardi alla Svp. Solo nel 1947, a due anni dalla fondazione, entra nel partito, compiendovi tuttavia una carriera fulminea. Consigliere comunale e vicesindaco a Bolzano, poi Consigliere regionale e Presidente del Consiglio regionale. È battuto, caso unico nella sua carriera, solo nelle elezioni al Parlamento del 1948. A Roma andrà solo come interlocutore di Presidenti del Consiglio e Ministri. Rifiuterà con garbo anche l’ipotesi di una nomina a Senatore a vita.
Non è ancora Obmann ma è già Magnago. Nel 1951 fa scandalo un suo discorso nel quale non esita ad affermare che la sorte dei sudtirolesi è privilegiata rispetto a quella di milioni di tedeschi profughi postbellici in mezza Europa (Solderer 1996, 385). La sua carriera politica procede senza strappi. Tutto quanto fa e dice pare indirizzato, con metodo e costanza, verso l’obiettivo di quel grande raduno, di quel momento cruciale.
Siamo dunque nella spianata di Castel Firmiano nel primo pomeriggio del 17 novembre del 1957. Decine di migliaia i sudtirolesi arrivati da tutte le parti della provincia per ascoltare, ma non pochi di essi anche per agire. C’è, diffusa, la sensazione che sia una giornata cruciale, che il messaggio da mandare a Roma sia ben più deciso di quello lanciato da una semplice adunata. Mischiati tra gli altri gli uomini del BAS, Befreiungsausschuss Südtirol, fondato un anno addietro, che nel 1961 organizzerà la “notte dei fuochi”. L’idea neppur troppo celata è quella di chiudere la riunione nel castello con una marcia su Bolzano, forzando il blocco di Polizia e Carabinieri, violando il divieto imposto dalle autorità che hanno negato alla Svp di tenere il comizio nel capoluogo.
Proprio da questo aspetto della questione comincia il discorso di Magnago (Dolomiten 1957)1:
Cari sudtirolesi, cari abitanti di questa terra, voi capirete che io porto una grande responsabilità per questa manifestazione. Ho dato la mia parola come organizzatore e come Obmann della Svp che dopo questa manifestazione tutto si concluderà. Ciò significa che dopo questo raduno non ci sarà nessuna marcia, non ci saranno ulteriori iniziative.
(urla dalla folla: “ma altri ci hanno dato invano la loro parola”)
Tuttavia ho dato la mia parola tedesca e vi prego di rispettarla, poiché tra di noi la parola di un tedesco ha sempre avuto valore. Sappiamo bene che altri non hanno tenuto fede alla parola che ci diedero, ma noi dobbiamo dimostrare di essere migliori di costoro.
E debbo ancora spiegarvi, adesso, perché ci hanno confinati quassù […]. La situazione, dunque, è chiara. Il Commissario del Governo ha capitolato di fronte ad una minoranza di neofascisti e di altri nazionalisti italiani. E poiché una minoranza è dunque riuscita ad impedire alla maggioranza di tenere questa manifestazione ove essa voleva, oggi noi siamo costretti qui. Un tempo i fascisti ci impedirono ogni forma di manifestazione e di libertà. Lo scorso anno ci fu impedito di manifestare per le pressioni dei neofascisti ed oggi queste pressioni ci hanno imposto di spostarci qui. Ed oggi siamo di fronte dunque ad una capitolazione del Governo davanti ai neofascisti. Sono sempre loro che vogliono privarci della nostra libertà.
Tutto quel che è avvenuto negli ultimi giorni illustra meglio di ogni altra cosa quale sia, in tema di libertà, lo stato delle cose oggi in Alto Adige.
Quello che conta in questo discorso, è in un certo senso più quello che manca, di quello che c’è.
C’è, secco, in apertura, un richiamo all’ordine quasi brutale. Non saranno ammesse fughe in avanti, dice Magnago, nessuna marcia su Bolzano per reagire al divieto delle autorità di tenere la manifestazione nel capoluogo. Non si preoccupa neppure l’Obmann di dare una giustificazione, di mettere a parte chi lo ascolta di una strategia o di una tattica. Non si farà nulla di tutto ciò solo perché lui ha dato la sua parola di tedesco. Deve bastare. E il bello è che basterà.
Basterà evidentemente perché chi lo ascolta sente che non si tratta di un mezzuccio per carpire la volontà dei manifestanti, ma che in quel concetto morale della parola data che va mantenuta si rispecchia, per l’appunto, un ordine superiore nel quale Magnago crede profondamente e al quale egli stesso è soggetto. Ci crede e gli credono quindi anche gli altri.
Basterà forse anche perché per antica tradizione, per storia e cultura i sudtirolesi non sono popolo che ami scendere in piazza a manifestare. Vero è però che in quel frangente storico la frustrazione e la rabbia, covate e represse sin dai tempi dell’immediato dopoguerra, dalla rinuncia forzata al sogno di una riunificazione dell’antico Tirolo, erano arrivate al massimo.
Ad agitare gli animi contribuiva in quegli anni anche il contesto internazionale. Era forte il fascino emanato dai movimenti di liberazione nazionale. Dall’India di Gandhi all’Africa, dal Vietnam antifrancese all’Algeria. L’assetto postbellico mostrava crepe profonde. Pareva, e non a pochi, che un pugno di uomini decisi e dietro di essi un popolo convinto delle sue ragioni potessero abbattere qualsiasi ostacolo, conquistare qualsiasi traguardo.
Davanti a questa folla, in questo clima parlava Magnago.
È facile immaginare da cosa potesse essere spinto un oratore che si innamorasse dei sentimenti che avvertiva tra chi lo ascoltava in quel pomeriggio, che cosa avrebbe potuto dire narrando le sofferenze del suo popolo, il suo passato di tormenti e le sue incertezze future.
Nulla di tutto ciò. Magnago gela il clima limitandosi a deplorare un’Autorità condizionata dalla destra italiana, poi passa ad altro.
Ed ora veniamo al tema dei due miliardi e mezzo. 30 giorni or sono il Governo romano ha assicurato lo stanziamento di due miliardi e mezzo di lire per la realizzazione di un nuovo quartiere a Bolzano. Con questi due miliardi e mezzo la misura è colma.
Così ci siamo detti che dovevamo gridare più forte perché se qualcuno è duro d’orecchi l’unico modo per farsi sentire è quello di gridare più forte. Per questo oggi siamo qui a manifestare e posso assicurare che in futuro grideremo sempre più forte, se faranno finta di non sentire.
Ci dicono: ma perché protestate per questi due miliardi e mezzo. Ogni provincia, ogni comune si rallegrerebbe di ricevere del denaro per le case popolari. Avete perso il senno, siete così antisociali da voler impedire ai poveri diavoli di ricevere una casa?
Dalla fine della guerra in poi si fa politica con il pretesto dei motivi sociali. Noi non abbiamo nulla contro le case popolari in quanto tali. Quel che si discute è il senso, è la necessità di queste case popolari.
E siamo giunti al punto cruciale: l’immigrazione dall’Italia.
La politica di edilizia sociale è la conseguenza di quel processo di immigrazione che ci sta strangolando nella nostra stessa Heimat.
Voglio darvi adesso solo alcuni dati. La città di Bolzano, una città duramente bombardata, era in uno stato, dopo la guerra, da non permettere neppure a tutti i suoi cittadini di poter avere una propria casa. Ora riflettiamo sul fatto che in undici anni, in questa città bombardata sono arrivati diecimila italiani in più di quelli emigrati per mancanza di abitazioni.
Non può essere dunque normale, va riconosciuto, che tutto ciò sia avvenuto ad onta della grande penuria di alloggi del periodo bellico.
[…]
E ci saremmo attesi dal Ministro Togni, che pochi mesi or sono fu a Bolzano per constatare i danni provocati dall’alluvione, che egli mantenesse le sue promesse verso gli alluvionati, ma non che invece da questo partisse con un nuovo programma di edilizia popolare.
[…]
Se oggi a Bolzano ci sono così tanti senza casa, come hanno fatto costoro a ricevere la residenza. In base alla legge la si può avere solo se si ha un’abitazione. Come fanno allora tanti “senza tetto” a ricevere la residenza senza avere una casa. Sappiamo a sufficienza come funzionano le cose oggi a Bolzano. Si costruiscono centinaia di case e vengono assegnate a coloro che vivono nelle grotte e nelle baracche. Solo che questi baraccati vengono immediatamente sostituiti da nuovi immigrati. Ed anche per questi devono essere costruite nuove case. Così avanti senza fine. E questo è il grande inganno dell’edilizia sociale a Bolzano.
[…]
A Bolzano nel dopoguerra sono state costruite 6780 nuove abitazioni e nonostante questo c’è sempre necessità di nuove case. Chi riceve dunque nuove abitazioni? Quasi esclusivamente italiani.
E perché? Perché queste nuove case costruite con fondi statali sono riservate fondamentalmente a quelle persone che si trovano in grande difficoltà. E questo accade ovviamente per coloro che sono arrivati qui di recente. E chi è arrivato ieri? Non noi ma gli italiani.
In basse ad un siffatto sistema, la popolazione eccedente di questa provincia dovrebbe temere, per avere finalmente una casa a Bolzano, di dover prima restare sulla strada e poi di dover abitare in una grotta o in una baracca.
Se si vuole veramente garantire la pace sociale a Bolzano occorre riconoscere al gruppo tedesco una quota corrispondente delle nuove abitazioni. Se chiediamo garanzie certe in questo senso, noi non agiamo in modo antisociale ma operiamo per la giustizia.
Magnago ricorda a questo punto l’affermazione del Ministro Tambroni secondo cui Bolzano è destinata a diventare una grande città e la paragona con quelle analoghe di Mussolini.
Questa affermazione finisce per creare grande inquietudine poiché a Bolzano verranno dunque poste le premesse per una sempre maggior immigrazione di italiani. E io a questo punto vorrei chiedere al Ministro dell’Interno Tambroni perché non dice a Trento o Treviso o in un’altra città che queste sono destinate a divenire una grande città, ma solo a Bolzano. I trentini sarebbero assai felici ed egli troverebbe totale adesione tra di loro se promettesse di fare di Trento una grande città.
Assieme a quella sulla fine della prima autonomia (il cosiddetto “Los von Trient”), è il cuore vero del discorso di Catel Firmiano. Anche qui non si può far a meno di notare come l’oratore rifugga da ogni tentazione emotiva. Il concetto di “Todesmarsch”, la cosiddetta marcia della morte con l’immigrazione italiana che mirava a ridurre in minoranza i sudtirolesi sullo stesso suolo della loro provincia viene evocato solo indirettamente. Ci si concentra sulle cifre, sui dati, su una contabilità che non è arida perché sottende concetti politici, come vedremo, di grande importanza ma che di nuovo rifugge da ogni facile demagogia.
Magnago non fu mai, proprio per questo, un grande oratore da comizio. Aveva però due doni che gli permettevano di avvincere gli ascoltatori più di altri capaci di disegnare col discorso grandi figure retoriche.
Era diretto, efficace e brutalmente sincero. Concreto e immediato. Capace, una volta che aveva trovato un concetto che gli sembrava rendesse l’idea che voleva presentare, di ripeterlo anche più volte.
Pronunciava i suoi discorsi, nessuno che l’abbia sentito può dimenticarlo, con un voce che mutava di tono, passando dal registro basso a quello acuto. Non cercava il consenso. Lo otteneva. Così ancora a Castel Firmiano:
Gli italiani sostengono che il Trattato (Degasperi Gruber ndr.) è stato onorato. Noi sosteniamo che così non è. E lo dimostrerò. Il principio della parificazione della lingua tedesca negli uffici pubblici contenuto nel Trattato non è stato realizzato. Capisco che il bilinguismo non possa essere raggiunto dall’oggi al domani quando il 90 per cento degli impiegati è italiano, ma possiamo almeno chiedere agli italiani che venga attivato il processo verso la realizzazione di questo bilinguismo. Non ci lamenteremmo se riscontrassimo un po’ di buona volontà. Esiste un decreto che richiede per l’assunzione di nuovo personale nel Sudtirolo la conoscenza della lingua tedesca, ma finché continueranno ad essere emanate leggi che non prevedono questo requisito, non vi sarà l’adempimento pieno dell’obbligo di parificazione.
A questo punto Magnago passa ad occuparsi della ripartizione degli impieghi pubblici.
Ma quando viene bandito il concorso per un posto pubblico nel Sudtirolo, i sudtirolesi debbono partecipare assieme ad innumerevoli concorrenti appartenenti ad un popolo di 48 milioni di italiani.
È vero che sono stati banditi concorsi per posti che richiedono un titolo di studio elevato, ma molti non vi partecipano poiché per 30 anni il fascismo ha annientato la cultura e proibito ogni formazione nel Sudtirolo. Non vengono messi a concorso però i posti, cui nel Sudtirolo vi sarebbero aspiranti in misura sufficiente, ad esempio nei livelli inferiori dell’amministrazione delle strade, delle poste, delle ferrovie ed altri servizi.
Venisse messo a concorso un posto di portalettere sino nella valle di Casies, esso non sarà riservato ai locali, ma a concorrenti sino giù a Palermo.
Le case, il pubblico impiego. Nel discorso di Castel Firmiano ci sono già “in nuce” gli elementi chiave di una seconda autonomia che arriverà più di un decennio dopo. La proporzionale nell’assegnazione degli alloggi pubblici, nella ripartizione del pubblico impiego, il bilinguismo. C’è un disegno politico chiaro con obiettivi concreti e definiti. Magnago, con la Svp, sa già dove vuole arrivare e sa che a differenza degli altri non si fermerà sino a quando non lo avrà ottenuto. È questo un punto di forza essenziale, l’elemento chiave che lo condurrà assieme al suo insostituibile braccio destro Alfons Benedikter ad ottenere nel 1972, e ad attuare completamente nel 1992, quanto delineato nel 1957.
È questa la differenza fondamentale e il grande vantaggio di Magnago nel suo rapporto con il mondo politico italiano. A Roma come a Bolzano la questione altoatesina viene gestita, in tutto il secondo dopoguerra, in modo traballante ed ondivago. Quando nel settembre del 1946 Alcide Degasperi, un altro statista – sia detto per inciso – formatosi nel mondo politico del vecchio Impero, firma il trattato con Karl Gruber, non immagina di dover subire, il giorno dopo, una sorta di processo sommario da parte del fior fiore della diplomazia italiana, che gli imputa di aver inutilmente svenduto la sovranità italiana regalando alla minoranza tedesca una tutela internazionale del tutto contraria agli interessi del paese.
È la politica del doppio binario che proseguirà negli anni successivi. L’autonomia, nel 1948, arriva, ma ancorandola alla maggioranza italiana del Trentino, si cerca di svuotarla nella sostanza. Gli altoatesini, come ricorda Magnago, sono blanditi a parole e raggirati con la tattica del rinvio. Poi anche in campo italiano vi sono coloro che invece intuiscono, man mano che la crisi della prima autonomia diviene più profonda, che occorre trovare basi nuove su cui ricostruire un rapporto tra Stato e minoranza etnica, che occorre rivedere anche i rapporti internazionali, collocando la questione altoatesina in un contesto di relazioni europee più mature, meno segnate dal nazionalismo e dai rancori postbellici. Sono questi politici, un nome su tutti è quello di Aldo Moro, che, al termine di un processo difficile e defatigante, troveranno la soluzione ai problemi posti in quel pomeriggio di novembre sulla spianata di Castel Firmiano.
Alla confusione e alle ambiguità che regnano in campo italiano Magnago oppone dunque, sin dalla pronuncia del discorso, una chiara volontà di raggiungere obiettivi precisi dai quali non si lascerà distogliere. Non dalle pressioni internazionali, non dagli avversari interni che verranno eliminati uno ad uno, senza remore, non dagli effetti dell’ondata di attentati che sta per scatenarsi.
Userà politicamente gli effetti delle bombe ma non si lascerà usare da chi le ha innescate. Respingerà sull’uscio di casa le richieste di Rosa Klotz guadagnandosi in certi ambienti un rancore che arriverà, mezzo secolo dopo, a lambire la sua bara il giorno dei solenni funerali.
Gli obiettivi sono dunque chiari, ma prima di raggiungerli occorre smontare pezzo per pezzo l’edificio della prima inconcludente autonomia. Torniamo dunque sulla spianata di Castel Firmiano:
Leggo sui cartelli la frase “Los von Trient”. E con ciò veniamo alla questione dell’autonomia.
L’Accordo di Parigi prevede un’autonomia solo per il Sudtirolo. Ammesso e non concesso che l’autonomia che oggi noi abbiamo rappresenti veramente l’attuazione dell’Accordo di Parigi, noi dobbiamo comunque sottolineare che essa risulta largamente inadempiuta. A oltre dieci anni dalla sua emanazione, non più del 40 per cento delle competenze riconosciute a norma di Statuto alla Provincia sono state realmente ad essa trasferite.
Le nostre leggi provinciali vengono rinviate dal Governo con la motivazione che le corrispondenti norme di attuazione dello Statuto non sono ancora state emanate. Nonostante la competenza statutariamente fissata per la Provincia in materia di edilizia popolare, essa, come già detto, ci viene ancora sottratta.
Nemmeno la competenza in materia scolastica, che ci spetta in base allo Statuto, ci viene riconosciuta.
Ma a questo proposito va detta innanzitutto una cosa. Noi non vogliamo un’autonomia regionale con la provincia di Trento. Ci spetta in base all’Accordo di Parigi un’autonomia solo per il Sudtirolo.
Ed oggi io vi dico che i parlamentari della Svp presenteranno prossimamente un disegno di legge con il quale al popolo sudtirolese verrà garantita la separazione dalla comune autonomia con il Trentino e una vera autonoma potestà legislativa e amministrativa.
A questo punto il programma è delineato, con un primo passo da compiere subito, forse il più difficile, quello di troncare il legame con Trento. Anche in questo l’incapacità dei politici e degli analisti italiani di capire la Svp di Magnago diviene evidente. L’autonomia ancorata nel 1848 al Trentino aveva finito per fare il gioco di chi a Roma voleva svuotare di contenuti reali alcune promesse contenute nell’Accordo di Parigi. Di fronte alla ribellione bolzanina si pensò a lungo di poter temporeggiare, concedendo qualcosa, rinviando molto, lusingando inutilmente.
Fu coniato allora un concetto politico/diplomatico in base al quale l’Accordo del 1946 era stato pienamente attuato, l’Austria nulla aveva più da pretendere, la questione altoatesina era divenuta un mero problema interno. Una proposizione tanto radicata da essere incredibilmente sopravvissuta all’intervento dell’ONU nel 1960, all’accordo sul “pacchetto” e relativo calendario operativo approvato dai parlamenti di Roma e Vienna e persino al rilascio della cosiddetta “quietanza liberatoria” nel giugno del 1992. Come un reperto di diplomazia fossile, un oggetto da museo, riaffiora a tratti nella polemica politica e nei comunicati governativi, sfidando il tempo e il ridicolo al tempo stesso. Se ne trova traccia in qualche comunicato diramato dalla Farnesina negli anni ’90 e persino in qualche dichiarazione semiufficiale rilasciata alla stampa in tempi ancor più recenti.
Risultato di tutto questo processo l’accentuarsi nel mondo sudtirolese del dopoguerra di una diffidenza tanto profonda e incolmabile verso Trento da esser pari, quasi, a quella maturata dopo il ventennio fascista nei confronti di Roma. E c’è qualcuno, a Trento, che ancor oggi pare non essersene fatto una ragione.
Il discorso di Castel Firmiano si avvia verso la conclusione. Silvius Magnago ha preso in mano l’iniziativa evitando che altri potessero imboccare strade più fascinose per i giovani irrequieti, ma in fondo congeniali alle speranze di chi in campo italiano amerebbe magari risolvere tutto con una brutale prova di forza. Ha sostituito con un gioco di parole, il romantico “Los von Rom” degli estremisti con un più diretto e possibile “Los von Trient”. Ora non gli resta che aggiustare il tiro nei confronti di Vienna, terzo vertice del triangolo in cui si iscrive la questione altoatesina.
La tattica italiana nella politica nei confronti dei sudtirolesi è quella del rinvio. Si pensa così di assopirci. Non ci dicono né sì né temporeggiano in modo da non fare brutte figure all’estero. Anche di fronte alla proposta del Governo austriaco di istituire una commissione di esperti per esaminare il problema dell’Accordo di Parigi, vi fu il diniego del Governo italiano per il quale i contatti potevano essere proseguiti per normale via diplomatica.
Se l’Italia però crede di assopire in questo modo il nostro spirito nazionale, dovrà ricredersi. Più la questione verrà rinviata e più alta si alzerà la voce dei sudtirolesi.
Con l’occasione vorrei pregare i dirigenti austriaci di agire con ancora maggior energia per l’attuazione dell’Accordo di Parigi e di non lasciarsi mettere nell’angolo. Si dovranno condurre le trattative ad un risultato oppure scegliere un’altra strada. Gli austriaci non debbono lasciarsi abbindolare dallo charme dei politici italiani.
Tuttavia cari sudtirolesi, anche noi non dobbiamo contare troppo su aiuti esterni. Contiamo invece su noi stessi. Se per primi noi non siamo disposti a impegnarci, non abbiamo il diritto morale di chiedere aiuto all’esterno. Il Tirolo vivrà fino a che ci saranno tirolesi nel Tirolo. Noi e i nostri discendenti dobbiamo restare buoni tirolesi.
È l’ultima raccomandazione di Magnago, ma non meno essenziale delle altre. Il rapporto con l’Austria dev’essere stretto sino dove possibile, ma mai subalterno. A comandare le danze, nella visione dell’Obmann dovrà sempre essere Bolzano. A Vienna il compito di intervenire, di far valere sulla scena internazionale o nei rapporti bilaterali con Roma il peso dell’indipendenza appena riconquistata nel maggio 1955, con la firma del Trattato di Stato che ha messo fine alla lunga occupazione postbellica. Da Vienna come da Innsbruck, Magnago non prenderà ordini così come non intende subire pressioni da Trento o Roma. Anche la sottovalutazione di un simile grado di indipendenza costituirà un punto di debolezza in chi lo dovrà affrontare al tavolo della trattativa.
Le ultime frasi del discorso di Castel Firmiano sono coerenti con ciò che le ha precedute.
In verità non abbiamo alcuna fiducia nell’Italia. Non vogliamo però guardare al passato ma guardare in avanti, se vogliamo diventare buoni europei. Assolveremo pienamente alla nostra funzione di europei se la eserciteremo nella consapevolezza della nostra identità di popolo.
Eppure il Governo italiano potrebbe conquistarsela, la nostra fiducia, ma non prendendosela comoda, ma sedendo con noi ad un tavolo e costruendo una testimonianza concreta di fiducia con l’attuazione dell’autonomia.
Nel bilancio statale italiano sono iscritti 600 milioni destinati alla “salvaguardia dell’italianità nelle zone di confine”. Uno Stato che ha assunto obblighi internazionali nei confronti di un gruppo etnico, ma che ha ogni anno nel suo bilancio un simile impegno finanziario, non può esprimere un vero spirito europeo e non può meritarsi la nostra fiducia. L’Italia potrebbe destinare questa somma o una ancor maggiore ad un altro scopo: la protezione e la difesa delle minoranze nelle zone di confine. Così L’Italia potrebbe dar prova di aver affrontato seriamente il problema della tutela delle minoranze.
In conclusione vi chiedo di impegnarvi e lavorare sempre per la Heimat.
Dovremo rammentare a lungo questa manifestazione. È stata bella, tranquilla, disciplinata. Ci siamo guardati in volto e ora andremo a casa con forza e coraggio rinnovati. Dovremo lavorare sempre più per la nostra bella Heimat.
Così l’Obmann congeda il suo popolo in un pomeriggio di novembre del 1957. Se ne vanno tutti a casa, passando sotto le forche caudine dei controlli di polizia. Non succede nulla ma tutto deve ancora succedere. Molto è scritto tra le righe del discorso appena pronunciato: le trattative prima infruttuose, poi più concrete con la “Commissione dei 19”. Altro è nella mente degli estremisti che per quel giorno devono rimettere nello zaino i propositi di rivolta. Si faranno sentire anche troppo negli anni successivi.
3. Una lunga marcia
La scelta del discorso di Castel Firmiano come esempio per misurare la forza della concretezza nella politica di Silvius Magnago non esclude ovviamente che anche altri casi possano essere citati per confermare questa tesi. Castel Firmiano con il “Los von Trient”, in effetti non è che il punto di partenza di una “lunga marcia” con la quale Magnago conduce il suo partito e i sudtirolesi tutti verso l’obiettivo dell’autonomia. Almeno altre due sono le tappe cruciali di questo percorso, nelle quali l’Obmann metterà alla prova il suo pragmatismo: il congresso del 22 novembre 1969 con il quale viene dato il via libera all’attuazione del “Pacchetto” e quello del 30 maggio del 1992, con il quale la Svp certifica che questa attuazione è stata completata e che la controversia internazionale può essere chiusa.
Del congresso del 1969 s’è scritto molto. Esso arriva al termine di una defatigante trattativa interna tra Bolzano e Roma, condotta da Magnago in prima persona e di un percorso parallelo di colloqui tra la diplomazia italiana e austriaca. Il quesito che Magnago porta ai delegati convenuti nel salone del Kursaal di Merano è semplice: occorre decidere se dare o no il via libera all’accordo internazionale e alle ratifiche dei due Parlamenti di Roma e Vienna per l’approvazione di una serie di misure che daranno vita alla cosiddetta “seconda autonomia”. Nell’elenco ci sono tutte le questioni che Magnago, oltre dieci anni prima, aveva sollevato a Castel Firmiano: bilinguismo, proporzionale nel pubblico impiego, ma soprattutto passaggio alla Provincia di una vasta gamma di competenze.
Il “Pacchetto” è stato approvato con una maggioranza piuttosto netta – 41 sì, 23 no e 2 astensioni – dall’esecutivo del partito, ma al congresso la situazione poteva cambiare. Il partito del no, guidato dal battagliero Peter Brugger, conta molti consensi tra i delegati di base.
Anche in questo caso, per capire, occorre calarsi bene nel clima politico del momento ed evitare di usare il metro di giudizio odierno. Nel 1969 la nuova autonomia è solo una serie di parole scritte sul foglio di carta. Una riforma ampia sicuramente, ma tutta da definire nei suoi contorni. Il clima è avvelenato anche dal terrorismo che proprio a ridosso dell’intesa, ha prodotto i suoi episodi più oscuri, sanguinosi. La tentazione di non firmare, di respingere ancora una volta l’intesa di lasciare esplodere ulteriormente le tensioni nella speranza che prima o poi l’Italia ammetta che la questione altoatesina è irrisolvibile sul piano interno, è forte. La diffidenza verso l’interlocutore romano è altissima anche tra quelli che poi voteranno per la tesi di Magnago.
Il 22 novembre a Merano si realizza però quello che Magnago aveva chiesto a gran voce a Castel Firmiano: non Vienna, non Roma, ma Bolzano deve decidere e per Bolzano si intende il popolo Svp. La battaglia dura per l’intera giornata. Magnago, Brugger e gli altre esponenti di spicco del partito si alternano al podio, Peter Brugger è un grande oratore, sa interpretare forse più di chiunque altro gli umori e timori che percorrono la platea. “Il mio timore – afferma dal podio – non è tanto per quello che avverrà se questa soluzione viene bocciata. La mia grande preoccupazione e il mio grande timore sono per quel che verrà se essa viene approvata” (Solderer 1996, 191).
All’ultimo minuto parla ancora Magnago ed è Castel Firmiano che si ripete: “Un no, anche se espresso in buona fede – afferma – sarebbe a mio giudizio un errore fatale per la nostra Heimat. Di questo sono convinto e da questa grande e giusta convinzione sono sostenuto nel mentre vi chiedo di dare il vostro voto. Questo è il mio più caldo desiderio” (Solderer 1996, 191).
Gli dicono di sì in 583, i no sono 492 a conferma di quanto profonda fosse la voglia di non siglare nulla, di restare con le mani libere.
Di mani libere si parlerà anche ventitre anni più tardi, in un altro congresso, in cui, in un clima e in una situazione completamente mutata, la Svp è chiamata a dare ancora una volta il suo assenso.
È il 30 maggio del 1992. Pochi mesi prima, in gennaio, il Parlamento italiano, accogliendo l’invito del Presidente del Consiglio Andreotti, ha varato le ultime norme di attuazione del “Pacchetto”. Ora il calendario operativo, stabilito a suo tempo prevede che anche il Nationalrat di Vienna dica la sua e che poi rilasci la cosiddetta “quietanza liberatoria” riconoscendo che la controversia internazionale aperta nel 1960 all’ONU sia chiusa. Vienna, ovviamente, aspetta il giudizio della Svp. E la Svp è ancora una volta lacerata, divisa.
Magnago non è più Obmann. Nel 1988 non si è ripresentato alle elezioni provinciali lasciando l’incarico al nuovo leader emergente: Luis Durnwalder. Un passaggio politico previsto da tempo e che coincide con un più generale cambio della guardia ai vertici della Provincia. Meno attesa e per certi versi incomprensibile è la svolta che avviene nella primavera del 1991. Mentre sono in pieno svolgimento le ultime trattative con Roma, Magnago lascia anche l’incarico di Obmann. In tutta fretta viene chiamato a sostituirlo un altro degli esponenti della vecchia guardia, Roland Riz. Il braccio destro di Magnago in vent’anni di trattative romane, Alfons Benedikter, capeggia invece la schiera di chi si oppone in ogni modo alla chiusura, chiede di lasciare aperta la controversia, di non firmare nulla.
Il congresso di maggio si svolge dunque in una situazione che ricorda quella del 1969, ma in un clima del tutto diverso. 23 anni non sono passati invano: l’autonomia non è più una serie di parole scritte sulla carta, ma un edificio completo, articolato, che poggia sulle fondamenta di robustissimi finanziamenti statali. La Svp amministra un potere amplissimo. Il terrorismo, dopo i rigurgiti degli anni ’80, è stato fatto tacere e il clima internazionale vede i confini scomparire gradatamente nel quadro di una nuova Europa unita. Da Vienna non arrivano più appelli alla resistenza, ma sollecitazioni, a volte spazientite, a chiudere un capitolo che pesa sulle aspirazioni austriache a far parte pienamente dell’Unione. Tutto ciò pesa sugli esiti del congresso, ma nonostante questo, il partito di chi non vuol chiudere, di chi non vuole legarsi le mani c’è ancora. E al congresso Silvius Magnago dovrà ancora intervenire, per puntellare la tesi della chiusura, per dare sulla voce a chi vorrebbe lasciare aperta la controversia. Questa volta il risultato non lascia margini di dubbio. A votare sì è oltre l’80 per cento dei delegati, ma ancora una volta Magnago, che si è negato, o al quale è stato negato il privilegio di chiudere un processo politico che aveva avviato trent’anni prima, è dovuto intervenire per sbarrare la strada, in nome del pragmatismo e della coerenza all’avventurismo, alla tattica del tanto peggio tanto meglio.
E che di peggio si poteva trattare lo dice anche il calendario politico di quei mesi. Il Parlamento vara le ultime norme come uno degli ultimi atti prima che l’intero edificio politico di Roma crolli sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. La Democrazia Cristiana, interlocutore principe della Svp sta per frantumarsi irrimediabilmente. All’orizzonte spuntano nuovi soggetti politici come la Lega e in prospettiva Forza Italia di Silvio Berlusconi. Capita di domandarsi che cosa sarebbe potuto succedere se in quello scorcio di inverno del 1992 uno dei tanti accidenti che hanno costellato la lunga attuazione del “Pacchetto” avesse provocato l’ennesimo rinvio e se così, tra i mille problemi irrisolti lasciati in eredità dalla prima alla seconda Repubblica, fosse rimasta anche la chiusura della questione altoatesina. Nulla probabilmente, ma l’interrogativo resta, inquietante.
Adesso torniamo per un ultimo sguardo alla spianata di Castel Firmiano in quel freddo novembre del 1957. Mentre il popolo sudtirolese sfolla lentamente non è difficile immaginare l’ansia, l’inquietudine, la difficoltà di capire da parte degli italiani che osservano dal capoluogo-roccaforte. Per molti anni Magnago fu, per essi, solo un simbolo negativo, uno spauracchio, il Presidente della Provincia che per lunghi anni, ad esempio, non concedeva interviste al principale quotidiano italiano. Poi, con la seconda autonomia già compiuta, la figura dell’Obmann assunse anche per il mondo italiano una veste diversa. Il grande nemico divenuto il grande vincitore, diventava icona anche per molti di coloro che poi alle elezioni bruciavano la scheda sulla fiamma missina.
Da tutta Italia arrivarono giornalisti che criticavano con toni a volte truculenti “l’apartheid” altoatesino, ma poi si lasciavano incantare da una di quelle interviste chilometriche che iniziavano regolarmente con Magnago che si schermiva affermando di aver poco da dire e terminavano qualche ora più tardi con l’ultimo foglio di taccuino riempito. Magnago il “tedesco”, Magnago il politico diverso da quelli romani.
Solo lo spazio di vent’anni nel quale la questione altoatesina è uscita del tutto (e non solo a Roma) dal novero delle questioni di interesse nazionale ha impedito che la morte di Magnago divenisse un avvenimento di rilievo nazionale.
Il Padre della Patria è sopravvissuto al proprio mito e ciò non gli ha risparmiato qualche piccolo oltraggio. Non ci riferiamo a quelli che hanno fatto debita assenza alle sue esequie rivangando antichi rancori. C’è da pensare piuttosto a chi profittando proprio di un distacco così lungo dalla vita pubblica ha creduto, in buona fede sicuramente, di scambiare in morte Silvius Magnago, classe 1914, con qualcosa che in vita non era stato, non avrebbe voluto essere.
L’aver persino confuso Magnago con Alex Langer, l’aver parlato di un artefice della convivenza, significa per l’ennesima volta non aver capito mente e animo di un avvocato dell’800 catapultato dalla storia nei vortici del ’900, deciso a conquistare per la sua gente, e solo per la sua gente, uno scudo quanto più robusto possibile per sfuggire agli effetti di un’annessione mai voluta, mai capita, mai accettata.
Tutto il resto è equivoco.
Note
1 Questo e altri brani del discorso sono stati tradotti in italiano dall’autore.
Riferimenti bibliografici
Benedikter, Hans (1983/2010). Silvius Magnago. Ein Leben für Südtirol, Bozen, Athesia
Calabrese, Claudio (2010). Silvius Magnago: il Patriarca (1914-2010), Bolzano, Praxis 3
Dolomiten (1957): Die Rede des Obmannes Dr. Magnago, in: Dolomiten, 18 novembre 1957, 2 e 4.
Peterlini, Hans Karl (2007) (a cura di). Silvius Magnago. Das Vermächtnis. Bekenntnisse einer politischen Legende, Bozen, Edition Raetia
Solderer, Gottfried (1996): Blumen am Wege pflücken, in: Solderer, Gottfried (a cura di): Silvius Magnago – eine Biographie Südtirols, Edition Raetia, 169-192
Solderer, Gottfried (a cura di): Silvius Magnago – eine Biographie Südtirols, Edition Raetia
Abstracts
Warum die Italiener (und so
mancher Südtiroler) Silvius Magnago nicht verstanden haben
Eine Rede, die im kollektiven Gedächtnis der politischen Geschichte Südtirols haften geblieben ist, ist jene von Silvius Magnago, die er am 17. November 1957 auf Schloss Sigmundskron vor Tausenden Südtirolern gehalten hatte. Jene, die unter dem Motto „Los von Trient“ stand und den endgültigen Bruch mit dem Ersten Autonomiestatut bedeutete und mit der der „lange Marsch“ des jungen Obmanns und seiner Partei hin zum „Paket“ und zu einer neuen Landesautonomie begann. Jene Rede, die nicht existiert. Der komplette, vollständige Text fehlt in den Archiven. Deshalb ist es notwendig, noch einmal Satz für Satz, ausgehend von Chroniken und Zusammenfassungen die Rede zu rekonstruieren; dadurch kann schließlich der politische Charakter Magnagos, der sich in dieser flammenden Ansprache enthüllt, seine Ambitionen und seine Bedeutung als politische Persönlichkeit des 20. Jahrhunderts freigelegt werden.
Sön le ćiodì che i taliagn (y val’ südtirolesc) n’à nia capì Silvius Magnago
N discurs che resta tla memoria coletiva y tla storia politica de Südtirol é chël che Silvius Magnago à tignì ai 17 de novëmber dl 1957 dan da na fola de milesc de südtirolesc a Sigmundskron. Al é le discurs dl „Los von Trient“, dla rotöra definitiva cun la pröma autonomia, le discurs cun chël che le presidënt jonn y so partì mët man la „marcia lungia“ devers dl Pachet y dl’autonomia provinziala nöia. Y al é le discurs che n’é ignó da ćiafè: ti archifs manćel na verjiun intiera y completa. Al é porchël indô n iade da pié ia dales croniches y dales sinteses, por descurì n Magnago che revelëia en chë ocajiun, parora por parora, döt so carater politich, sües ambiziuns y süa natöra de politich dl ’900.
Why the Italians (and some South Tyroleans) Did Not Understand Silvius Magnago
A speech that remains in the collective memory and in the political history of South Tyrol is that of Magnago Silvius before a crowd of tens of thousands of South Tyroleans on the esplanade of Castelfirmiano on the 17th of November, 1957. The speech was known as “Free from Trento!” and represented a definitive break with South Tyrol’s First Statute of Autonomy. The speech initiated the “long march” of the young Obmann and his party towards what became known as “the package” and a new autonomy for the province. It is a speech that does not exist: a full and complete text is missing from the archival records. It is thus necessary to piece the speech together once again, using chronicles and analyses, in order to rediscover a Magnago who revealed on that occasion—sentence after sentence—the entirety of his political character, his ambitions, and his nature as a twentieth-century politician.