Suchbegriff eingeben...

Inserire il termine di ricerca...

Enter search term...

Essay

Saggio

Gianfranco Pasquino

Pandemia e Politica

The Pandemic and Politics

Abstract The relationships between the pandemic and politics are many and complex, and, above all, they are ongoing. In identifying and interpreting them, what one can reasonably to do is to formulate hypotheses and submit them to a probabilistic test. My article deals with three major types of relationships. First, I claim that the pandemic has not affected the way parliamentary democracies function. Presidential democracies have been negatively influenced, but this is essentially due to the personality of the Presidents. On the whole, there has been no democratic backsliding. Where some backsliding is visible, for example, in Hungary and Poland, these processes started well before the pandemic. Since we are dealing with a disease that affects entire political systems, the role of national authorities has been called into question. No pandemic can be defeated if and where the national bureaucracy is weak and resources are not mobilized by respective governments. Finally, the pandemic cannot be circumscribed and confined within the borders of one or several states. Hence, a lot of attention must be and has been given to the European authorities, namely the European Commission and its commitments. My conclusion is that the pandemic may improve the political integration of the European Union.

1. Premessa e obiettivi

Qualsiasi pandemia è un fenomeno che, come indica il prefisso “pan”, colpisce un po’ tutto e tutti. Non soltanto incide sulla salute e sulla vita degli uomini e delle donne, ma investe anche l’ambiente nel quale quelle donne e quegli uomini agiscono, vale a dire il loro sistema politico e le interazioni con altri sistemi politici, il sistema internazionale. La globalizzazione non risparmia niente e nessuno. Quando il poeta inglese John Donne (1572-1631) scrisse: “no man is an island” intendeva riferirsi alla socialità delle persone, al loro condividere sorti simili, alle loro interazioni e, persino, alle loro emozioni. Lo pensava in termini positivi, ma anche propositivi. Invece, la pandemia ha “incoraggiato” le donne e gli uomini a essere reciprocamente sospettosi, a non fidarsi le une degli altri, a confinarsi e a distanziarsi. Ma, paradossalmente, d’altro canto è anche possibile sostenere che si è prodotto anche un importante effetto positivo: spingere/obbligare gli stati a collaborare, magari rafforzando le organizzazioni internazionali a cominciare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Comunque, rimane decisamente opportuno che ciascuno stato rifletta sulle modalità con le quali ha affrontato la pandemia, quali soluzioni hanno, almeno parzialmente, funzionato, quali problemi sono stati evidenti e perché.

In questo articolo intendo affrontare alcune tematiche ampie e complesse. Primo, desidero analizzare come i diversi sistemi politici hanno affrontato la pandemia. Secondo, cercherò di individuare quali cambiamenti si avranno in quei regimi e, in senso più, lato nella politica. Per tutti i sistemi politici democratici il tempo dei bilanci verrà con le consultazioni elettorali. Allora, in una certa misura, sarà possibile valutare quanto le modalità di affrontare il Covid-19 da parte dei governanti conterà nelle motivazioni di voto dei cittadini. In conclusione, suggerirò con quali prospettive cercare di mettere ordine in quello che possiamo aspettarci quanto alle prestazioni e alle trasformazioni della politica. Lo farò con qualche riferimento alla necessità di capire quale ordine politico internazionale può essere (ri)costruito. Naturalmente, poiché scrivo mentre gli avvenimenti sono in corso non potrò dare giudizi definitivi. Il mio obiettivo di fondo è sostanzialmente quello di fornire chiavi di lettura da utilizzare per capirne di più. Pertanto, procederò attraverso la formulazione di alcune riflessioni generali intese a cogliere la problematicità di quanto è successo e, purtroppo, continuerà a succedere per un periodo di tempo indefinito, e a evidenziare tutte (o quasi) le criticità emerse. La mia tesi di fondo, che denuncio subito è che, da un lato, la pandemia si è rapidamente e praticamente rivelata un vero e proprio test, una cartina di tornasole che ha messo in luce gli elementi di forza e di debolezza di ciascun sistema politico e di tutti. Dall’altro, ha prodotto qualche consapevolezza della vulnerabilità dei singoli sistemi politici, ma non ha ancora portato ad una condivisione più ampia e convinta dei problemi e delle soluzioni se non, in buona, ma sicuramente perfezionabile, misura nell’Unione Europea. Inevitabilmente, in quanto la situazione è tuttora in movimento, le mie riflessioni debbono essere considerate preliminari, ma mi auguro non necessariamente inadeguate. Sono tutte da sottoporre al controllo, secondo Karl Popper, scientifico per eccellenza: la falsificazione. Se il mio articolo stimolerà altri a ricorrere a questo tipo di controllo, ne sarò molto lieto e gratificato.

Buona parte della mia attenzione e analisi sarà dedicate alle istituzioni, di rappresentanza e di governo, e all’esercizio della leadership politica negli Stati e nell’Unione Europea. Concluderò con alcune osservazioni sui rapporti fra il governo italiano e l’Unione Europea e con alcune riflessioni sul futuro dell’Italia, che cosa abbiamo imparato, che cosa riusciremo e cambiare o no. La risposta “torneremo come prima” voleva essere rassicurante, ma è sbagliata. Non torneremo come prima, una situazione nella quale molti cittadini democratici erano sicuramente insoddisfatti. Non sappiamo se riusciremo a costruire una situazione migliore, ma con tutta probabilità sarà una situazione diversa. A fronte di analisi poco problematiche, vale la pena esercitare un po’ di “immaginazione politologica”. Utilizzo questa espressione che rimanda al titolo di un libro importante del grande sociologo americano C. Wright Mills L’immaginazione sociologica (1959) per due ragioni. La prima è che le modalità suggerite da Mills per fare ricerca, vale a dire non solo accumulazione di dati e conoscenze, ma organizzazione del sapere acquisito, sono assolutamente rilevanti. La seconda è che, concordo con Mills, l’immaginazione, non solo quella degli studiosi, serve anche a cambiare le situazioni, retoricamente scriverò il mondo.

2. Quanto la pandemia ha cambiato la politica?

Per rispondere a questo importante quesito, dobbiamo premettere che, essendo la pandemia tuttora in atto, possiamo soltanto cogliere alcuni dei cambiamenti politici che si sono già prodotti. Per il resto, è opportuno esercitare l’immaginazione politologica andando alla ricerca degli indizi e formulare, come vorrebbe Popper, delle congetture, oppure spingersi più in là fino a generalizzazioni che consentano l’elaborazione, come suggeriva Sartori, di “teorie probabilistiche”. Queste teorie debbono essere formulate come segue: “Ogniqualvolta si presentano le condizioni a, b, c è probabile che ne derivino le conseguenze x, y, z”. Alcuni esempi significativi riguardano la formazione dei partiti, l’influenza dei sistemi elettorali, l’analisi delle coalizioni di governo, il sorgere dei regimi autoritari e il loro declino. Qualsiasi buon manuale di scienza politica contiene esemplificazioni suggestive di una o più teorie probabilistiche (Pasquino 2009). Credo che chi sostiene che la politica che verrà sarà sostanzialmente diversa da quella che preesisteva abbia il dovere scien­tifico di guardare in special modo ai regimi attualmente esistenti: democratici, autori­tari, totalitari, teocrazie, sultanismi, da un lato, suggerendo quali trasformazioni siano avvenute o avverranno al loro interno, dall’altro, precisando quali regimi saranno costretti a cambiare traducendosi in quale altro, drasticamente diverso, regime.

Tutti gli indizi fanno credere che la pandemia è iniziata in un regime politico totalitario, la Cina, che ha colpevolmente soppresso le informazioni. Ha poi colpito alcuni regimi autoritari, Singapore e Russia, ma, naturalmente, non ha risparmiato un grande numero di regimi democratici, peraltro molto diversi fra loro. Notevole è che fino al momento in cui rivedo il testo (gennaio 2021) non abbiamo assistito a nessun avvenimento di regime change (la sconfitta di Trump fa parte della fisiologia elettorale delle democrazie). Cina e Singapore hanno mantenuto il controllo sui loro cittadini. Per quel che riguarda la Cina, nessuno dei dirigenti del Partito Comunista sembra essere stato chiamato a rispondere delle sue azioni e delle sue omissioni, operazione sempre difficile e sempre molto improbabile nei regimi non-democratici. È possibile ipotizzare che valga anche per i regimi non-democratici quello che si ritiene opportuno nelle democrazie: non cambiare la leadership nel corso dell’emergenza. Naturalmente, i dirigenti dei regimi non-democratici hanno molte risorse per mantenersi al potere. Con riferimento all’affermazione spesso pronunciata di una superiorità decisionale dei regimi non-democratici su quelli democratici, non pare che questo sia stato il caso. Rimanendo in Asia e quindi analizzando casi relativamente simili, i non-democratici Cina e Singapore non hanno reagito meglio alla pandemia di quanto fatto dai regimi democratici di Corea del Sud e Taiwan. Addirittura, la Corea del Sud ha tenuto elezioni presidenziali nel bel mezzo della Pandemia, 15 aprile 2020, vinte dal Presidente in carica. A proposito di elezioni, si è poi votato anche per le elezioni presidenziali in Polonia, previste per il dieci maggio, posticipate, ma poi svoltesi il 28 giugno (primo turno) e il dodici luglio (ballottaggio). In Italia, nel settembre 2020 si sono tenute elezioni in sette regioni e gli italiani hanno anche votato per un referendum nazionale. Infine, negli USA è in corso la campagna elettorale per la conquista della Casa Bianca. Forse più delle precedenti, in questa campagna il Covid-19 impone il ricorso alla comunicazione politica di tutti tipi. Il Presidente Trump ha persino utilizzato il suo personale contagio per mostrarsi capace di superare situazioni difficili. In Italia, fin dall’inizio il Presidente del Consiglio Conte ha accentrato su di sé la comunicazione politica. Tutti i sondaggi che riguardano popolarità e approvazione dell’operato dei leader politici lo vedono largamente in testa, con un rarissimo 60 per cento dei consensi, segno che sta avendo notevole successo. Altrove, in Nuova Zelanda, grande è stato il successo del Primo Ministro Jacinda Ardern che si è dimostrata capace di prendere decisioni diffi­cili in tempi rapidissimi. Utilissima sarebbe una, qui impossibile, analisi comparata delle reazioni e dei comportamenti dei capi di governo, ad esempio, Boris Johnson, Bolsonaro, Merkel.

3. Qualche riflessione comparata

È stato a lungo sostenuto che il maggior pregio delle repubbliche presidenziali consiste nella stabilità dell’esecutivo e del suo capo, mentre il difetto più grave delle democrazie parlamentare consiste proprio nell’instabilità dei loro governi, prevalentemente governi di coalizioni multipartitiche. Le democrazie presidenziali sarebbero in grado di procedere a decisioni non negoziate e di attuarle rapidamente. Le democrazie parlamentari avrebbero maggiori difficoltà nel produrre decisioni e più lentezza nell’attuarle. In casi di emergenza, quindi, le prime dovrebbero riuscire a rispondere in maniera molto più efficace. Valutando l’operato del Presidente USA, Donald Trump e di quello brasiliano, Jair Bolsonaro, non sembra che sia stato così. Altri fattori sono entrati in gioco. Prima di vedere quali fattori, è importante ricordare che da tempo, grazie a Juan Linz (1994), ma si veda anche Cheibub (2007), ne sappiamo molto di più. Da quasi trent’ anni è possibile sostenere con abbondanza di dati che tanto le modalità di selezione e elezione del Presidente presidenziale quanto il fatto che, una volta in carica, non può essere sostituito tranne in circostanze di straordinaria gravità, rendono le Repubbliche presidenziali suscettibili di gravi problemi di funzionamento. Da un lato, Trump, dall’altro, Bolsonaro hanno confermato in maniera plateale quanto irresponsabili e incontrollabili possano diventare i comportamenti dei presidenti presidenziali. Molti loro collaboratori importanti li hanno lasciati o sono stati costretti alle dimissioni segnalando che anche le Repubbliche presidenziali possono avere problemi di instabilità.

Ciò detto, la tabella qui inserita contiene i dati più aggiornati sulla diffusione del Covid-19 (per l’Italia al 29 settembre i dati erano: 315.000 contagiati; 228.000 guariti; 35.894 decessi), ma ovviamente non consente di individuare regolarità tali da sostenere che sono state le democrazie parlamentari a reagire peggio delle democrazie presidenziali o viceversa. Probabilmente, la variabile più importante è la leadership, ma un’affermazione simile è una congettura attendibile alla quale non sono in grado di attribuire totale credibilità.

Anche con riferimento ai drammatici casi di Trump e Bolsonaro, molto opportunamente Francis Fukuyama (2020) ha sostenuto che i principali fattori esplicativi da prendere in considerazione sono tre: un apparato statale competente, un governo nel quale i cittadini hanno fiducia e che ascoltano, una leadership efficace. Questi tre fattori interagiscono fra loro, rafforzandosi e indebolendosi, ma dove la leadership è inefficace, l’intero circuito entra in crisi, incluso la governance in ambito sanitario (Nuti/Vola/Bonini/Vainieri 2016). A riprova, si possono citare le dimissioni più o meno forzate di numerosi esponenti dell’Amministrazione Trump, le ripetute e sommarie critiche agli scienziati e agli esperti sanitari, gli scontri con le autorità locali, governatori degli Stati e sindaci, i costanti attacchi ai mass media e ai giornalisti. Forse, tutto questo serve anche a spiegare, almeno in parte, perché, nel momento in cui scrivo, USA e Brasile siano i due paesi con il più alto numero di morti a causa del Covid-19.

Sul versante delle democrazie parlamentari, europee e di quelle della diaspora anglosassone (Australia, Canada, Nuova Zelanda), i dati sono assolutamente sorprendenti. Queste ultimi hanno retto alla pandemia in maniera straordinariamente efficace. In generale, in nessuna democrazia occidentale (e orientale) c’è stata una crisi di governo; non si è proceduto a nessun rimpasto e a nessuna sostituzione significativa di ministri. Il confronto con i numerosi mutamenti nelle squadre di Trump e di Bolsonaro va chiaramente a vantaggio delle democrazie parlamentari.

Spesso, nel passato, in situazioni di grave emergenza, crisi economiche e soprattutto guerre, le democrazie parlamentari hanno reagito procedendo alla formazione di governi di unità nazionale. Di nuovo, anche se, per esempio in Italia, ma brevemente e senza troppa convinzione, le opposizioni hanno chiesto la formazione di un governo di unità nazionale, in nessuna democrazia parlamentare si è proceduto in questo senso. I governi in carica hanno mantenuto sulle loro spalle l’onere delle decisioni e, naturalmente, potranno sfruttare l’onore del successo, se le loro decisioni avranno conseguito gli obiettivi. Comunque, si manterrà limpido il circuito della responsabilità. Saranno gli elettori a valutare quanto è stato fatto, non fatto, fatto male dai loro governi senza nessuna commistione e confusione che potrebbero derivare da una consociazione con le opposizioni. La dialettica democratica non è venuta meno. È stato certamente difficile, per ragioni di sicurezza e salute personale, convocare le assemblee parlamentari, luogo classico dove i governi e i loro ministri si confrontano con le opposizioni e i loro rappresentanti. Ciononostante, tutti i dati disponibili (che si possono, seppure a fatica, ottenere dai diversi siti dei parlamenti, ma anche questa è un’altra ricerca) indicano che nella misura del possibile i Parlamenti dall’Italia alla Svezia, dalla Gran Bretagna alla Germania e alla Spagna hanno continuato a funzionare a ritmo appena ridotto senza inconvenienti e, soprattutto, senza che il governo cercasse di operare sentendosi svincolato da qualsiasi regola e consuetudine. Insomma, la democrazia non è stata sospesa e il confronto, talvolta scontro, politico è continuato.

Naturalmente, alcune misure prese dai governi sono state sottoposte a critiche, in particolare quelle relative al confinamento (lockdown) e al distanziamento sociale, e, ma al momento sembra essere per lo più soltanto un’ipotesi, all’applicazione della tecnologia per la tracciabilità dei movimenti personali. Comunque, è importante riflettere su quelle che sono limitazioni alle libertà personali. Abitualmente, il punto di partenza di qualsiasi riflessione in materia è la famosa distinzione formulata da Immanuel Kant e poi resa famosa dal filosofo politico Isaiah Berlin fra “due concetti di libertà”. Da un lato, forse prioritariamente, sta la libertà da; dall’altro, la libertà di. La prima significa che nessuno pone impedimenti esterni alla mia volontà e possibilità di agire. La seconda è che personalmente sono in condizione di fare quello che desidero. I due concetti di Berlin (2000) disegnano la libertà individuale, di ciascuno, nel mondo ideale del liberalismo. A mio modo di vedere, la pandemia indica che c’è un problema fondamentale che riguarda la libertà delle persone in un mondo nel quale il virus porta contagio. È un problema di cui, almeno in parte, eravamo consapevoli, ma che il virus ha evidenziato in maniera eclatante.

Le libertà personali, ad esempio, la libertà di circolazione, incontrano un limite nelle libertà degli altri. Possono, pertanto, essere limitate se conducono, per esempio, al contagio degli altri, e, naturalmente, viceversa. Chi e come pone dei limiti alle libertà personali è un problema politico che deve essere risolto con riferimento, anzitutto, alla Costituzione. Al proposito, valgono i criteri enunciati da Fukuyama. Una leadership legittima e credibile può stabilire limiti, temporanei alle libertà dei cittadini. Quei cittadini accetteranno più facilmente e più consapevolmente quei limiti se esiste una situazione di fiducia sociale diffusa, ma soprattutto di fiducia nei leader, nei partiti, nelle istituzioni, nella magistratura e nella burocrazia, in tutti coloro che emaneranno regole giuste e le faranno rispettare senza privilegi per nessuno anche grazie a modalità di comunicazione le più trasparenti possibili. La pandemia spinge a riflettere sulla e sulle libertà in un mondo globalizzato non per tornare a chiusure generalizzate delle frontiere, che comunque difficilmente bloccheranno la circolazione dei virus, ma per ridefinire gli spazi e le modalità di esercizio delle libertà. È un ripensamento imperativo per tutti coloro che ritengono che la soluzione totalitaria cinese, controllo capillare esercitato su tutti, senza regole, senza limiti di tempo e di spazio, è non solo inaccettabile, ma anche, in sostanza, inefficace.

4. Discutendo le conseguenze sulle democrazie

Le libertà personali e i diritti stanno a fondamento delle democrazie e, in un senso molto chiaro, le democrazie sono quei regimi che meglio proteggono e promuovono libertà e diritti. Senza un lavoro che, in alcune costituzioni, ad esempio, quella italiana, è considerato un diritto, uomini e donne incontrerebbero molte difficoltà a esercitare i loro diritti politici. La pandemia ha colpito in maniera pesantissima tutto il settore del lavoro, soprattutto la parte del lavoro dipendente legata al mercato. La ripresa sarà complicatissima e, probabilmente, anche molto lenta. Si è cercato di limitare in una qualche misura i danni derivanti dall’impossibilità di recarsi sui luoghi tradizionali di lavoro facendo ricorso, nella misura del possibile, con grandi differenze da paese e paese, all’interno dei paesi e fra i settori produttivi, al cosiddetto smart working, modalità telematiche di lavoro da casa. Certamente, nella Silicon Valley, questa modalità di lavoro non deve avere creato particolari problemi e difficoltà di adattamento e di prestazioni. Però, quando discutiamo dell’impatto politico della pandemia, non è l’aspetto tecnico dello smart working a richiamare il nostro interesse. Lo smart working dovrebbe destare molta preoccupazione (certamente lo fa in chi scrive) non per le sue conseguenze economiche, ma per le conseguenze sociali e, in senso lato, politiche.

Lavorare da soli, a casa, con notevole padronanza dei propri tempi e dei propri ritmi può comportare dei vantaggi per i singoli lavoratori e lavoratrici. Però, è probabile che queste nuove modalità di lavoro abbiano conseguenze non positive per la vita sociale e politica complessiva e, naturalmente, anche degli stessi lavoratori, per esempio, eventualmente ampliando il gender gap. Da un lato, sappiamo che, da qualche tempo la disponibilità ad associarsi (in partiti, in sindacati, in organizzazioni professionali, culturali, del tempo libero) dei cittadini delle democrazie è diminuita in maniera molto significativa. Vent’anni fa Robert D. Putnam (2000) divenne famosissimo per avere rivelato il fenomeno in un libro dal titolo molto accattivante: Bowling Alone. Qual è il problema di andare a giocare da soli a bowling, con la propria T-shirt e le proprie bocce, e non con una squadretta di amici e compagni abituali? Putnam documentò che quel “giocare a bowling da soli” era il segnale possente di un declino della disponibilità degli americani ad associarsi. Quasi nello stesso periodo il sociologo polacco Zygmunt Baumann (1999) coniò la fortunata definizione “società liquida” nella quale classi sociali si sono dissolte e l’individualismo ha preso il sopravvento con conseguenze non buone per la democrazia.

Dall’altro lato, dalla fondamentale analisi di Tocqueville, La democrazia in America (due volumi: 1835, 1840) in poi abbiamo creduto che la crescita civile di una società dipende dalla capacità dei cittadini di associarsi liberamente “ogniqualvolta c’è un problema”. Da allora, sappiamo che il pluralismo competitivo è uno dei cardini della democrazia e che la democrazia lo protegge e grazie alla sua esistenza prospera. Lo smart working, isolando le persone, non facendole incontrare fisicamente, limitando le loro conversazioni, incide in maniera probabilmente pesante e forse anche duratura sul pluralismo associativo, ad esempio, sui sindacati e sulla loro possibilità di rappresentare interessi collettivi, con conseguenze che è difficile ritenere positive per la democrazia.

Da qualche anno, la moda, non solo politologica, è consistita nell’indossare gli abiti cupi dei preoccupati e addolorati studiosi delle democrazie che si affacciano al capezzale delle democrazie occidentali, dichiarando che soffrono di malattie gravi, addirittura incurabili. Di recente, grande successo editoriale, segno dei tempi, ha riscosso il libro di Steven Levitsky e Daniel Ziblatt (2018). Peraltro, nessuna delle loro previsioni si è finora avverata. Eppure, la pandemia sembrerebbe possedere caratteristiche tali da assestare un colpo mortale ad alcune democrazie. Ho l’impressione che per conoscere davvero come muoiono le democrazie rimane fondamentale il volume curato da Juan Linz e Alfred Stepan (1978) che consente di individuare le azioni e le omissioni delle autorità che aprono la strada ai nemici delle democrazie e che, pertanto, offre il quadro teorico indispensabile per giungere a generalizzazioni feconde sulle condizioni che indeboliscono e fanno crollare le democrazie. Comunque, negli ultimi vent’anni, alcune democrazie hanno avuto seri problemi di funzionamento, ma, fermo restando che i casi dell’Ungheria e della Polonia sono molto preoccupanti, nessuna delle democrazie è crollata tranne, forse, il Venezuela che meriterebbe un’analisi specifica e approfondita.

La trasformazione delle democrazie può avvenire anche senza un vero e proprio crollo, ma con un progressivo deterioramento. Lo rilevò in maniera originale e preveggente Fareed Zakaria (1997) lamentando lo svuotamento interno di alcune democrazie proprio ad opera dei dirigenti eletti. Mi pare alquanto improbabile che il capo del governo ungherese Viktor Orbán abbia letto l’articolo di Zakaria. Certamente, non l’ha fatto Vladimir Putin. Entrambi sono nemici dichiarati delle democrazie liberali. In una lunga intervista al “Financial Times”, fine giugno 2019, Putin ha dichiarato che la democrazia liberale ha esaurito il suo compito, quello di garantire a tutti le libertà personali e che oggi è venuto il tempo delle democrazie illiberali che si danno regole più rigide formulate sulle esigenze dei popoli e delle nazioni. Putin è spavaldamente seduto sul regime autoritario di sua creazione. Per quel che riguarda Orbán, non si può attribuire alla necessità di combattere la pandemia la sua lenta e graduale compressione della democrazia ungherese cominciata alcuni anni prima e proseguita con interventi da manuale. La pandemia è stata un fattore facilitante di un processo già in corso che, comunque, può ancora essere arrestato.

La mia tesi di fondo è che la pandemia non ha, almeno finora, cambiato la politica di nessuno Stato e, mi ripeto, non ha prodotto nessun regime change. Tuttavia, la pandemia ha in qualche modo fatto una radiografia a ciascun sistema politico oppure, metafora leggermente diversa, ha agito da cartina di tornasole rendendo visibili difetti e vizi da tempo esistenti. Sono stato lieto di leggere che anche Michael Pollan (2020) fa ricorso ad una metafora: “Soltanto quando la marea si ritira, scopriamo chi stata nuotando nudo. Per le nostre società, la pandemia del Covid-19 rappresenta il riflusso di dimensioni storiche della marea che mette a nudo le vulnerabilità e le diseguaglianze che nei tempi normali sono rimaste nascoste”. Tutti, cittadini e autorità, commentatori e analisti politici siamo in grado di vedere meglio come sono strutturati i sistemi politici, quali sono i loro punti di forza e di debolezza, che cosa debbono, che cosa possono e che cosa riusciranno a cambiare. Procedendo in questo modo saremo in grado di meglio valutare le risposte già date e di formulare ipotesi probabilistiche sul futuro. Ad esempio, se uno Stato ha una burocrazia lenta e sospettosa, reclutata almeno in parte in maniera clientelare, incapace di spendere i fondi che vengono/verranno messi a sua disposizione, la ripresa economico-sociale sarà difficile e tardiva. Questa è la condizione di partenza dell’Italia che, pertanto, rischia di non utilizzare nei tempi giusti e efficacemente i fondi europei. Questo significherebbe proprio che la pandemia non ha prodotto quei cambiamenti nel funzionamento del sistema politico, delle sue istituzioni di rappresentanza e, soprattutto, di governo (burocrazia compresa), per i quali molti sostengono che una grave crisi porti ad aprire significative finestre di opportunità.

5. Il ritorno dello Stato

È mia opinione, ma questo punto merita e richiederebbe molti approfondimenti in prospettiva comparata, che la pandemia ha condotto ad una rivalutazione del ruolo dello Stato a scapito di quello del mercato. Il ritorno dello Stato è stato richiesto da tutti i gruppi sociali, associazioni professionali e culturali. La società civile si è resa conto di avere assoluto bisogno dello Stato. A sua volta, la pandemia ha richiesto che le più importanti decisioni, politiche e, persino, sanitarie, fossero prese dagli organismi statali. È altrettanto evidente che l’assegnazione delle risorse non poteva essere effettuata dal mercato, ma doveva essere decisa dai governi in grado di selezionare in base a una pluralità di criteri. Infine, soltanto i governi potevano disporre di una visione di insieme e agire di conseguenza. Almeno in questo delicatissimo frangente, la mano visibile dello Stato ha dimostrato la sua superiorità sulla mano invisibile del mercato. Che lo Stato mantenga un ruolo esteso anche alla gestione della economia attraverso una presenza in molte imprese è giustamente oggetto di discussione pubblica che non può automaticamente privilegiare né l’uno (Stato) né l’altro (mercato), come, invece fa, aprioristicamente a favore del mercato, Angelo Panebianco (2020). Cito questo articolo soprattutto per una ragione. È la sinistra riformista in Italia che crede opportuno rivalutare lo Stato e usarne il potere per orientare i mutamenti necessari e possibili nell’economia e nella società, per fare le riforme. Invece, il mercato viene elogiato, spesso molto al di là dei suoi meriti, dalla borghesia industriale, dai conservatori e dalla Lega soprattutto per contrapporsi alla sinistra.

Difficile dire se siamo di fronte ad una sconfitta senza appello del liberismo. Il cosiddetto Washington consensus, in realtà l’imposizione di politiche liberiste e monetarie volute fra gli altri, oltre che dal governo USA, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, era già stato scosso e, in parte, ridimensionato. Tuttavia, mi pare certo che il liberalismo abbia subito una importante battuta d’arresto. Siamo all’inizio del rovesciamento di una tendenza che aveva portato allo smantellamento dello Stato in molti settori, anche in quello della sanità (in particolare, in Italia, il sistema sanitario della regione Lombardia nella quale hanno un grande spazio i privati). Probabilmente, una delle conseguenze della pandemia e della sua gestione, sarà anche un ripensamento e un ritorno del welfare State con altre priorità, anche con altre modalità. Approfondisco questi due importantissimi aspetti.

Nelle democrazie europee, le due più grandi conquiste del dopoguerra sono consistite nel ricorso ai precetti fondamentali del keynesismo (si vedano i capitoli del volume curato da John Goldthorpe 1985) come politica economica, e nella costruzione dello Stato del benessere (si vedano, come testimoni del tempo, i capitoli nel volume curato da Salvador Giner e Sebastián Sarasa (1977) come insieme articolato di politiche sociali. Sia il keynesismo sia lo stato del benessere nacquero, si affermarono e si svilupparono all’interno degli Stati nazionali. Funzionarono al meglio dove quegli stati, in Scandinavia, ma anche in Gran Bretagna e in Germania, furono capaci di guidarle in maniera flessibile e di riformarle. Cominciarono a mostrare difficoltà e problemi quando il vento della globalizzazione investì ciascuna economia nazionale. Infine, il keynesismo divenne impossibile da applicare in ciascuno Stato singolo e fu del tutto abbandonato al livello dell’Unione Europea nella quale prevalsero l’ideologia e la pratica dell’Ordoliberalismo nella sua rigida interpretazione e attuazione tedesca sostenuta da non pochi stati dell’Europa centro-settentrionale. Questa è una storia lunga e controversa sulla quale adesso vediamo si è abbattuta la pandemia.

Infatti, dopo non poche resistenze nazionali/ste e tentativi di seguire proprie strade specifiche e individuali, persino nei civilissimi paesi scandinavi, le democrazie europee hanno dovuto apprendere rapidamente che alle problematiche sanitarie in un mondo globalizzato non possono esistere risposte chiuse dentro i confini nazionali. Più in generale, i sistemi economici degli Stati-membri dell’Unione Europea sono molto strettamente collegati fra loro. Quindi, è indispensabile che non soltanto le politiche monetarie, ma anche le politiche fiscali siano meglio coordinate e che, di conseguenza, bisognerà andare verso politiche comuni anche nei settori del lavoro. La pandemia ha insegnato una lezione importante che possiamo sintetizzare nella frase nessuno si slava da solo. Nessuno stato, in particolare, nell’ambito dell’Unione Europea, può riuscire a sconfiggere le emergenze senza ottenere qualche forma di aiuto e di solidarietà dagli altri stati. Tutti gli Stati-membri dell’Unione Europea hanno messo in comune nelle istituzioni europee (Parlamento, Commissione, Banca Centrale, Corte Europea di Giustizia) parte della loro sovranità. Pertanto, è nel loro interesse agire in modo tale che la sovranità condivisa sia esercitata al meglio ad opera delle diverse istituzioni. La pandemia ha dato un’ulteriore spinta alla condivisione sovranazionale della sovranità. L’interrogativo scientifico e politico è se questa spinta continuerà, si estenderà e approfondirà i collegamenti fino a quella unificazione politica che era l’obiettivo di lungo periodo dei fondatori dell’Europa: i francesi Robert Schumann e Jean Monnet, il tedesco Konrad Adenauer, gli italiani ­Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, il belga Paul-Henri Spaak.

L’Unione Europea fu pensata dai suoi fondatori soprattutto come una costruzione in grado di porre fine alle disastrose guerre originate dalle ambizioni e dagli interessi contrastanti di Francia e Germania. Obiettivo primario fu la Pace. L’UE ha indubbiamente ottenuto questo successo riconosciutole anche dal Premio Nobel 2012 per avere “contribuito alla pace, alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani in Europa”. Ciononostante, tranne qualche ammirevole eccezione, ad esempio, Andrew Moravcsik (2002), professore a Princeton, la maggioranza degli studiosi e dei politici afferma con certezza che nell’Unione Europea esiste una grande deficit democratico. È una tesi sbagliata che identifica la democrazia con i procedimenti elettorali e che non rende conto correttamente né della rappresentanza dei cittadini nel Parlamento Europeo né della presenza nel Consiglio Europeo dei capi di governo e del loro potere in quanto sostenuti da una maggioranza di cittadini nei rispettivi Stati-membri. Chi argomenta la tesi del deficit democratico della Unione Europea, come ha fatto di recente, in maniera molto articolata e densa Vivien A. Schmidt (2020), avrebbe avuto molti (cattivi) motivi per attendersi che la pandemia disarticolasse la costruzione europea, anche perché già indebolita dai populisti e insidiata dai sovranisti, oppure, comunque, quasi immobilizzasse le sue istituzioni rendendole incapaci di qualsiasi risposta operativa. Invece, sia la Commissione Europea sia la Banca Centrale sia il Consiglio hanno mobilitato le loro risorse di competenze e di fondi e stanno compiendo sforzi enormi per salvare gli Stati-membri e per rilanciarne non soltanto le rispettive economie, ma anche la cooperazione e la solidarietà. È un processo tuttora in corso il cui esito positivo è tutt’altro che predestinato, ma certamente possibile. È anche un caso da manuale di un’emergenza che, dopo gli iniziali ripiegamenti nazionali, si trasforma in opportunità.

Se nessuno Stato può fare da solo e tutti debbono cercare di restare a galla nel procelloso mare della globalizzazione, allora, per restare in metafora, contano molto le regole della navigazione, vale a dire quale ordine si afferma nel sistema politico internazionale. Gli studiosi concordano sul fatto che da qualche tempo è oramai venuto meno l’ordine internazionale liberale che, anche attraverso la costruzione di organismi internazionali, gli Stati Uniti avevano promosso e mantenuto con il concorso di altri regimi democratici a partire dal 1946. Quando si manifestarono le prime tensioni in quell’ordine internazionale liberale, alcuni policy-makers e studiosi di relazioni internazionali americani giunsero a definire gli USA la “nazione indispensabile”. Con le sue critiche e con i suoi attacchi ad alcune organizzazioni internazionali, in particolare, per quel che riguarda il Commercio (WTO) e la Sanità (World Health Organisation), con la sua politica ispirata dallo slogan “America first” che concretamente significa protezionismo e unilateralismo, Trump ha affossato e quasi seppellito l’ordine liberale internazionale proprio quando la pandemia spinge a ritenere che soltanto una vigorosa azione internazionale ha qualche probabilità di superare la drammatica crisi e di creare le condizioni per prevenirne o attutirne le successive.

In Europa la pandemia ha colpito duramente i sovranisti, coloro che propagandavano soluzioni nazionali rivelatesi inadeguate o, più semplicemente, impraticabili. In Italia, nonostante una pluralità di critiche dei politici, degli operatori dei mass media, di intellettuali, alle modalità di rapporti fra il governo e il suo capo e il Parlamento, la popolarità del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è cresciuta ed ha raggiunto il punto più alto nella storia della Repubblica. In Brasile la pandemia ha colpito l’esperimento populista di Bolsonaro, ma non sembra averlo affondato. Negli USA saranno le elezioni del tre novembre 2020 a dire se la lezione della Pandemia e della sua pessima gestione ad opera di Trump ha avuto un ruolo significativo nel convincere gli elettori che è indispensabile cambiare completamente strada.

6. Conclusione inconcludente

Concludo con due considerazioni di carattere generale. Entrambe dovranno diven­tare l’oggetto di ricerche comparate. La prima considerazione riguarda le caratteristiche personali e sociali di coloro che sono stati colpiti dal Covid-19. La seconda considerazione è più generale. Nel passato, ha sostenuto un importante studioso di storia, Walter Scheidel, nella sua molto voluminosa ricerca: le grandi crisi: guerre, carestie, epidemie hanno portato ad una riduzione significativa delle diseguaglianze. Siamo già in grado di dire, e Scheidel (2017) stesso lo ha rilevato in numerosi articoli, che questa volta non sarà affatto così.

Quanto alla prima considerazione, in mancanza di studi sistematici, che hanno bisogno di tempo, ma sicuramente verranno, possiamo basarci sui dati attualmente disponibili che offrono alcune indicazioni di fondo. Gli uomini sono stati più esposti delle donne al contagio da Covid-19 e contano molte più vittime in un rapporto all’incirca di due vittime ogni tre contagiati. Gli uomini al di sopra dei settant’anni hanno avuto il più alto tasso di mortalità. Negli USA il tasso di mortalità più elevato riguarda le minoranze, soprattutto i neri. Quanto alle classi sociali sono i più svantaggiati economicamente e socialmente ad essere stati maggiormente colpiti. Tuttavia, questo dato potrebbe riflettere una carenza più di fondo: da un lato, l’accesso al sistema sanitario è più difficoltoso, sia negli Stati Uniti sia in Brasile, per le persone più svantaggiate, dall’altro, di nuovo, per quanto, ovviamente, in maniera diversa, né il sistema sanitario USA né quello brasiliano raggiungono i livelli qualitativi dei sistemi sanitari in Europa (e, a quanto sembra, in Corea del Sud e a Taiwan).

Per quel che riguarda un eventuale effetto della pandemia sulla riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali, non sembra essere avvenuto. Non siamo ancora in grado di affermarlo con totale sicurezza, ma complessivamente appare probabile che, anche se molti sono i morti fra i “ricchi”, non c’è dubbio che i poveri sono stati maggiormente esposti al contagio e alla morte. Non solo, ma avendo perso il posto di lavoro e raramente disponendo di risparmi, i poveri e le loro famiglie si stanno trovando in condizioni molto peggiori della fascia dei cittadini meglio istruiti e con posti di lavoro ad alto reddito. Anche costoro hanno subito perdite e conseguenze negative, ma, grazie ai risparmi e al loro status vi stanno facendo fronte in maniera non particolarmente penalizzante cosicché l’esito finale potrà addirittura essere che le differenze socioeconomiche fra le classi popolari e i settori medio-alti e alti saranno, non diminuite e raccorciate, ma cresciute e ampliate. Ne possiamo trarre una conclusione molto preoccupante. I ceti medio-alti e alti avranno le risorse per influenzare l’elezione dei rappresentanti e dei governanti e quindi anche le politiche pubbliche, tasse e investimenti che saranno attuate. La ripresa economica, se e quando avverrà, non riuscirà ad andare a favore dei ceti svantaggiati per un periodo di tempo più o meno lungo, comunque indefinito.

Penso di potere concludere questa escursione ed esplorazione delle problematiche più importanti derivanti dall’impatto della pandemia con due frasi che sintetizzano quello che ho imparato e che vedo, in buona misura, trattato da più specialisti nel libro, anche e-book, curato da Alessandro Campi (2020). No, la politica non tornerà ad essere come prima, ma gli Stati che avevano una buona politica riusciranno probabilmente a fare tesoro degli insegnamenti che servono per andare verso una politica migliore attraverso collaborazioni e coordinamenti. No, complessivamente, il mondo non tornerà come prima.

Dietro l’angolo si trovano molti potenziali conflitti e non si intravvedono le tracce e gli indizi di nessun nuovo ordine internazionale liberale. Questo è un punto molto rilevante. Gli Stati Uniti stanno sostanzialmente perdendo l’autorevolezza indispensabile per cercare di ricostruire un ordine internazionale relativamente simile a quello che è esistito dal 1946 fino al 2001 (considero il riuscito attentato alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2001 e la scomposta reazione USA il segno che quell’ordine era davvero finito). Tutti sappiamo che lo sfidante è la Cina la quale, però, nonostante i suoi considerevoli sforzi diplomatici e economici, non sembra affatto in grado di superare la diffidenza che il suo regime totalitario suscita un po’ dappertutto. Supponendo, come ha ipotizzato Vittorio Emanuele Parsi (2020) in uno degli scenari da lui delineati per il futuro, che nel mondo si affacci un nuovo Rinascimento fondato sul “triangolo liberale”: mercato aperto, sovranità degli Stati, preferenza per la democrazia, bisogna sapere che, sostanzialmente, la Cina non accetta e non rispetta nessuno di quei tre principi. Giorno dopo giorno le sue rivendicazioni su Taiwan e le sue pesanti interferenze nella politica di Hong Kong dicono che, primo, non sarà affatto facile per la Cina imporre e mantenere un qualsiasi ordine interna­zionale e che, secondo, quell’ordine non sarà sicuramente né liberale né democratico. Non ci resta che l’utopia, ovvero pensare che il prossimo ordine internazionale sarà il prodotto difficilissimo e complessissimo del rafforzamento e del buon funzionamento delle organizzazioni internazionali sovranazionale a cominciare ­dalle Nazioni Unite. L’argomento è talmente importante e delicato che deve essere l’oggetto di un altro articolo tutto precisamente concentrato sulle modalità di costruzione del prossimo, se verrà, ordine politico internazionale. Al momento, siamo costretti a vivere, pensare e agire in un mondo disordinato.

La prima ridotta versione di questo articolo è stata pubblicata in Messico con il titolo Lecciones cortas comparadas por pandemia, in un libro curato da Roberto Moreno Espinosa, Las Ciencias Políticas y Sociales ante contingencias de amplio impacto. Incógnitas y propuestas, Ciudad de Mexico, Academia Internacional IAPAS, 2020, pp. 30-47.

Riferimenti bibliografici

Baumann, Zygmunt (1999), La modernità liquida, Roma/Bari: Laterza

Berlin, Isaiah (2000), Due concetti di libertà, Milano: Feltrinelli

Campi, Alessandro (a cura di) (2020), Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione, Soveria Mannelli: Rubbettino

CESPI (2020), Osservatorio del Coronavirus, 17 dicembre 2020 (https://www.cespi.it/it/ricerche/osservatori/covid-19) (28.1.2021)

Cheibub, José Antonio (2007), Presidentialism, Parliamentarism, and Democracy, Cambridge: Cambridge University Press

Fukuyama, Francis (2020), The Pandemic and Political Order. It Takes a State, in: Foreign Affairs, July/August

Giner, Salvador/Sarasa, Sebastián (a cura di) (1977), Buen gobierno y politica social, Barcelona: Editorial Ariel

Goldthorpe, John (1985), Order and Conflict in Contemporary Capitalism, Oxford: Oxford University Press

Levitsky, Steven/Ziblatt, Daniel (2018), How Democracies Die. What History Reveals about Our Future New York: Penguin Random House

Linz, Juan (1994), Presidential or Parliamentary Democracy: Does It Make a Difference?, in: Linz, Juan/Valenzuela, Arturo (a cura di), The Failure of Presidential Democracy, Baltimore/London: The Johns Hopkins University Press, 3-87

Linz, Juan/Stepan, Alfred (a cura di) (1978), The Breakdown of Democratic Regimes, Baltimore/London: The Johns Hopkins University Press.

Moravcsik, Andrew (2002), In Defence of the Democratic Deficit: Reassessing Legitimacy in the European Union, in: Journal of Common Market Studies, 40 (4), 603-624

Nuti, Sabina/Vola, Federico/Bonini, Anna/Vainieri, Milena (2016), Making governance work in the health care sector: evidence from a ‘natural experiment’ in: Italy, Health Economics, Policy and Law, 11 (1), 17-38

Panebianco, Angelo (2020), La nuova ondata statalista, in: Corriere della Sera, 8.6.2020, 1,32

Parsi, Vittorio Emanuele (2020), Vulnerabili. Come la pandemia cambierà il mondo, Milano: Piemme

Pasquino, Gianfranco (2009), Nuovo corso di scienza politica, Bologna: il Mulino

Pollan, Michael (2020), The Sickness of our Food Supply, in: The New York Review of Books, 11.6.2020, 4-6

Putnam, Robert D. (2000), Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community New York: Simon&Schuster

Scheidel, Walter (2017), The Great Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-First Century, Princeton: Princeton University Press

Schmidt, Vivien A. (2020), Europe’s Crisis of Legitimacy. Governing by Rules ad Ruling by Numbers in the Eurozone, Oxford: Oxford University Press

Wright Mills, Charles (1959), L’immaginazione sociologica, Milano: Il Saggiatore

Zakaria, Fareed (1997), The Rise of Illiberal Democracy, in: Foreign Affairs, November/December, 22-43

Tab. 1: Paesi con il numero più alto di decessi da Covid-19 (dati aggiornati al 17.12.2020)

Stato

Numero di casi

% del totale

% cumulata

Stati Uniti

315.247

19,0

19,0

Brasile

183.959

11,1

30,0

India

144.786

8,7

38,8

Messico

115.769

7,0

45,7

Italia

67.220

4,0

45,7

Regno Unito

66.052

4,0

53,7

Francia

59.361

3,6

57,3

Iran

53.095

3,2

60,5

Russia

49.151

3,0

63,5

Spagna

48.596

2,9

66,4

Argentina

41.365

2,5

68,9

Colombia

39.560

2,4

71,3

Perù

36.858

2,2

73,5

Germania

24.698

1,5

75,0

Polonia

24.345

1,5

76,4

Sudafrica

23.827

1,4

77,9

Indonesia

19.390

1,2

79,0

Belgio

18.278

1,1

80,1

America del nord America latina e caraibicaQuelle: CESPI 2020

Asia Africa

Europa (EU) Europa (non EU)

Vicino e medio oriente

Grafico 1: Paesi con il numero più alto di decessi da Covid-19 (dati aggiornati al 17.12.2020)

Quelle: CESPI 2020