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Roberta Medda-Windischer

La questione migratoria in Italia: ­l’orientamento della Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo

The migration issue in Italy: the perspective of the European Court of ­Human Rights

Abstract Migration issues, including those relating to asylum, subsidiary and humanitarian protection, identification, and management of accommodation and inclusion, are among the most thorny and complex issues that all European governments currently have to face. This contribution analyses these issues through the lens of the European Court of Human Rights and an important judgment adopted against Italy at the end of 2016 (Khlaifia and Others v. Italy). The case concerns three Tunisian nationals, who, after having crossed the Mediterranean Sea on makeshift boats, were brought to Lampedusa and subsequently expelled to Tunisia on the basis of a bilateral agreement between Italy and Tunisia. An analysis of the case will provide useful insights to better understand the limits on the capacity of the Italian Government, as well as other European states, to adopt measures and policies to address the issue of irregular migration in Italy and, more generally, Europe.

1. Introduzione

I primi mesi del 2017 sono stati caratterizzati da molteplici proposte presentate dal Governo italiano in tema di immigrazione (cfr. StranieriinItalia 2017; Internazionale 2017). Ciò non stupisce dato che le tematiche legate all’immigrazione, incluse quelle relative all’asilo, la protezione sussidiaria e umanitaria, le identificazioni nonché la gestione delle molteplici e complicate strutture di accoglienza ed espulsione (CPSA - Centri di primo soccorso e accoglienza, CDA - Centri di accoglienza, CRA - Centri di accoglienza per richiedenti asilo, CIE-Centri di identificazione ed espulsione, e SPRAR - Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati), sono fra le più spinose e complesse questioni che attualmente ogni Governo europeo deve affrontare (cfr. Consiglio europeo 2016). Dagli ultimi dati forniti dall’Unione Europea emerge infatti che il tema dell’immigrazione figura fra le maggiori preoccupazioni degli intervistati europei, sebbene anche la tematica del lavoro e della disoccupazione sia una questione prioritaria che comunque si intreccia con quella dell’immigrazione, della forza lavoro e delle risorse da impegnare per l’accoglienza e l’integrazione (Eurobarometro 2016; Perrineau 2016).

Fra le varie proposte discusse a livello nazionale ed europeo vi è, com’è noto, un’estrema discrepanza di opinioni, dovuta soprattutto al fatto che molti Paesi dell’Europa orientale, in particolare il cosiddetto Gruppo di Visegrad composto da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, si sono fortemente opposti a qualsiasi ripartizione del flusso migratorio che giunge sulle coste dei paesi del sud ­d’Europa, soprattutto Italia, Grecia e Spagna, mettendo a rischio la stessa tenuta dell’Unione Europea e chiamando in causa principi quali la solidarietà e la leale collaborazione fra gli Stati Membri (Ilsole24ore 2016).

Nelle ultime proposte presentate dal Governo italiano (cfr. StranieriinItalia 2017; La Stampa 2016), apprezzate dalla Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea (Ministero dell’Interno 2017a), così come dal Commissario europeo per le Migrazioni, gli Affari interni e la Cittadinanza, Dimitris Avramopoulos (Ministero dell’Interno 2017b), vi è l’impegno a stipulare degli accordi bilaterali con i paesi di origine delle persone immigrate, nonché con i paesi di transito, in modo da arginare l’enorme flusso migratorio registrato negli ultimi anni in l’Italia e, piú in generale, in Europa (Eurostat 2016a; 2016b). In particolare, per l’Italia risulta strategico un accordo con la Libia da dove proviene la maggior parte degli sbarchi (circa l’88 per cento nel 2016; cfr. UNHCR 2017a). Tuttavia, la fragilità del Governo libico guidato dal Presidente Al-Sarraj, instaurato nel 2015 sotto l’egida delle Nazioni Unite, non garantisce condizioni di stabilità nella totalità del territorio libico, in particolare nelle zone situate a sud del Paese, lungo il confine con il Niger, che si pone quale porta d’ingresso per la maggior parte delle persone in fuga da guerre, violenze, ma soprattutto povertà provenienti dall’Africa sub-Sahariana. I dati ufficiali, relativamente all’Italia, confermano che di tutti i richiedenti asilo, circa il 60 per cento non hanno diritto né all’asilo politico né ad altre forme di protezione internazionale (sussidiaria o umanitaria) poiché si tratta di persone che fuggono da situazioni di povertà e sono in cerca di una vita migliore, ma non fuggono da persecuzioni, guerre o altri tipi di violenza generalizzata nel proprio Paese (UNHCR 2017b).1

L’attuale debolezza del Governo libico rende pertanto l’applicazione di un possibile accordo fra Italia e Libia non solo di estrema difficoltà, ma, per alcuni, addirittura impossibile stante le attuali condizioni sul terreno, come sostenuto da Francesco Cherubini, professore di diritto dell’Unione Europea presso la Luiss (ilfattoquoti­diano 2017).

In questo quadro, il presente contributo si pone l’obiettivo di analizzare alcune delle problematiche che un accordo bilaterale con un paese di origine o transito, come ad esempio con la Libia, la Tunisia o il Niger, potrebbe sollevare. Lo strumento di analisi impiegato nel presente contributo è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU o Corte di Strasburgo) incaricata di monitorare l’attuazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), ratificata da 47 Stati europei fra i quali tutti i paesi appartenenti all’Unione Europea, oltre che paesi come la Turchia, la Russia e la Svizzera. In particolare, il presente capitolo si concentrerà sull’analisi di un’importante, e quanto mai attesa, sentenza della Corte di Strasburgo pubblicata alla fine del 2016 (cfr. Khlaifia and Others v. Italy 2016) che ha riguardato il caso di tre cittadini tunisini, i quali, dopo aver attraversato il canale di Sicilia su barche di fortuna, furono accolti nell’Isola di Lampedusa per poi essere espulsi in base ad un accordo bilaterale fra Italia e Tunisia che aveva per oggetto l’espulsione tramite una procedura facilitata dei migranti tunisini irregolari verso il proprio paese d’origine (cfr. Ministero dell’Interno 2011).

L’analisi del caso intende fornire un utile strumento per comprendere i limiti entro i quali il Governo italiano, così come gli altri Stati che hanno ratificato la CEDU, potranno adottare dei provvedimenti per affrontare il tema della gestione della migrazione irregolare in Italia e, più in generale, in Europa.

2. Sbarchi, ingressi irregolari, detenzione ed espulsioni: un caso paradigmatico

All’origine della causa che assurge ad essere un caso paradigmatico in tema di immigrazione vi è un ricorso presentato di fronte alla Corte di Strasburgo da tre cittadini tunisini sbarcati irregolarmente sulle coste siciliane nel settembre 2011 a seguito delle cosiddette “Primavere arabe” scoppiate in quel periodo in Tunisia e Libia (cfr. Khlaifia and Others v. Italy 2015; 2016). I ricorrenti denunciarono di essere stati tenuti in spazi sovraffollati e sporchi presso il Centro di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) di Lampedusa, e successivamente a bordo di alcune navi ormeggiate nel porto di Palermo dove furono trattenuti prima di essere rimpatriati verso la Tunisia. Le condizioni patite dai ricorrenti in questi frangenti sarebbero state inumane e degradanti e, in quanto tali, proibite dalla CEDU (art. 3). Inoltre, nel centro di accoglienza di Lampedusa e a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo sarebbero stati oggetto di un’illegittima privazione della loro libertà personale (art. 5 CEDU) e la successiva espulsione verso la Tunisia sarebbe avvenuta in violazione della CEDU (art. 4, Protocollo 4). Infine, i ricorrenti denunciarono di non aver potuto disporre di alcun ricorso effettivo per contestare la violazione dei loro diritti fondamentali (art. 13 CEDU).

Per meglio comprendere il contesto in cui è maturato il ricorso e la successiva decisione della Corte di Strasburgo è utile aggiungere che durante la permanenza nel centro di accoglienza (CSPA) scoppiò una violenta rivolta tra i migranti a seguito della quale i luoghi di accoglienza furono devastati e fu necessario trasferire i ricorrenti in un parco sportivo di Lampedusa per passarvi la notte. Successivamente, insieme ad un migliaio di migranti, i ricorrenti iniziarono delle manifestazioni di protesta nelle strade dell’isola. Fermati dalla polizia, i ricorrenti furono trasferiti a bordo di navi ormeggiate nel porto di Palermo in cui rimasero un paio di giorni, per poi essere rimpatriati. Prima dell’espulsione, i migranti furono ricevuti dal console della Tunisia che procedette alla loro identificazione, conformemente agli accordi italo-tunisini conclusi nell’aprile 2011 (cfr. Ministero dell’Interno 2011).

I cardini intorno ai quali ruota la vicenda in oggetto sono molteplici e riguardano:1) le condizioni inumane e degradanti che i ricorrenti ritennero di aver subito nel centro di accoglienza di Lampedusa e nelle navi ormeggiate nel porto di Palermo (art. 3 CEDU); 2) l’espulsione che per i ricorrenti sarebbe stata illegittima poiché avvenuta in forma collettiva, cioè come gruppo in quanto tale senza tenere conto della specificità di ogni singolo individuo (art. 4, Prot. 4 CEDU); 3) la privazione della libertà personale (art. 5 CEDU); ed infine 4) la mancanza di ricorsi effettivi presenti nel diritto italiano per denunciare le violazioni subite.

È utile inoltre notare che la sentenza della Corte di Strasburgo (nella sua composizione di Grande Camera, composta cioè da 17 giudici, fra i quali il Presidente e Vice-presidenti della Corte) del 15 dicembre 2016 ha parzialmente modificato il giudizio che era stato espresso in primo grado dalla Corte stessa con una decisione del 1 settembre 2015 (cfr. Khlaifia and Others v. Italy 2015). In questa sede, la Corte (nella sua composizione di Camera composta da cinque giudici) aveva riconosciuto la violazione da parte dell’Italia di tutte le doglianze sollevate dai ricorrenti, in particolare sotto il profilo relativo alla detenzione illegittima, alle condizioni inumane e degradanti subite nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, sebbene non a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo, alle espulsioni collettive e alla mancanza di rimedi effettivi (cfr. Khlaifia and Others v. Italy 2015, par. 181).

2.1 L’Isola di Lampedusa e i centri di accoglienza: condizioni inumane e degradanti?

Un aspetto cruciale del ricorso presentato dai tre tunisini è stata la presunta violazione dell’articolo 3 della CEDU che vieta i trattamenti inumani e degradanti oltreché la tortura (in questo caso non sollevata quale doglianza): i ricorrenti affermarono di essere stati sottoposti a questo tipo di trattamento durante la permanenza nel centro di accoglienza di Lampedusa e a bordo delle navi nel porto di Palermo (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 136-211).

La Corte di Strasburgo ha innanzitutto valutato il contesto in cui tali eventi ebbero luogo. A questo proposito la Corte nota che nel 2011 era in corso una grave crisi migratoria a seguito delle cosiddette “Primavere arabe”, cioè le rivolte avvenute in Tunisia e Libia (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 179; Parliamentary Assembly of the Council of Europe 2011). In quel frangente l’Italia, e in particolar modo l’isola di Lampedusa, fu investita da un massiccio afflusso di migranti nordafricani che crearono, per le autorità italiane, sfide organizzative, logistiche e strutturali molto importanti vista l’esigenza di doversi occupare contemporaneamente del salvataggio di barconi di fortuna, dell’accoglienza delle persone ammesse sul territorio italiano e del sostegno alle persone in condizioni di particolare vulnerabilità (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 179).

Inoltre, questa situazione di generale emergenza e gravità (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 181), venne ad aggravarsi ulteriormente nel caso dei tre ricorrenti, poiché, come visto in precedenza, dopo il loro arrivo nel centro di accoglienza di Lampedusa scoppiò una rivolta fra i migranti che poi iniziarono una protesta nelle strade dell’isola con scontri con la popolazione locale, atti di autolesionismo e atti vandalici. Tutto ciò, per la Corte, contribuì ad aumentare ulteriormente le difficoltà esistenti e a creare un’atmosfera di altissima tensione (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 181). Pertanto, la Corte evidenzia il fatto che l’ondata migratoria eccezionale portò le autorità italiane a dover svolgere una molteplicità di compiti per poter garantire la salvaguardia dei migranti e della popolazione locale nonché il mantenimento dell’ordine pubblico.

Infine, la Corte sottolinea che sebbene i ricorrenti fossero senz’altro indeboliti dalla pericolosa traversata nel Mediterraneo, tuttavia non erano richiedenti asilo e pertanto non avevano quelle intrinseche vulnerabilità specifiche di queste categorie di persone né avevano denunciato di aver subito esperienze traumatiche nel loro paese d’origine. Inoltre, la Corte fa notare che essi non erano né anziani né minori, né soffrivano, all’epoca dei fatti, di alcuna patologia particolare (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 194).

Pertanto, contrariamente a quanto aveva precedentemente stabilito la stessa Corte nel primo grado di giudizio (Khlaifia and Others v. Italy 2015, par. 124-144), per la Corte in via definitiva (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 199 e 210-211), alla luce del contesto generale e delle particolari circostanze del caso dei ricorrenti, il trattamento cui furono sottoposti nel centro di accoglienza di Lampedusa così come nelle navi ormeggiate nel porto di Palermo, non ha raggiunto quel minimo livello di gravità richiesto affinché il trattamento potesse rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 3 della Convenzione quali trattamenti inumani e degra­danti. In conclusione, per la Corte di Strasburgo le condizioni di accoglienza che ricevettero i tre cittadini tunisini (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 200) non costituirono un trattamento non conforme all’articolo 3 della CEDU.

2.2 Espulsioni semplificate: natura e limiti della loro legittimità

Anche sotto il profilo delle espulsioni, la Corte di Strasburgo in sede definitiva (Grande Camera) ha capovolto la decisione emessa in primo grado dalla stessa ­Corte (Khlaifia and Others v. Italy 2015, par. 153-158). In questo caso, i ricorrenti denunciarono di essere stati vittime di espulsioni collettive (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 212) invocando l’articolo 4 del Protocollo 4 CEDU, che recita: “È vietata l’espulsione collettiva di stranieri”. Precedentemente la Camera aveva osservato che i ricorrenti avevano ricevuto dei decreti di espulsione redatti in modo identico, tranne i dati personali, senza che vi fosse alcun riferimento alla situazione personale né che avesse avuto luogo un colloquio individuale con le autorità competenti. Tutto ciò era avvenuto in base dell’accordo fra Italia e Tunisia sulle espulsioni semplificate da avviarsi in base alla semplice identificazione della persona interessata da parte delle autorità italiane e di quelle consolari tunisine. Per la Camera ciò era stato sufficiente per giungere alla conclusione che le espulsioni avessero natura collettiva, perciò proibite dalla CEDU (art. 4, Prot. 4 CEDU; Khlaifia and Others v. Italy 2015, par. 153-158).

La Grande Camera ha invece applicato un diverso ragionamento. Innanzitutto, la Corte ha rilevato che l’articolo 4 del Protocollo 4 CEDU non garantisce il diritto ad un colloquio individuale in ogni circostanza. La CEDU prevede infatti che affinché non sussista il caso di espulsione collettiva, è sufficiente che ogni straniero abbia la possibilità, reale ed effettiva, di contestare la misura di espulsione sollevando argomentazioni che dovranno essere esaminate dalle autorità nazionali (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 248). Nel caso di specie, i ricorrenti erano stati identificati in due diverse occasioni (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 245) ed avevano avuto la reale ed effettiva opportunità di sollevare le proprie motivazioni contro la loro espulsione (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 247). Ciò poté essere desunto anche dal fatto che una settantina di migranti ospitati nel medesimo centro di Lampedusa poterono effettivamente presentare domanda d’asilo, interrompendo in tal modo la procedura di espulsione e ottenendo il trasferimento in altre strutture di accoglienza (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 247).

Infine, la circostanza che i decreti di espulsione fossero formulati in maniera identica, tranne che per i dati personali (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 251), non ha avuto per la Corte un carattere decisivo. La natura relativamente semplice e standardizzata dei decreti di espulsione è stata giustificata dal fatto che i ricorrenti non rientravano né nella categoria dei richiedenti asilo o suscettibili di ricevere misure di protezione temporanea per motivi umanitari, né avevano manifestato la paura di subire maltrattamenti in caso di rimpatrio nel paese d’origine: per la Corte essi erano semplicemente entrati illegalmente nel territorio italiano (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 251).

2.3 Centri di accoglienza o detenzione? Procedure di trattenimento e privazione della libertà personale

Per quanto riguarda la denuncia da parte dei ricorrenti relativamente alla detenzione illegittima alla quale sarebbero stati sottoposti nel centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa e, successivamente, a bordo delle navi attraccate presso il porto di Palermo, essi basarono questa doglianza sul fatto che la privazione della loro libertà personale fosse priva di una base giuridica. La denuncia riguardava non solo il caso individuale dei tre ricorrenti, ma intendeva sollevare il problema che in quel periodo in Italia le procedure legate al trattenimento di migranti irregolari avevano, in molti casi, sostanzialmente trasformato i luoghi di accoglienza in centri di detenzione senza che però venissero garantite le minime tutele legate alla privazione della libertà personale previste dalla legislazione nazionale ed europea (art. 5 CEDU).

In particolare, i ricorrenti lamentarono la mancanza di qualsiasi comunicazione con le autorità italiane durante la loro prigionia in Italia affermando di non aver avuto alcuna possibilità di contestare la legalità della loro detenzione.

Contrariamente alle due fattispecie viste in precedenza relativamente alle condizioni di trattamento e alla natura dell’espulsione, in cui la Grande Camera ha ribaltato la decisione di primo grado, in questo caso la Corte ha confermato la precedente decisione accogliendo le medesime argomentazioni elaborate dalla Camera.

La Corte ha notato innanzitutto che il Governo italiano aveva proposto, come base giuridica per il soggiorno dei ricorrenti a Lampedusa, l’accordo bilaterale tra Italia e Tunisia stipulato nel 2011. La Corte ha osservato, tuttavia, che il testo integrale di tale accordo non era mai stato reso pubblico e conseguentemente non poteva costituire una base giuridica chiara e trasparente di cui sarebbe stato possibile prevedere le sue conseguenze nei casi individuali, così come previsto dalla CEDU (art. 5, par. 1 CEDU; Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 102).

Questa problematica, cioè che in Italia in quel periodo la detenzione dei migranti irregolari fosse spesso priva di base giuridica, era già stata sollevata dalla Commissione speciale del Senato, che aveva notato che sovente i migranti irregolari venivano trattenuti nel centro di Lampedusa per più di 20 giorni senza che fosse presa alcuna decisione sullo status giuridico delle persone interessate (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 104).

Inoltre, la privazione della libertà personale dei ricorrenti non era soggetta a revisione da parte dell’autorità amministrativa o giudiziaria. Pertanto i ricorrenti non solo erano stati privati della loro libertà senza una base giuridica chiara ed accessibile, ma non avevano potuto godere delle garanzie fondamentali del cosiddetto habeas corpus, cioè del principio che tutela l’inviolabilità della persona e il conseguente diritto dell’arrestato di conoscere la causa del suo arresto nonché la sua convalida da parte dell’autorità giudiziaria, così come previsto, ad esempio, dall’articolo 13 della Costituzione italiana (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 105).2

Inoltre, la Corte ha stabilito che nonostante i ricorrenti fossero senz’altro consapevoli che il loro ingresso sul territorio italiano fosse avvenuto in modo irregolare (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 118), essi, contrariamente a quanto previsto dalla Convenzione europea, furono informati solo tardivamente e non “nel più breve tempo” delle motivazioni poste alla base della loro detenzione ed, inoltre, non erano stati messi nelle condizioni di ottenere la convalida circa la legalità della loro detenzione da parte dell’autorità giudiziaria (art. 5, par. 2 e 4, CEDU; Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 117 e 132).

In conclusione, la privazione della libertà dei ricorrenti non aveva soddisfatto il principio generale della certezza del diritto né era compatibile con l’obiettivo di proteggere l’individuo contro l’arbitrio. Inoltre, la detenzione dei ricorrenti non era stata convalidata da una decisione giudiziaria o amministrativa, e i ricorrenti erano stati privati di importanti garanzie, portando in tal modo la Corte a constatare che in Italia le disposizioni applicabili alla detenzione dei migranti irregolari fossero in violazione della Convenzione europea (art. 5 CEDU).

2.4 Ricorsi effettivi per contestare le presunte violazioni

La Corte ha infine valutato la doglianza dei ricorrenti riguardo al diritto a un ricorso effettivo in relazione alle presunte violazioni subite, in particolare rispetto al tratta­mento inumano e degradante che i ricorrenti avrebbero patito nel centro di accoglienza di Lampedusa e a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 266-271). Alla luce del fatto che le autorità italiane non avevano indicato alcun rimedio con cui i ricorrenti avrebbero potuto lamentare le condizioni in cui erano stati tenuti nel centro e sulle navi, nonostante il fatto che in entrambi i casi non siano state accertate le violazioni relative al trattamento inumano e degradante (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 270-271), la Corte ha ritenuto che ci fosse una violazione della Convenzione europea rispetto alla mancanza di un ricorso accessibile ai ricorrenti (art. 13 CEDU sul diritto ad un ricorso effettivo, in combinato disposto con l’art. 3 CEDU sulla proibizione della tortura, e trattamenti inumani e degradanti).

I ricorrenti avevano altresì denunciato la circostanza che sebbene i decreti di espulsione indicassero espressamente la possibilità di presentare ricorso di fronte al Giudice di Pace, in caso di ricorso questo non avrebbe avuto l’effetto di sospendere la procedura di espulsione (art. 13 CEDU sul diritto ad un ricorso effettivo, in combinato disposto con l’art. 4, Prot. 4 CEDU sul divieto di espulsioni collettive di stranieri). La Corte ha tenuto conto della circostanza che, qualora espulsi, i ricorrenti non sarebbero stati esposti alla violazione dei propri diritti fondamentali, come il diritto alla vita (art. 2 CEDU) o il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti inumani o degradante (art. 3 CEDU), con conseguenze potenzialmente irreversibili (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 276). La Corte ha osservato che la Convenzione europea non prevede l’obbligo assoluto di garantire un ricorso che abbia automaticamente l’effetto di sospendere una misura di allontanamento, ma prevede che l’ordinamento nazionale garantisca in modo effettivo la possibilità di contestare la decisione di espulsione di fronte ad un’autorità competente, che in questo caso era rappresentata dal Giudice di Pace (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 279). Pertanto, sotto questo profilo, contrariamente alla decisione di primo grado, la Corte non ha rilevato alcuna violazione della Convenzione europea (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 281).

3. Conclusioni

La sentenza oggetto del presente contributo rappresenta un importante orientamento offerto dalla Corte di Strasburgo in materia di immigrazione irregolare, detenzione ed accoglienza, soprattutto sotto il profilo delle procedure semplificate per le espulsioni ed i rimpatri in caso di accordi bilaterali che l’Italia e altri paesi europei vorranno ratificare, o attuare correttamente nel caso di accordi già esistenti, con paesi di origine o di transito come la Libia, la Tunisia o il Niger.

La decisione della Corte europea era molto attesa da coloro che lavorano a vario titolo nell’ambito della migrazione, ed è importante sottolineare che è stata adottata all’unanimità dai giudici europei, tranne che per le violazioni relative all’espulsione collettiva che, comunque, è stata decisa a larghissima maggioranza (16 voti contro uno; vedasi in proposito, l’opinione dissenziente del giudice cipriota, Serghides, allegata alla sentenza; cfr. Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 101-127).3 Si tratta, pertanto, di una decisione largamente condivisa dai giudici di Strasburgo che fornisce delle indicazioni molto precise su eventuali situazioni e misure che possono essere prese in casi analoghi, sia in Italia sia in altri paesi che sono parte della Convenzione europea. Questa è anche l’opinione espressa dal Presidente della Corte, Guido Raimondi, che ha aggiunto alla sentenza una sua opinione concorrente, quindi in accordo con il resto del corpo giudicante, in cui il Giudice ripercorre le motivazioni alla base della decisione e sottolinea l’importanza del caso quale precedente giurisprudenziale che la Corte seguirà in casi analoghi, molti dei quali sono già in attesa del giudizio della Corte (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 95-99; cfr. anche l’opinione, parimenti orientata del giudice Lemmens nella decisione della Corte nel primo grado di giudizio: Khlaifia and Others v. Italy 2015, par. 59).

È evidente che, se da un lato la Corte ha tenuto conto della situazione di emergenza dettata dall’ingente flusso migratorio in ingresso, nella quale le autorità italiane si sono trovate ad operare, dall’altro la Corte ha anche riaffermato che l’aumento dei flussi migratori non può giustificare violazioni della Convenzione, in particolare quelle relative alla privazione della libertà personale. Alcuni analisti hanno notato tuttavia l’emersione di una zona grigia in questo ragionamento, in base al quale sono stati concessi agli stati degli ampi margini di discrezionalità, in modo particolare quando si tratta di migranti irregolari (cfr. Venturi 2017).

Un punto fondamentale della decisione della Corte è, infatti, il diverso trattamento a cui possono essere sottoposti i richiedenti asilo e i “semplici” immigrati irregolari. Quindi, se da un lato, la Corte ribadisce la centralità del diritto d’asilo e la necessità di proteggere i richiedenti asilo (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 247), dall’altro essa permette che i migranti irregolari, soprattutto se non appartenenti a categorie vulnerabili come donne e minori, vengano trattati con tutele attenuate. È di tutta evidenza che ciò sarà particolarmente rilevante nel caso di accordi bilaterali con i paesi di origine o transito in tema di allontanamenti ed espulsioni di migranti irregolari, come spesso si trovano ad essere coloro la cui domanda di asilo è stata rifiutata e, conseguentemente, hanno ricevuto un decreto di espulsione, trovandosi in tal modo in condizione di irregolarità se non adempiono, come fa la maggior parte di essi, all’obbligo di lasciare il territorio italiano.

Ulteriore aspetto di criticità insito nella sentenza della Corte è legato al tema delle espulsioni collettive e al fatto che la Corte abbia stabilito che la Convenzione europea non prevede l’obbligo di un colloquio individuale per presentare il proprio caso, ma che anche una semplice procedura di identificazione sia sufficiente a rendere l’espulsione di un gruppo e non di singoli individui legittima di fronte alla Convenzione europea (che, come visto in precedenza, vieta le espulsioni collettive). Questo aspetto è stato messo in luce da un solo giudice, Serghides, che ha votato contro la decisione della maggioranza dei giudici in merito all’ espulsione collettiva e che, su questo punto, ha allegato alla sentenza una sua opinione dissenziente (cfr. Khlaifia and Others v. Italy 2016, 101-127). Questo profilo è chiaramente problematico se posto in relazione alle tutele poste al fine di evitare casi arbitrari di espulsioni che potrebbero violare il principio di non-refoulement o divieto di respingimento, cioè il principio consolidato che fa parte integrante del diritto internazionale consuetudinario, in base al quale un individuo non può essere espulso o respinto verso un paese in cui la sua vita o la sua libertà potrebbero essere a rischio (cfr. art. 33, Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati; Cucchiara 2016; Zirulia/Peers 2017).

Per quanto riguarda invece la privazione della libertà personale e la detenzione nel centro di accoglienza di Lampedusa così come a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo, la Corte ha stabilito all’unanimità e con estrema chiarezza che, anche in contesti caratterizzati da emergenze e crisi migratorie, le tutele poste alla detenzione ed in particolare all’habeas corpus, cioè il principio dell’inviolabilità della persona (supra), devono essere garantite anche ai migranti irregolari (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 106). In altri termini, un eventuale crisi o emergenza migratoria non può esonerare lo Stato dai suoi obblighi in materia di privazione della libertà personale.

In questa occasione la Corte ha anche riconosciuto come l’ambiguità della normativa italiana in materia di trattenimento dei migranti irregolari abbia dato origine a numerose situazioni di privazione de facto della libertà personale prive di chiare e trasparenti tutele normative (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 106). Proprio questo aspetto ha dato origine alle molteplici critiche mosse da più parti, in particolare dall’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) e dagli operatori del settore, alla recente proposta del Governo italiano circa la riapertura dei CIE (Centri di identificazione ed espulsione) che in passato avevano dato luogo a forme atipiche di detenzione (ilsole24ore 2017).

In conclusione, nell’ottica della riapertura dei CIE o di altri luoghi di identificazione dei migranti irregolari così come in vista della stipula e dell’attuazione di accordi bilaterali con paesi di origine o transito, come la Libia e il Niger, sarà necessario l’intervento del legislatore affinché siano rese effettive anche nei confronti dei cittadini stranieri le garanzie procedurali legate alla privazione della libertà personale, nonché tutte le altre indicazioni emerse in questo paradigmatico caso giudicato dalla Corte di Strasburgo che si porrà quale imprescindibile precedente giurisprudenziale in materia di immigrazione sia per la Corte e sia per gli stati europei.

Note

1 Secondo i dati ufficiali (UNHCR 2017b, 5), coloro che a fine 2016 hanno ottenuto in Italia una forma di protezione internazionale sono suddivisi come segue: il 5 per cento ha ottenuto lo status di rifugiato, cioè ha dimostrato un fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, il 14 per cento ha ottenuto la protezione sussidiaria che sussiste qualora il soggetto non dimostri di aver subito una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, ma tuttavia dimostri il rischio di subire un danno grave se tornasse nel suo paese di origine, ed infine, il 20 per cento ha ottenuto la protezione umanitaria che viene riconosciuta nel caso in cui non sussistono i requisiti né per l’asilo politico né per la protezione sussidiaria, ma sussistono comunque seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali dello Stato italiano.

2 L’articolo 13 della Costituzione italiana prevede: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.”

3 Per la parte relativa al risarcimento, a fronte di una richiesta da parte dei ricorrenti di 65.000 euro ciascuno, la Corte ha ritenuto che a titolo di danno morale subìto fosse equo un risarcimento pari a 2.500 euro per ciascun ricorrente, oltre alle spese legali ridotte a 15.000 euro rispetto alla cifra di circa 25.000 euro richiesta, ma ritenuta eccessiva dalla Corte (Khlaifia and Others v. Italy 2016, par. 283-288).

Riferimenti bibliografici

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