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Giovanni Scotto

Italia, Europa, Africa: confini, conflitti, diritto di asilo1

Italy, Europe, Africa: borders, conflicts, and the right to asylum

Abstract In 2015, a major influx of migrants and asylum seekers crossing the Mediterranean from the Middle East and Africa threw the EU migration and asylum regime into a deep crisis. In 2016, the EU and its member states struggled to find institutional solutions to the crisis. The debates involved striking a delicate balance between three interrelated sets of questions: how to pursue internal integration (the “Schengen process”); how to ensure a common policy in terms of migration and asylum (the “Dublin process”); how to avoid jeopardizing respect for basic human rights and humanitarian principles while pursuing the first 2 goals. This institutional challenge unfolds in view of a complex global surge of migration flows and the increasing efforts to ensure international protection for victims of armed conflicts and dictatorships.

This article examines the set of newly developed policies for managing undocumented migrants and asylum seekers, paying special attention to Italy. Italy plays a prominent role in this context as a key member of the EU and the main recipient of unauthorised migrants following the Central Mediterranean route.

Military operations in the Mediterranean, the EU agreement with Turkey, and asylum practices are reviewed and critically discussed. The article concludes with some suggestions for a different approach to asylum issues: advocating for a bottom-up perspective and a more prominent role for humanitarian principles and human rights in devising EU policies in this field.

“[…] Una frontiera dunque non è ciò che uno Stato decide che sia,
in base a rapporti di forza o a negoziati con altri Stati,
ma ciò che un contesto globale impone.”

(Balibar 2016, 106)

“Solidarity between EU member states and solidarity
with a record global number of refugees has been in short supply.”

(Amnesty International 2017, 5)

1. Introduzione

Nel 2016 l’Italia e l’Unione Europea (UE) hanno provato a realizzare iniziative in risposta alla crisi umanitaria e al grande afflusso di richiedenti asilo che l’anno precedente aveva messo palesemente in crisi il sistema di Schengen (libertà di movimento all’interno dell’Unione) e quello di Dublino (gestione delle richieste di asilo).

Per comprendere la questione dei rifugiati e richiedenti asilo in Italia, in maggioranza provenienti dall’Africa, è indispensabile situarla all’interno del contesto più ampio delle politiche europee sul tema. L’Unione Europea e i suoi stati membri si trovano da oltre un decennio a dover definire un difficile punto di equilibrio su tre questioni diverse e tra loro collegate:

la libera circolazione dei cittadini degli stati membri, e la conseguente eliminazione dei controlli alle frontiere interne (acquis di Schengen);

la creazione di meccanismi comuni di gestione delle frontiere esterne all’Unione, in particolare con l’agenzia Frontex, successivamente diventata Guardia costiera e di frontiera europea;

il rispetto dei diritti umani dei rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Paesi terzi.”

Il bilancio delle risposte che l’UE e i suoi stati membri hanno dato a queste tre questioni, ad oggi, è senz’altro negativo, e ha portato finanche a interrogarsi sul possibile futuro della costruzione europea: forse i problemi legati alle migrazioni e ai confini segnano una “crisi esistenziale” per l’Unione (Balibar 2016). La trasformazione progressiva dell’Europa in un continente chiuso all’arrivo di migranti e rifugiati ha provocato un aumento delle vittime tra coloro che provano a entrare senza documenti, con decisioni politiche e operative che di fatto svuotano gli impegni assunti dai Paesi membri aderendo alla Convenzione di Ginevra del 1951. Nonostante questi sforzi, anche l’integrazione e il superamento delle frontiere interne all’Unione sono entrati in crisi con l’ondata di rifugiati siriani nel 2015, quando diversi Stati membri hanno reintrodotto controlli alle frontiere. Nell’anno successivo il numero degli arrivi in Grecia è diminuito in modo sostanziale, soprattutto in conseguenza dell’accordo tra UE e Turchia nel marzo 2016.

Il mare Mediterraneo, che unisce (e divide) Africa, Medio Oriente e Unione Europea, è una frontiera di fondamentale importanza, profondamente trasformata e ri-costruita nell’ultimo decennio dai flussi di migranti e dalle risposte europee (Cuttitta 2014). L’Italia ha svolto e svolge ancora un ruolo determinante, non solo come punto di arrivo fisico dei migranti e rifugiati, con l’esigenza immediata di trovare risposte pratiche all’emergenza sbarchi, quanto anche nella elaborazione di risposte politiche, a livello nazionale ed europeo, a queste tre grandi questioni.

2. Il contesto regionale: il confine tra Europa e Africa

I confini dividono parti interdipendenti di sistemi complessi. Anche se li immaginiamo come immutabili e (più o meno) chiusi, i confini sono inevitabilmente soggetti a trasformazioni e sono più o meno porosi. I confini sono costrutti sociali dinamici: con il tempo cambiano e si muovono, perché si trasformano i sottosistemi interdipendenti che essi demarcano, e si modificano i flussi di risorse, persone e idee tra loro.

La maggiore o minore porosità in un sistema di confine viene raggiunta sempre a prezzo di un controllo, quindi un investimento più o meno ingente in termini di lavoro umano, risorse materiali ed energia. L’investimento deve necessariamente aumentare nella misura in cui aumenta il flusso non regolato di esseri umani (migrazioni non autorizzate) o merci (contrabbando). Non esiste però un singolo attore in grado di gestire da solo le frontiere contemporanee, che sono invece il prodotto dell’interazione tra un gran numero di fattori locali, regionali e globali.

Tra questi fattori vanno annoverati i flussi migratori. Anche questi costitutiscono un fenomeno globale: dal 2000 al 2015 il numero complessivo di migranti nel mondo è passato da 173 a 244 milioni, e la percentuale di migranti sul totale della popolazione mondiale è aumentata dal 2,82 per cento al 3,32 per cento (UN 2015, 2016). Il numero di rifugiati in fuga da conflitti armati e dittature è arrivato a 16 milioni (senza contare 5 milioni di Palestinesi); a questi vanno aggiunti 44 milioni di sfollati (UNHCR 2017a).

Non è semplice individuare i motivi che portano alla decisione di individui e famiglie di intraprendere un viaggio lungo, costoso e pieno di pericoli dall’Africa all’Europa. In generale, possiamo distinguere due tipi di processi che inducono alla scelta di spostarsi da un continente all’altro: in un orizzonte di breve periodo, gli esseri umani possono sfuggire all’improvvisa perdita di sicurezza e possibilità di vita, come nel caso di catastrofi ecologiche (siccità, carestie, ecc.), o più spesso della rapida escalation di conflitti armati. Vi sono poi processi di lungo periodo, che hanno a che fare con gli squilibri geo-economici globali, le dinamiche demografiche, la crescente pressione ambientale delle comunità umane in ecosistemi fragili.

Gli effetti concreti sugli esseri umani della presenza di una frontiera, in termini di respingimenti, espulsioni, e morte nel tentativo di attraversarla, assumono il carattere di evento inevitabile, senza responsabilità e senza rimedi, solo se il nostro sguardo si limita a ciò che accade in prossimità del confine, senza vedere le caratteristiche del sistema complessivo in cui si manifesta il fenomeno migratorio.

3. La frontiera del Mediterraneo

Il Mediterraneo è una frontiera marittima attraversata ormai da un ventennio da flussi di migranti non autorizzati in costante aumento, con improvvise crisi e ondate di nuovi arrivi

Le principali rotte percorse dai migranti che attraversano il Mediterraneo sono tre: ad est dalla Turchia alla Grecia, nell’area centrale, dalle coste nordafricane verso la Sicilia, e ad ovest tra il Marocco e la penisola iberica. Oltre ai flussi attraverso il Mediterraneo, va inclusa la rotta che dalle coste dell’Africa occidentale porta alle isole Canarie spagnole, e il passaggio attraverso le enclave di Ceuta e Melilla, anch’esse sotto sovranità spagnola. Con il passare degli anni queste rotte si sono chiuse o sono diventate assai più impervie: rimane per chi proviene dall’Africa la rotta più pericolosa, quella che dalle coste del Nord Africa porta all’Italia. I migranti non autorizzati si imbarcano sulla costa nordafricana, in Tunisia o Libia, vengono salvati in mare oppure giungono con le stesse imbarcazioni di fortuna a Lampedusa o sulle coste siciliane.

Per molti migranti che lo attraversano con mezzi di fortuna, il Mediterraneo è diventato una trappola mortale, una grande tomba: di fatto, è la frontiera più pericolosa al mondo tra Paesi che non sono in guerra (Fargues/Bonfanti 2014). Tra gli episodi più gravi il 3 ottobre 2013, al largo delle coste di Lampedusa, almeno 366 persone morivano nel naufragio di un peschereccio; meno di due anni dopo, il 18 aprile 2015 un’imbarcazione eritrea affondava, causando la morte stimata di 700-900 persone. Quest’ultimo evento va direttamente messo in relazione al mandato della missione europea Triton, che in quei mesi si limitava a pattugliare le acque territoriali italiane: il suo mandato venne esteso pochi giorni dopo la strage (Tassinari/Lucht 2015).

Ma, al di là dei singoli eventi, il numero delle vittime tra i migranti e richiedenti asilo che attraversano il Mediterraneo è in costante aumento. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha calcolato che nei primi cinque mesi del 2016, un migrante su 23 è morto nel tentativo di attraversare il mare dall’Africa all’Europa, mentre nel 2014 la proporzione era di 1 a 50 e nel 2015, l’anno della percepita grande crisi dei migranti, è stata di 1 a 53. Nel 2016, 5.085 persone sono morte o disperse nell’attraversamento (IOM 2017a). Di queste vittime, oltre settecento erano bambini (UNICEF 2017). A neanche due mesi dall’inizio dell’anno, i morti nel Mediterraneo sono 366, quasi tutti periti nel Mediterraneo centrale, una cifra tripla su questa rotta rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (IOM 2017a). I migranti stessi sono ben consapevoli dei rischi a cui vanno incontro (Klepp 2010).

Di fronte alla chiusura dei canali di ingresso ufficiali, e al progressivo irrigidimento dei controlli, il fenomeno migratorio verso l’Europa negli ultimi anni è caratterizzato quindi da una nuova mobilità, sempre più rischiosa per chi la intraprende.

Per converso, nei Paesi di arrivo si è andato diffondendo un discorso politico che ha ricostruito l’arrivo di migranti e rifugiati in una prospettiva di securitizzazione: nei Paesi di arrivo, Italia inclusa, questi flussi rafforzano la percezione pubblica di una minaccia alla sicurezza, spesso utilizzate da nuove forze politiche populiste e xenofobe, e i decisori politici si risolvono a nuove misure di chiusura e securitizzazione, che a loro volta hanno conseguenze nefaste per la vita dei migranti (come si è visto nel 2013-2014): un vero e proprio circolo vizioso, con influenze negative sia sui diritti di chi arriva, che sulle istituzioni e società europee.

4. “Da una terra che ci odia...”: le cause della migrazione nel ­Mediterraneo degli anni Dieci

Prima di spostare l’attenzione alle politiche di asilo, è opportuno esaminare brevemente le dinamiche di partenza, i cd. fattori push. Analizzando i principali Paesi di provenienza dei migranti che attraversano il Mediterraneo, possiamo identificare alcuni elementi significativi. Nel 2016, i primi dieci Paesi di provenienza dei migranti senza documenti entrati nell’UE via mare sono: Siria, Afghanistan, Nigeria, Iraq, Eritrea, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Pakistan, Senegal (FRONTEX 2017). Negli ultimi cinque anni, tra i primi dieci paesi di provenienza figurano regolarmente: Afghanistan, Somalia (fino al 2015), Eritrea, Pakistan (tranne che nel 2014), Nigeria (dal 2013), Iraq (dal 2014).

Restringendo la prospettiva alla rotta del Mediterraneo centrale, tra Africa e Italia, i primi dieci Paesi risultano essere: Nigeria, Eritrea, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Senegal, Mali, Sudan, Bangladesh (unico paese non africano), Somalia. Se guardiamo ai dati, i numeri dei migranti che si imbarcano nel pericoloso viaggio verso le coste meridionali dell’Europa mostrano negli ultimi dieci anni variazioni notevoli, ma tendono con il tempo ad aumentare (da circa 85.000 arrivi via mare su un totale di arrivi di 160.000 nel 2008, a circa 181.000 su un totale di 511.000 nel 2016 (FRONTEX 2015; FRONTEX 2017). I numeri degli arrivi presentano delle notevoli fluttuazioni da un anno all’altro, e sono quindi dipendenti da fattori politici contingenti.

La guerra è senza dubbio un fattore decisivo all’origine degli spostamenti. Dalla Siria è originata la maggior parte dei migranti entrati in UE nell’anno 2015, ma anche altri paesi di provenienza sono caratterizzati dalla presenza di conflitti armati: Afghanistan, Somalia, Pakistan. In alcuni casi, come per il Mali e la Nigeria, l’aumento del numero di migranti corrisponde direttamente ad un’escalation nel conflitto interno: in Nigeria, al febbraio 2017, vi erano 1.800.000 sfollati interni e 200.000 rifugiati nei paesi vicini (UNHCR 2017b). In Mali, dopo anni di violenza nel nord, anche nella regione centrale è scoppiato un conflitto armato (ICG 2016).

Situazioni di instabilità e conflitto armato rendono maggiormente permeabili anche i paesi di transito: è il caso della Libia (su cui torneremo nelle prossime pagine). La violenza esplosa nell’ottobre 2014 ha prodotto circa 350.000 sfollati interni. Allo stesso tempo la Libia continua a essere un Paese di transito che ospita tra i 700.000 e il milione di migranti, provenienti in buona parte dai Paesi in guerra dell’Africa subsahariana (IOM 2017b), mentre l’indebolimento del controllo sulle coste ha favorito l’attività degli scafisti.

Un elemento importante nell’innescare processi di fuga delle popolazioni civili è costituito dalle caratteristiche intrinseche delle nuove guerre degli ultimi due decenni: il protagonismo di attori armati non statuali, il fatto che i civili siano un vero e proprio bersaglio della violenza, e non vittime accidentali dei combattimenti, l’emersione della guerra come sistema sociale che si consolida nel tempo (Kaldor 1999; Kaldor 2013).

5. “… A una terra che non ci vuole”: dall’Africa all’Europa

La gestione della questione migratoria da parte dell’Unione Europea è sempre stata orientata in linea generale al tentativo di ridurre il più possibile le possibilità di migrazione e tenere lontane le persone, anche meritevoli di tutela internazionale, che potrebbero entrare in territorio europeo senza autorizzazione.

Il fragile e contraddittorio dispositivo europeo di gestione dei migranti non autorizzati e potenziali richiedenti asilo, entra in crisi in occasione di grandi eventi migratori scatenati da crisi puntuali. Si tratta di eventi imprevedibili, ma non necessariamente eccezionali. Nel passato recente, in occasione delle guerre di successione jugoslava tra il 1991 e il 1995, e poi nel 1999, diversi Paesi dell’Unione hanno accolto un numero consistente di rifugiati: neppure in quella occasione però l’Ue fu in grado di sviluppare una politica comune coerente (Koser/Black 1999; Selm 2000).

Negli ultimi anni e fino alla grande crisi del 2015, la situazione di migranti e rifugiati nel Mediterraneo è diventata sempre più difficile. Con il consolidamento della normativa di Schengen, le possibilità di giungere legalmente nel territorio dell’Unione si sono notevolmente ridotte, e i controlli sulle rotte di migrazione irregolare si sono intensificati. I Paesi membri dell’UE hanno rafforzato la cooperazione bilaterale con Paesi di origine e di transito per ostacolare i flussi migratori non autorizzati (Biermann/Boas 2010; Roos 2013).

Il pattugliamento militare del Mediterraneo, per converso, è un settore che ha visto irrobustirsi la presenza della UE, anche per il grande investimento politico e di risorse nel settore della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (CSDP). All’indomani del naufragio del marzo 2015, anche grazie all’impegno di Federica Mogherini, Alta Rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la Commissione ha approvato una “Agenda Europea sulla Migrazione”: l’UE ha assunto un ruolo di primo piano nel Mediterraneo, con l’operazione EUNAVFOR MED, più tardi ribattezzata Sophia (Blockmans 2016), ad integrare la contestata missione Triton di FRONTEX, che si limitava a pattugliare le acque territoriali italiane rendendo la traversata dei migranti ancora più pericolosa. Il mandato principale della missione è di catturare e distruggere imbarcazioni usate per il traffico di esseri umani in modo tale da fermare le reti internazionali attive sulla rotta del Mediterraneo centrale e prevenire future perdite di vite umane. Pur presentando alcuni aspetti incerti sul piano giuridico, la nuova missione navale europea ha permesso di salvare molte migliaia di migranti.

Nel 2016 l’UE ha creato la nuova struttura istituzionale della Guardia costiera e di frontiera europea. In realtà il cambiamento ad oggi è poco più che formale, perché si tratta della vecchia agenzia FRONTEX con un nuovo nome e alcune attribuzioni in più. Anche i compiti della missione Sophia sono stati estesi, comprendendo la formazione e il rafforzamento della guardia costiera libica, anche con lo scopo di fermare il flusso di migranti dal Paese. Il mandato della UE prevedeva in origine una fase ulteriore di contrasto ai trafficanti che ad oggi non si è ancora realizzata, anche per i conflitti interni allo stato libico.

6. Unione Europea: altri strumenti di gestione di migranti e ­richiedenti asilo

La già citata Agenda Europea sulla migrazione del maggio 2015 si basava su quattro principi: riduzione degli incentivi alla migrazione irregolare; gestione delle frontiere comuni per assicurare il salvataggio in mare e la messa in sicurezza delle frontiere stesse, inclusa la lotta alle organizzazioni di scafisti; una politica comune per il diritto di asilo; l’ampliamento delle modalità legali di immigrazione nell’UE (European Commission 2015). Seguendo queste linee, l’UE e i suoi Paesi membri hanno messo in campo nel corso del 2016 diversi dispositivi per la gestione dei migranti non autorizzati e dei richiedenti asilo oltre all’attività di pattugliamento alla frontiera.

L’implementazione di nuovi strumenti di gestione è avvenuta quando in molti paesi le grandi manifestazioni di solidarietà del 2015 si erano affievolite, lasciando spazio a un senso di disagio e a volte di aperta ostilità, peraltro già presente in una parte non trascurabile dell’opinione pubblica europea: non sorprende quindi che ancora una volta le istituzioni europee abbiano dato la precedenza alla dimensione securitaria, di chiusura, e non a quella della tutela dei diritti dei migranti. Questa scelta si è manifestata in modo chiaro con la più importante iniziativa politica europea, l’accordo tra Unione Europea e Turchia. L’accordo impegna le autorità turche a fermare il flusso di migranti e richiedenti asilo verso le coste greche; l’UE garantisce un rilevante finanziamento a sostegno dell’accoglienza dei rifugiati siriani in Turchia e si impegna ad accogliere un rifugiato siriano per ogni siriano respinto dalla Grecia.

L’accordo è riuscito a limitare in misura sostanziale gli arrivi dei migranti sulle coste greche, ma si regge sulla premessa che la Turchia sia un paese sicuro per richiedenti asilo, nonostante la mancanza di strumenti efficaci di tutela giuridica nell’ordinamento, l’involuzione autoritaria del sistema politico e un conflitto armato in corso. Desta inoltre allarme la situazione dei rifugiati siriani in Grecia (Amnesty International 2017).

In questo modo, l’UE ha esternalizzato al suo vicino orientale la protezione umanitaria dei rifugiati siriani. Questa scelta può avere preoccupanti conseguenze indirette: se un tempo l’Unione, all’atto della sua nascita, aveva dichiarato di voler promuovere la cultura del rispetto dei diritti umani anche al di là delle proprie frontiere, nelle relazioni con i paesi terzi, le scelte della gestione dei flussi migratori irregolari degli ultimi anni sembrano incoraggiare comportamenti lesivi dei diritti stessi. Nonostante le critiche delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e i problemi relativi ai contenuti dell’accordo, l’UE considera l’accordo con la Turchia un modello da seguire anche nei rapporti con altri Paesi di transito.

La Libia dopo l’entrata in vigore dell’accordo con la Turchia è diventato il primo Paese di transito nel Mediterraneo nel 2016. Con l’ex colonia italiana il governo di Roma aveva stipulato accordi per la gestione dei flussi di migranti non autorizzati fin dal 2007; nel 2008 il governo Berlusconi firmò un “Trattato di amicizia e cooperazione” con Muammar Gheddafi. Anche in quel caso l’accordo aveva conseguito l’obiettivo di diminuire gli sbarchi sulle cose italiane, ma aveva avuto l’effetto di peggiorare drasticamente le condizioni di vita dei migranti nel Paese africano. Finanziando rimpatri nei Paesi di origine e centri di detenzione in Libia, in assenza di specifiche misure di tutela per i potenziali richiedenti asilo che ricadevano sotto queste misure, l’Italia aveva di fatto sottratto la possibilità di accedere al diritto d’asilo a chi tra i migranti respinti ne possedeva i requisiti (Klepp 2010). In seguito alla guerra civile, all’intervento militare occidentale e alla fine violenta dello stesso Gheddafi, il Paese è sprofondato nel caos, e gli sbarchi sono ripresi: nel frattempo, quella del Mediterraneo centrale è rimasta l’unica rotta praticabile verso l’Europa. L’Unione Europea ha sostenuto per quanto possibile gli sforzi diplomatici dell’ONU per arrivare a un governo di unità nazionale, soprattutto nella speranza di avere un interlocutore affidabile per la gestione dei flussi di migranti.

Già dal 2013 l’UE aveva peraltro avviato in cooperazione con le autorità libiche una missione di sostegno al controllo delle frontiere, EUBAM (EU Integrated Border Assistance Mission to Lybia: EAAS 2016). A partire dalla primavera del 2016, l’UE (con la missione Sophia) e l’Italia hanno fornito assistenza alle autorità libiche per permettere loro di riportare a riva le barche cariche di migranti non autorizzati – 2.000 persone in una sola settimana a maggio (Alfred 2016). Nel febbraio 2017, Italia e Libia hanno firmato un memorandum di intesa per la collaborazione dei due Paesi con l’obiettivo di fermare l’ingresso di migranti non autorizzati in Libia e gli sbarchi verso l’Italia, ed effettuare rimpatri verso i rispettivi Paesi di origine (La Repubblica 2017). Voci critiche al memorandum si sono levate sia in Italia che in Libia: il testo prevede impegni vaghi, non menziona le questioni relative ai diritti umani, né il diritto dei migranti a chiedere protezione internazionale (Camilli 2017).

Nel corso del 2016, in molti Paesi europei si è registrato un aumento notevole dei sentimenti di avversione per le migrazioni ed i migranti, e la diffusione di una retorica della protezione dai flussi migratori, che vengono sempre più spesso dipinti come una minaccia. Anche per questo solo con grande difficoltà l’Unione ha iniziato ad affrontare in modo solidale l’annoso problema dello squilibrio provocato dal Regolamento di Dublino nei carichi derivanti dalla gestione del fenomeno da parte dei diversi stati membri, con il grosso degli arrivi concentrato sui paesi mediterranei dell’Unione.

Nel giugno del 2015, i capi di stato e di governo europei avevano deciso di introdurre un sistema di quote per rilocalizzare fino a 40.000 richiedenti asilo entro i due anni successivi, di cui 24.000 dall’Italia. Il numero era stato aumentato a settembre a 160.000 per tenere conto della emergenza dovuta all’afflusso di profughi dalla Siria. Il tentativo di dare una risposta unitaria a livello europeo al flusso di migranti che attraversa il Mediterraneo si è scontrato però fin dall’inizio con resistenze da parte di diversi paesi (Carrera et al. 2015). Al 16 marzo 2017 solo circa 14.000 richiedenti asilo erano stati ricollocati, di cui 4.400 dall’Italia; dal canto loro, gli Stati membri hanno offerto formalmente soltanto 26.700 posti rispetto ai 160.000 stabiliti due anni prima (European Commission 2017): un esito nel complesso molto deludente.

L’obiettivo forse più ambizioso dell’Agenda sulla Migrazione, quello dello sviluppo di una “politica comune in materia di asilo”, rimane ad oggi un problema irrisolto. Di fatto il sistema rimane ad oggi incentrato sugli obblighi per gli Stati membri previsti dal Regolamento di Dublino, e soprattutto sul principio di tenere i potenziali richiedenti asilo, per quanto possibile, a debita distanza, nonostante la retorica umanitaria: un’Europa “con le braccia aperte dietro porte chiuse” (Greenhill 2016).

7. L’Italia e l’accoglienza ai richiedenti asilo nel 2016

Fino a pochissimi anni fa, buona parte dei migranti e potenziali richiedenti asilo arrivati in Italia lo considerava un paese di transito: nel progetto migratorio di molti l’obiettivo è di arrivare nei Paesi del Nord Europa, dove spesso si trovano familiari, conoscenti e reti informali di supporto. Da parte loro, spesso le autorità del nostro Paese lasciavano che i migranti cercassero di attraversare le frontiere verso nord senza cercare di fermarli. Negli ultimi anni questo modello è però cambiato, a mano a mano che i Paesi settentrionali che tradizionalmente erano punti di arrivo hanno iniziato a mettere in atto politiche di ingresso più restrittive: emblematico a questo proposito è il caso dell’Austria (vedasi Müller/Rosenberger in questo volume).

Si può infatti osservare una crescita costante delle domande di asilo in Italia negli ultimi anni: dalle 26mila del 2013 si è passati alle 64mila del 2014, alle 83mila del 2015 fino alle 123mila del 2016. Ed i dati di gennaio 2017 indicano un ulteriore aumento del 41 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (Ministero dell’Interno 2016).

I tempi medi di esame delle richieste di asilo in Italia nel periodo 2014-2016 sono stati di 257 giorni, con una tendenza all’accelerazione. Si è infatti passati dai 347 giorni del 2014 ai 261 del 2015 ai 163 del 2016. L’Italia è oggi il secondo Paese nell’UE, dopo la Germania, per numero di pratiche esaminate. Il ritmo dell’esame delle istanze è però andato rallentando nei primi mesi del 2017: a gennaio erano state esaminate 5.600 domande, l’11 per cento in meno rispetto al gennaio 2016 (Camera dei Deputati/Senato della Repubblica 2017).

Delle 123.600 domande di asilo del 2016, 11.656 sono state presentate da minori. A conclusione dell’iter, lo status di rifugiato è stato concesso per il 5 per cento delle domande esaminate; al 14 per cento è stata assegnata la protezione sussidiaria, al 21 per cento quella umanitaria e nel 56 per cento dei casi la protezione è stata rifiutata. Quest’ultima percentuale, tuttavia, va interpretata anche a partire dai dati sui ricorsi contro il diniego dello status. Su un totale di 53.000 dal 2014 al 2016, solo il 18 per cento è stato definito, con una percentuale del 70 per cento di accoglimento (Camera dei Deputati/Senato della Repubblica 2017): è probabile quindi un aumento sostanziale del numero di richieste accolte dopo i ricorsi.

Nel resto d’Europa, è la Germania ad ospitare il numero di gran lunga più alto di richiedenti asilo: nel 2016 sono state formalizzate 745.545 richieste di asilo, di cui solo 280.000 però di persone arrivate durante l’anno. Con Germania, Francia e Grecia, l’Italia è tra i pochi Paesi in cui le richieste di asilo stanno aumentando (AIDA 2017). Dopo la grande crisi del 2015, sembra essere tornato pienamente in funzione il principio guida del Regolamento Dublino III: la competenza per l’esame di una domanda di protezione internazionale ricade di regola sullo Stato di prima accoglienza.

Come nel resto dell’UE, anche in Italia il tema dell’ingresso di migranti non autorizzati e richiedenti asilo ha sollecitato grande interesse e molte emozioni nell’opinione pubblica. Anche nel 2016 si sono avuti diversi episodi di proteste, tensioni e conflitti a livello locale in occasione dell’arrivo di richiedenti asilo in strutture di accoglienza. Non si sono ripetute le scene viste tra il 2014 e il 2015 a Tor Sapienza, alla periferia di Roma, dove erano scoppiate violente proteste per la decisione di aprirvi un grande centro di prima accoglienza per richiedenti asilo. Tuttavia, in molti comuni, gruppi di cittadini – di solito non maggioritari, ma spesso molto agguerriti – hanno manifestato contro l’apertura di centri di accoglienza o il trasferimento di richiedenti asilo, a volte con il sostegno esplicito degli amministratori locali. Particolare risonanza hanno avuto le proteste nel piccolo comune di Goro, in provincia di Ravenna, che hanno raggiunto l’obiettivo di impedire l’accoglienza ad alcune famiglie di rifugiati. Alcune forze politiche di destra hanno cercato di strumentalizzare le proteste in chiave populista o apertamente xenofoba (Lega Nord, Forza Nuova). E’ mancata invece una mobilitazione popolare diffusa di accoglienza e solidarietà, come quella vista in Germania nel 2015. Nel 2017 l’Italia si è anche dotata di un nuovo strumento legislativo per una migliore tutela dei minori stranieri non accompagnati [al momento in cui questo articolo va in stampa la legge sta per essere esaminata in seconda lettura alla Camera (Camera dei Deputati 2017)].

8. Prospettive

Tra il 2015 e il 2016, l’arrivo di oltre due milioni di migranti e richiedenti asilo sul suolo europeo ha avuto enormi ripercussioni: ha messo a nudo i limiti delle politiche di asilo dell’Unione Europea, e portato a una crisi interna dell’Unione. La stessa Brexit è stata una reazione profonda di parte della società britannica contro l’immigrazione sia dall’esterno che da altri Paesi dell’Unione (Staiger 2016), e anche il principio solidaristico tra Stati membri è entrato in crisi, come dimostra la mancata attuazione della decisione di rilocalizzare alcuni dei richiedenti asilo che si trovano in Grecia e in Italia. Per la costruzione politica europea si tratta di una questione decisiva, in quanto implica la necessità di una gestione costruttiva non solo dei conflitti violenti all’esterno dell’Unione, ma anche delle profonde divergenze politiche sul tema al proprio interno – divergenze che, come insegna la Brexit, possono destabilizzare dalle fondamenta l’edificio dell’integrazione europea. Inoltre, in molti Paesi, tra cui l’Italia, aumenta il peso di forze politiche contrarie in linea di principio all’immigrazione, e spesso xenofobe, che si oppongono anche all’integrazione europea.

D’altra parte, l’Europa non può permettersi di accantonare uno dei suoi valori fondativi nelle politiche di asilo, come per l’accordo con la Turchia: si eclisserebbe – ed in parte purtroppo è già avvenuto – una delle principali componenti dell’identità europea, della sua polity e del senso di cittadinanza che la sottende. Un programma costruttivo per affrontare i problemi posti dai migranti e richiedenti asilo dovrebbe anzitutto partire dalle questioni concrete relative all’accoglienza, ed in particolare dal rapporto tra coloro che arrivano e i residenti. In Italia esistono numerose buone pratiche relative all’accoglienza, come la creazione di strutture residenziali decentrate in Toscana, o lo storico modello di inserimento a Riace. I conflitti e le tensioni che emergono all’interno delle comunità locali vanno compresi e mediati (Battistelli et al. 2016).

Sarà possibile continuare a tenere alto il controllo della frontiera mediterranea, e trovare la quadratura del cerchio tra integrazione interna, gestione comune delle frontiere esterne e tutela dei diritti dei migranti? A chi scrive sembra una possibilità molto difficile: la politica della gestione delle frontiere sembra non poter essere allo stesso tempo rispettosa dei diritti, unitaria all’interno e “sicura” verso l’esterno. Quella delle migrazioni attraverso il Mediterraneo è una questione che si sottrae alla gestione tecnica delle frontiere: è un problema sistemico, e come tale andrà affrontato. Dal punto di vista dei Paesi di arrivo, sarebbe di grande importanza superare un approccio solo securitario al tema dell’immigrazione e del diritto di asilo. Forse, oggi l’Unione Europea può venire a capo del problema e salvare se stessa solo con uno slancio di umanità.

Note

1 Questo articolo è stato completato durante il mio soggiorno come Georg Arnhold Research Professor on Education for Sustainable Peace al Georg Eckert Institut, Braunschweig (Germania). I titoli dei paragrafi 4 e 5 sono versi della canzone “Pane e coraggio”, di Ivano Fossati.

Riferimenti bibliografici

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