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Luca Fazzi

Il disagio degli italiani tra retorica e realtà

1. Introduzione

Come ha scritto uno dei padri fondatori della moderna antropologia, l’americano Clifford Geertz, “l’idea di un mondo senza differenze particolaristiche non è meno utopica di quella di una società senza classi; e non esiste luogo alcuno, nel mondo di oggi, che ricordi il sogno illuminista di una repubblica universale popolata da cittadini universali” (1999, 81).

Le identità culturali sono un qualcosa che fa parte delle identità umane, le compenetra e fa sentire le persone parte del loro mondo della vita quotidiana. Certamente la cultura è un elemento fluido e dinamico che muta nel tempo per decisioni e fatti specifici. Il legame con le culture di appartenenza costituisce però per moltissime persone un fattore identitario di primaria rilevanza di cui è molto difficile e molto probabilmente nemmeno opportuno liberarsi attraverso scelte razionali.

Quando due o più gruppi caratterizzati da identità culturali diverse si trovano a convivere in un medesimo spazio, il confronto tra identità culturali diverse ha prodotto storicamente molteplici conseguenze: il conflitto, la separazione, la convivenza armonica, l’evoluzione di più culture verso una metacultura unitaria. Di per sé, dunque, l’esistenza di una o più forme di disagio tra i membri di un gruppo culturale, non è un sintomo naturale della divisione comune di uno stesso spazio. Esso appare piuttosto più probabilmente anche alla luce dei fatti storici come una patologia, o un segno di insofferenza che costituisce l’anticamera del conflitto o nel migliore dei casi il presupposto naturale dell’incomprensione reciproca.

Fino a quarant’anni fa parlare di disagio in provincia di Bolzano significava fare riferimento alla condizione di insofferenza e insicurezza che dominava tra la minoranza di lingua tedesca che aveva vissuto prima lo shock dell’annessione all’Italia e di seguito il doppio dramma del fascismo e delle opzioni. Dagli anni ’80, il disagio dei tedeschi è stato sostituito anche nel dibattito pubblico da un nuovo disagio: quello degli italiani che si sono dovuti confrontare con la fase dello sviluppo dell’autonomia e con la dominanza del partito etnico di raccolta dei cittadini di lingua tedesca.

I dati che registrano il disagio degli italiani sono sia diretti che indiretti. I dati diretti sono di solito fatti risalire all’indagine effettuata dal Censis nel 1997 sui gruppi linguistici dalla quale si rilevava che il livello di soddisfazione di vivere in provincia di Bolzano era tra la popolazione di lingua tedesca esattamente il doppio rispetto a quello tra gli italiani.

Inoltre il 39,5 (Censis 1997, 67) per cento degli italiani constatava di avere maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro a causa della propria appar­tenenza al gruppo linguistico italiano; contro il 6,4 per cento dei tedeschi. Ma ancora il 23,5 per cento riteneva discriminante l’essere italiano per quanto riguarda l’accesso alla casa (contro il 2,7 per cento del gruppo tedesco); il 21,1 per cento lamenta minori possibilità di carriera contro il 2,7 per cento dei tedeschi. Solo il 33,5 per cento degli italiani affermava di non patire nessuna forma di svantaggio contro il 63,4 per cento dei tedeschi.

Questi dati testimoniavano solo una parte dell’insoddisfazione degli italiani residenti in provincia di Bolzano, insoddisfazione che dagli anni ’80 ha trovato la sua espressione più eclatante in due fenomeni distinti: la fuga di una parte consistente di italiani dal territorio provinciale e le altissime percentuali di voti conquistati dal Movimento sociale italiano prima e da Alleanza nazionale e Forza Italia dopo e più di recente dal cosiddetto Popolo delle libertà.1

Questi segnali evidenziano come la popolazione italiana non abbia dunque ancora colto i cosiddetti “benefici” dell’autonomia, anzi, continui a fare fatica a diventare protagonista attiva dello sviluppo economico e sociale del territorio.

Che cosa è il disagio degli italiani e da dove ha origine questo sentimento così largamente diffuso tra ampie parti di popolazione? Il termine disagio è così volutamente vacuo da rendere non tanto la risposta alla domanda, quanto la domanda stessa mal posta. Dal punto di vista etimologico, il termine disagio significa il contrario di agio, ovvero una condizione di scomodità rispetto a quanto è necessario, o adeguato, ai bisogni della vita. Parlare di disagio degli italiani significherebbe dunque in questa accezione capire se e in che misura essi si trovino a vivere in una situazione di mancanza di condizioni che consentano la piena soddisfazione dei propri bisogni vitali.

Ora il problema che si pone quando si colloca la discussione su questo piano è che il concetto di bisogno è quanto di più relativo possa esistere. I bisogni dipendono da elementi culturali, sociali, individuali. Parlare di bisogni degli italiani implicherebbe assumere che gli italiani siano accumunati da un sistema omogeneo di preferenze, aspirazioni e necessità, cosa che evidentemente non può essere poiché ogni singola persona è mossa da desideri e necessità specifiche.

Ma in provincia di Bolzano quando si parla di categorizzazioni etniche, si sa, non si va troppo per il sottile. La retorica dominante si alimenta di differenze nosografiche. Esistono i tedeschi, gli italiani e poi a margine i ladini e gli altri. Nel linguaggio quotidiano del proprio vicino di casa, nel dialogo al bar, nelle conversazioni sui mezzi pubblici ricorre con frequenza impressionante l’uso delle etichette etniche per descrivere i più semplici fatti della vita quotidiana. Gli elementi di personalità come il carattere, la storia personale, la professione, l’orientamento politico o religioso sono sacrificati costantemente al moloch dell’appartenenza etnica: un concetto ormai diventato, al tempo stesso, mostruoso e irreale, in una società in cui vivono migliaia di mistilingui e circa il dieci per cento di stranieri ma che continua a restare il pilastro portante del sistema politico e sociale locale e del correlato sistema di potere.

Quando una società inizia a essere strutturata e divisa nel discorso politico per categorie, ovviamente essere ricacciati nell’una o nell’altra ha delle implicazioni identitarie, sociali e psicologiche non indifferenti. Per utilizzare il linguaggio di Charles Devereux (1983) le categorie definitorie hanno lo scopo di non fare vedere le persone per come realmente sono, ossia come esseri umani dotati di repertori multipli, ma di esasperare invece come elemento della loro riconoscibilità sociale un solo tratto costitutivo che assorbe in sé tutti gli altri.

Quando l’identità etnica diventa elemento a cui sono associati diritti specifici che strutturano in modo differenziato l’accesso alle risorse, ai posti di lavoro, alle carriere lavorative e alla possibilità di partecipare paritariamente alla costruzione di un comune futuro, accade inevitabilmente che la riduzione dell’identità a un unico segmento rischi di impoverire la capacità delle persone di orientarsi nel mondo e di sperimentare le proprie potenzialità in modo compiuto. Se per esempio un medico preparato non può accedere a un posto di primario ospedaliero o un bravo funzionario a quello di direttore di ufficio soltanto perché appartenente a uno specifico gruppo etnico, è inevitabile che i membri di quel gruppo condividano una condizione di disorientamento e vivano come handicappante il proprio status etnico.

Quando questi episodi si ripetono costantemente nell’esperienza quotidiana di ciascuno, il rischio è che venga alimentato un processo definito di “auto-etichettamento” attraverso il quale le persone e in particolare quelle più deboli finiscono per identificarsi con questo unico segmento e per trovarsi in difficoltà a riconoscere le altre potenzialità del proprio repertorio che il sistema istituzionale non riconosce e non considera (Becker 1963).

2. Il disagio come sentimento di precarietà

In un recente bel saggio sulle discriminazioni umane, Stefano Boni (2011) ha scritto che l’uso politico degli stereotipi è uno dei più efficaci strumenti per “addomesticare” la diversità umana.

Facendo leva su “immagini potenti perché innescano rappresentazioni della realtà sociale semplificate, accessibili e cognitivamente appetibili” (Boni 2011, 23), gli stereotipi estendono a tutti i membri di un determinato gruppo sociale le “caratteristiche presentate come se fossero tipiche” (Boni 2011, 23). L’uso degli stereotipi per quanto fattore di rinforzo di sicurezze psicologiche e sociali per gli appartenenti a uno specifico gruppo, ha sempre una doppia natura: da un lato, rassicura, tranquillizza, rende più sicuri di sé gli appartenenti a uno specifico gruppo, dall’altro, crea alterità, differenze, impossibilità di essere eguali. Il disagio è una delle manifestazioni più evidenti della condizione di insicurezza cognitiva causata dall’uso politico degli stereotipi sociali in cui vive la maggioranza degli italiani abitanti in provincia di Bolzano.

Una delle retoriche più diffuse in provincia di Bolzano, utilizzata per diluire in un unico calderone indistinto il sentimento di insicurezza di una parte di popolazione locale, è quella del “siamo tutti minoranza”. Secondo questo discorso, il disagio degli italiani qualora veramente esistesse, cosa che ancora le élite politiche al potere cercano goffamente di negare, sarebbe da considerarsi né più né meno che l’altra faccia della medaglia di una situazione di smarrimento congenita alla condizione di artificialità istituzionale in cui la popolazione locale è costretta a vivere.

Se gli italiani si lamentano della loro condizione di minorità numerica sul territorio provinciale, che cosa dovrebbero fare i tedeschi costretti a vivere all’interno di uno Stato nazionale in cui sono minoranza? La logica conclusione di questo discorso è che ciascun gruppo etnico ha le sue pene che si equiparano tra loro. Come la gran parte del discorso politico in provincia di Bolzano, anche quello dell’“equiparazione delle disgrazie” si fonda su considerazioni molto discutibili.

Con l’approvazione del secondo statuto di autonomia e la chiusura della vertenza internazionale, il punto di equilibrio raggiunto nell’architettura politica e istituzionale provinciale non è più considerato, nei suoi fondamenti, motivo di ingiustizia da parte della grande maggioranza degli italiani. L’unico movimento che contesta le basi dello statuto rivendicando l’italianità della provincia di Bolzano è Unitalia che ha raccolto alle ultime elezioni provinciali una percentuale molto bassa dei voti della popolazione di lingua italiana. La vecchia protesta del Movimento sociale italiano (Msi) degli anni ’80 contro il patentino e il bilinguismo è andata progressivamente scemando ed è oggettivamente difficile trovare, al di fuori delle ali più oltranziste del patriottismo sudtirolese, italiani disposti a sostenere la tesi di un ritorno alle politiche di colonizzazione degli anni ’30 e ’40.

La discussione avviene prevalentemente sull’applicazione dello statuto e sull’esigenza del rispetto dei suoi principi costitutivi, come il bilinguismo della toponomastica, non dei suoi fondamenti. Il Governo nazionale ha assecondato da ormai vent’anni la maggior parte di richieste del partito di raccolta dei cittadini di lingua tedesca attraverso concessioni progressive di rilevanza strategica, come il passaggio delle centrali idroelettriche. Addirittura, fatto mai accaduto prima, si è avuto in settembre un inedito intervento diretto del Presidente della Repubblica Napolitano per richiamare il Governo al rispetto delle procedure previste dallo statuto per definire il contributo economico della provincia di Bolzano al risanamento dei conti nazionali.

Le contestazioni governative riguardano dunque ormai soltanto l’applicazione di norme che forzano lo statuto ma non i fondamenti, considerati il caposaldo della convivenza. L’ancoraggio internazionale dell’Accordo di Parigi riconosciuto dallo Stato italiano definisce inoltre una cornice istituzionale di piena garanzia per la popolazione di lingua tedesca ribadita nel 2012, in forma solenne, nell’incontro tra i due presidenti della Repubblica italiana e austriaca a Merano in occasione del conferimento del Grande Ordine di Merito della Provincia Autonoma di Bolzano, per il quarantennale del secondo statuto di autonoma e del ventennale della chiusura della vertenza fra Italia e Austria.

Per gli italiani della provincia di Bolzano, lo scenario è molto diverso. L’equivalente locale del Presidente della Repubblica, il governatore Luis Durnwalder, è stato di recente un fondamentale sponsor politico dell’operazione di cancellazione di un grande numero di toponimi italiani sulla cartellonistica di montagna: un intervento condotto dall’Avs (Alpenverein Südtirol) che ha provocato un forte impatto emotivo sulla popolazione locale italiana. Le argomentazioni usate dal Landeshauptmann per difendere questa operazione sono quelle della riparazione del torto storico commesso da Ettore Tolomei (1865–1952) della cancellazione della toponomastica tedesca. Il concetto di torto storico continuamente ripreso dalla Svp e dai partiti dell’estrema destra tedesca rischia di radicalizzare tra gli italiani un sentimento di profonda frustrazione e smarrimento.

Fino a vent’anni fa si poteva ancora comprendere l’esistenza di un sentimento radicato di rivalsa del gruppo tedesco rispetto agli italiani. L’annessione del Tirolo del Sud all’Italia è stata un’ingiustizia storica e il ventennio fascista ha lasciato aperte ferite dolorose e lunghe da rimarginare. Nel 2012, però, di fronte a un benessere diffuso e al pieno rispetto e sviluppo del gruppo tedesco, questo accanimento nel rivendicare la riparazione dei torti subiti appare a molti come il segnale di una volontà di egemonizzazione etnica che ogni giorno mira a spingersi sempre più fino al ritorno a un passato in cui gli italiani erano una presenza minimale sul territorio provinciale (prima dell’annessione all’Italia si stima che in provincia di Bolzano i cittadini di madrelingua italiana rappresentassero circa il 3 per cento della popolazione residente).

Per gli italiani, l’approvazione dello statuto di autonomia doveva costituire la chiusura della vertenza internazionale e il raggiungimento di un assetto garantista delle relazioni tra i gruppi linguistici. Il messaggio lanciato dal continuo richiamo alla retorica della riparazione va invece nella direzione opposta a quella della rassicurazione. Per la Svp e i suoi massimi rappresentanti gli obiettivi raggiunti attraverso l’autonomia sono sempre parziali, temporanei, da migliorare.

Con questo slogan l’elettorato oltranzista tedesco è forse rassicurato e la Svp spera di perseguire il proprio obiettivo del mantenimento egemonico del potere a livello locale. Il rischio è invece un incremento della radicalizzazione del discorso politico e l’istituzionalizzazione per gli italiani di una condizione di costante precarietà psicologica che alimenta, specie tra i ceti più deboli, frustrazione e senso di marginalità sociale

L’altro elemento che incide sul senso di precarietà degli italiani è l’aggressività dei partiti dell’estrema destra tedesca confortati da un successo elettorale che sembra contraddire i segnali di rassicurazione prodotti dalla propaganda del “qui stiamo tutti bene” elargita a piene mani dalla macchina burocratico-comunicativa provinciale. Il successo di Freiheitlichen e Süd-Tiroler Freiheit, che si alimenta attraverso la retorica del secessionismo, costituisce per molti italiani una minaccia cognitiva che non trova un riscontro parallelo nell’immaginario dei cittadini di lingua tedesca. Nella retorica populista dei partiti della destra radicale tedesca peraltro il messaggio implicito è che gli italiani sono ancora oggi una “Import Bevölkerung” un popolo di importazione che non ha gli stessi diritti dei cittadini di lingua tedesca. Questo linguaggio da guerra fredda, in forza del crescente successo di queste formazioni politiche, continua ad alimentare il dibattito della politica locale e viene ripreso diligentemente dai media che ne enfatizzano la portata distruttiva attraverso la continua etnicizzazione dei risultati delle negoziazioni politiche a livello locale e nazionale.

Italiani e tedeschi sono dunque sicuramente accumunati dal dover condividere un percorso storico di rielaborazione dei traumi passati. Il quadro di fronte al quale si collocano i membri dei due gruppi linguistici è però oggettivamente diverso. Per i tedeschi che pur vivono all’interno dei confini di uno Stato che non è il loro, i diritti garantiti dall’autonomia sono in fase espansiva e alla luce dei fatti non risultano minacciati dalle mire nazionaliste della ex potenza straniera; per gli italiani le garanzie di stabilità e riconoscimento istituzionale e sociale continuano ad essere instabili ed esplicitamente contestati da un linguaggio politico che usa ritualmente i toni del conflitto armato.

3. Le basi socio demografiche del disagio: stabilizzazione della presenza o marcia della morte al contrario?

Il disagio degli italiani è un termine che rimanda a una condizione soggettiva di smarrimento. Il problema del disagio non ha tuttavia solo basi psicologiche ma anche materiali.

Un primo elemento materiale del disagio è collegato alla condizione socio-demografica. La condizione socio-demografica di un gruppo etnico diventa problematica solitamente in base a due condizioni:

I) la consistenza del gruppo in rapporto agli altri gruppi; quando un gruppo raggiunge una certa soglia numerica in proporzione agli altri gruppi, tra i suoi membri diventa maggiore la probabilità del diffondersi di un senso di insicurezza che alimenta frustrazione e disagio;

II) la struttura socio-demografica del gruppo e quindi gli elementi di riproducibilità della sua presenza su un determinato territorio; quando un gruppo si riduce e diventa più fragile in termini di equilibrio socio-demografico tra i suoi membri aumenta la probabilità del disagio.

Nel 1953 il canonico Michael Gamper utilizzò la famosa metafora della “marcia della morte” per indicare il rischio di inesorabile declino demografico della minoranza tedesca causato dall’aumento degli italiani. Sessant’anni dopo il pendolo della storia ha invertito il suo moto ed è il gruppo italiano a diminuire la propria presenza proporzionale sul territorio provinciale.

Per quanto riguarda la consistenza del gruppo linguistico si registra una diminuzione continua dal primo censimento degli anni ’80. La percentuale degli italiani residenti in provincia è passata dal 33,3 per cento del 1971 (138.000 unità) al 28,7 per cento del 1981, fino al 26,47 per cento del 2001. Il censimento del 2011 ha registrato ancora un calo percentuale (0,41 per cento a fronte di un aumento dello 0,26 per cento del gruppo tedesco e dello 0,16 per cento di quello ladino) ma un incremento assoluto di 4.626 unità passando da 113.494 residenti del 2001 a 118.120 del 2011 (contro un incremento di 18.143 unità del gruppo tedesco passato da 296.461 a 314.604 e di 422 del gruppo ladino passato da 20.126 a 20.548 (astatinfo 2012).

La diminuzione percentuale contenuta e l’incremento del numero assoluto del gruppo italiano ha spinto diversi politici a commentare il risultato come la conferma del benessere diffuso tra tutti i gruppi linguistici. Tirando un po’ troppo velocemente le conclusioni il governatore Durnwalder ha affermato a nome di tutti che “i dati sono sostanzialmente stabili e dimostrano che nei loro ambiti i gruppi linguistici si sentono soddisfatti.”2

In realtà i dati del censimento continuano a segnare il progressivo indebolimento degli italiani sia dal punto di vista strettamente percentuale, sia dal punto di vista della dislocazione territoriale. Per quanto riguarda il dato numerico esso risulta influenzato esplicitamente dal peso degli immigrati che hanno acquisito il diritto di cittadinanza. Una stima di questo impatto si può desumere dall’analisi dei dati demografici della città capoluogo dove risiede una percentuale molto elevata di stranieri sul totale provinciale. Al 31.12.2011 risultavano residenti a Bolzano 104.841 abitanti. Secondo i dati del censimento 2011, gli italiani costituivano il 73,8 per cento della popolazione con un incremento dello 0,8 per cento rispetto al 2001, mentre i tedeschi sono diminuiti dello 0,77 per cento. Nell’ultimo decennio la popolazione residente nel capoluogo è aumentata tuttavia soltanto per merito degli stranieri che sono passati dalle 4.458 unità del 2001 alle 14.511 del 2011. Ne si desume che nell’aumento percentuale degli italiani vanno conteggiati come minimo anche un paio di migliaia di stranieri che hanno acquisito cittadinanza e diritto di dichiarazione in provincia di Bolzano. È dunque abbastanza plausibile pensare che i numeri del censimento stimino per difetto la riduzione degli italiani a livello provinciale e il calo sia sensibilmente superiore a quello indicato dai dati ufficiali.

Il processo di lenta erosione della presenza degli italiani è evidenziato in secondo luogo dall’abbarbicamento del gruppo in uno spazio molto limitato di territorio. Nonostante i dati del censimento 2011 indichino una riduzione degli italiani in 44 comuni mentre registrino un aumento in 72 comuni, solo in 28 comuni gli italiani superano il 10 per cento della popolazione, in 15 il 20 per cento e in 5 il 50 per cento. Nel comprensorio di Bolzano, ovvero una superficie pari allo 0,2 per cento del territorio provinciale, vive compattato circa il 60 per cento della popolazione italiana residente. Dalla periferia gli italiani invece scompaiono lentamente. Gli italiani vivono quindi spesso in una condizione di progressiva riduzione della propria presenza spaziale sul territorio e preda nelle periferie di una sindrome di isolamento che può essere rotta solo attraverso il trasferimento, oppure l’assimilazione.

A segnare il declino del gruppo italiano ed enfatizzare il sentimento di incertezza che alimenta il disagio non sono solo i numeri ma anche, e sicuramente ancora di più, la struttura demografica della popolazione. Purtroppo i dati del censimento linguistico non consentono di descrivere gli appartenenti ai diversi gruppi linguistici sulla base di caratteristiche come l’età, la professione, il tipo di abitazione, eccetera. Si possono utilizzare tuttavia per colmare questo deficit informativo altri dati indiretti che offrono uno spaccato meno preciso ma indicativo della realtà.

Il differenziale di età dei residenti dei comprensori periferici tedeschi e della città capoluogo italiana segna in modo emblematico il divario tra le condizioni di salute dei tedeschi e degli italiani. La percentuale di over sessantacinque e over settantacinque era pari l’anno precedente il censimento a Bolzano rispettivamente al 22,4 per cento e all’8,2 per cento della popolazione residente mentre in provincia il dato si attestava al 17,6 per cento e al 9,4 per cento: un differenziale di quasi cinque punti percentuali che si amplia ulteriormente togliendo il numero dei residenti del capoluogo dal calcolo del dato medio provinciale. A Bolzano vive la popolazione in assoluto più anziana della provincia.

Nonostante la più elevata presenza di stranieri che contribuiscono a portare a 9,7 per cento il tasso di natalità (il penultimo tra i comprensori della provincia, più alto solo del 9,6 per cento della Val Venosta) anche il saldo naturale appare negativo contro un saldo del 3,2 per cento della provincia (e dell’1,8 per cento della Val Venosta).

Disaggregando ulteriormente il dato per singoli quartieri, si evince che la concentrazione più elevata di anziani e grandi anziani risiede nei quartieri italiani di Don Bosco e Europa, segno inequivocabile di un processo di trasformazione socio-demografico della popolazione residente che proietta in base alle stime delle dichiarazioni del censimento nel 2021 il numero di italiani di poco al di sopra della soglia delle centomila unità.

A mancare all’appello per garantire una struttura di popolazione minimamente equilibrata sono soprattutto le classi di età comprese tra i trenta e i cinquanta anni e gli under ventinove: i primi sono i membri della prima generazione di italiani che ha dovuto affrontare impreparata culturalmente e psicologicamente l’applicazione delle norme sul bilinguismo e la proporzionale nell’impiego pubblico e che si è trasferita in altre regioni per trovare occupazione. Per almeno un decennio, tra la metà degli anni ’70 e la metà degli ’80, i posti nella pubblica amministrazione riservati agli italiani sono, in forza della necessità di un ri-equilibrio con il gruppo tedesco, diventati sostanzialmente inaccessibili con l’esclusione del comparto scolastico. Un’intera generazione di giovani italiani figli dei primi immigrati degli anni ’30 e ’40 si è dunque scontrata con quello che Alexander Langer (1996a) chiamava l’“inversione del pendolo”, ovvero una spinta al riequilibrio etnico basata sull’enfasi non alla crescita comune dei gruppi bensì al ridimensionamento dell’uno a discapito dell’altro. L’esito di questo processo accelerato di riparazione del torto storico dell’italianizzazione del comparto pubblico è stato la dispersione di un’intera generazione di italiani che ha lasciato il segno diretto sul tasso di natalità delle generazioni successive. L’irrigidimento delle norme di attuazione con il controllo urbanistico del territorio, l’applicazione rigida della proporzionale del pubblico impiego e l’estensione del controllo provinciale sull’economia locale hanno al contempo innalzato barriere molto importanti nei confronti dell’immigrazione italiana interrompendo i flussi che avrebbero potuto reintegrare le perdite demografiche delle generazioni degli anni ’50 e ’60.

Un ricambio di italiani ha continuato a esserci anche dopo gli anni ’70 e in alcuni periodi si è probabilmente anche intensificato. Questo non significa tuttavia che il gruppo italiano abbia potuto nel suo complesso rinforzarsi, perché i nuovi italiani sono stati spesso “uccelli di passaggio”: insegnanti con un’assegnazione temporanea di posti nelle scuole provinciali, che terminato l’incarico o vinto un concorso chiedevano il trasferimento nelle sedi di origine, oppure lavoratori dell’edilizia provenienti dalle regioni del sud imprestati a tempo determinato allo sviluppo dell’economia locale. Gli italiani continuano a trovarsi nel 2012, dunque, in quella situazione di crisi psicologica che ancora Langer (1996b) aveva definito come “sindrome del binario morto”, ossia in una condizione caratterizzata dalla “sensazione che la circolazione di gente, di potere, possa avvenire solo all’interno dei confini dell’Alto Adige”, dalla presupposizione “che per la rigenerazione della propria comunità si possa contare solo su chi già è qui, senza apporti dall’esterno” (Langer 1996b, 37).

Questa condizione rischia di risultare ancora più paradossale in un mondo sempre più globalizzato in cui le persone viaggiano, si muovono, cambiano residenza con una impressionante facilità e evidentemente pesa di più sugli individui in posizione socio-economica e relazionale più fragile.

4. Una competizione impari

Il disagio degli italiani è causato, oltre che da ragioni socio-demografiche, anche dalla impossibilità di competere con il gruppo tedesco in condizioni di relativa parità per l’accesso alle risorse. È chiaro che il gruppo tedesco radicato da centinaia di anni sul territorio provinciale parte da una posizione di vantaggio relativo sugli ex nuovi arrivati. Questo vantaggio non è tuttavia solo posizionale ma è anche artificialmente alimentato e rinforzato da specifiche politiche allocative e distributive.

Un gruppo cresce e può riprodursi nella misura in cui ha accesso alle risorse economiche, politiche e sociali di un dato territorio. In un breve pamphlet di recente pubblicazione, il giornalista Lucio Giudiceandrea (2007) ha imputato agli italiani la responsabilità di essersi autoesclusi dai vantaggi dell’autonomia a causa di una sottovalutazione della rilevanza strategica dell’apprendimento della seconda lingua. La tesi implicita a questo filone di pensiero è che la responsabilità della mancata integrazione degli italiani è da addebitarsi al rifiuto da parte degli stessi di imparare la lingua e comprendere la cultura del gruppo tedesco.

La conoscenza delle due lingue costituisce un prerequisito fondamentale per accedere al mercato del lavoro in provincia di Bolzano e recenti indagini evidenziano l’estensione di questo requisito alla ormai stragrande maggioranza delle opportunità occupazionali (Gudauner 2009). Rispetto al passato la consapevolezza della conoscenza linguistica è ormai un fatto acquisito dalla maggioranza della popolazione italiana.

Negli ultimi dieci anni, la conoscenza della lingua tedesca è diventata per una parte crescente della popolazione italiana non solo un obbligo ma anche un obiettivo rispetto al quale le famiglie investono ingenti risorse economiche. Il numero di bambini italiani iscritti agli asili e alle elementari tedesche è in fortissima crescita e anche nelle scuole italiane sono state introdotte e accettate sperimentazioni di insegnamento nelle due lingue molto impegnative sotto il profilo educativo. Le dimensioni del fenomeno non sono certificabili; i dati delle iscrizioni dei bambini italiani agli asili e alle scuole tedesche non sono stimabili non esistendo un obbligo di dichiarazione linguistica per i minori al momento dell’iscrizione. Le reazioni preoccupate della Svp all’estensione del fenomeno indicano tuttavia che esso è in fase di forte crescita sia in periferia che nelle città. Le scuole miste, ferocemente rigettate dalla retorica del “je klarer wir trennen, desto besser verstehen wir uns” (quanto più ci dividiamo, tanto meglio ci comprendiamo), il motto dell’assessore provinciale alla cultura Anton Zelger (1914 - 2008) che rappresenta ancora oggi la quintessenza del modello autonomistico sudtirolese, stanno diventando quindi nella pratica quotidiana sempre più un dato della realtà.

I risultati dei test di conoscenza della seconda lingua iniziano a registrare compiutamente questi progressi. I risultati dell’esame di bilinguismo non costituiscono una fonte per verificare i livelli di apprendimento perché dai primi anni ’90 non vige più l’obbligo della rilevazione disaggregata per gruppi linguistici. I dati del 2011 che indicano un incremento generalizzato del numero dei promossi non permettono di trarre conclusioni sull’effettivo miglioramento delle conoscenze del gruppo linguistico italiano. Dal 2008 l’attestato di bilinguismo necessario per accedere al pubblico impiego non è più certificato soltanto dal possesso del cosiddetto patentino; sono state rese ad esso equipollenti anche le certificazioni europee peraltro considerate molto più idonee a misurare il reale grado di apprendimento della seconda lingua. Solo nel 2011 il numero delle certificazioni rilasciate nelle scuole italiane è stato pari a 576, con risultati particolarmente promettenti nelle scuole dove sono state realizzate le sperimentazioni di compresenza o immersione (Provincia autonoma di Bolzano 2012).

Il mito degli italiani che non vogliono imparare il tedesco sta lentamente diventando dunque sempre più un’invenzione retorica, utile ad alimentare stereotipi e pregiudizi che non un dato generalizzato di realtà. Certamente molti italiani conoscono insufficientemente il tedesco ma gli sforzi e i risultati di miglioramento della conoscenza della seconda lingua sono più diffusi e agognati di quanto spesso sia veicolato dal discorso pubblico dominante.

Quello che si configura come un elemento molto più oggettivo per interpretare il disagio che accomuna ancora oggi un’ampia fascia di italiani è piuttosto la difficoltà di accedere alle risorse e alle opportunità in modo proporzionale alla loro consistenza e a quella del gruppo tedesco.

I posti pubblici sono l’unico settore dove per legge dovrebbe vigere un sistema di distribuzione equa delle risorse. I dipendenti pubblici rappresentano il 19,6 per cento del totale degli occupati, una percentuale quasi doppia a quella di Germania (9,6 per cento) e Austria (11,4 per cento) e di cinque punti più elevata di quella italiana (19,6 per cento) (Assoimprenditori Alto Adige 2012). Il bacino pubblico riveste quindi una posizione di grande rilievo nella struttura occupazionale provinciale. Il principio della proporzionale vale tuttavia in termini generali ma non per le posizioni dirigenziali. I posti riservati agli italiani ai vertici delle amministrazioni pubbliche sono in continuo calo: nel corso dell’ultimo decennio anche la direzione di Poste, Ferrovie e più di recente l’Inps sono passate al gruppo tedesco. Sulla base dei dati forniti dall’Assessorato alla Sanità in risposta ad alcune interrogazioni dell’opposizione, risulta che nel 2010 al gruppo italiano erano stati affidati solo 28 dei primariati ospedalieri e di territorio (con nessuna deroga alla proporzionale) mentre il gruppo tedesco ne poteva contare 73 (con 6 in deroga). Il rapporto tra primariati ospedalieri, ovvero quelli più importanti, risultava ancora più scompensato (16 contro 60).3

Nel settore parapubblico delle cosiddette Spa provinciali che operano nei settori ad elevata valenza strategica (come la Sel nel settore dell’energia, la Smg nel settore del marketing o l’Informatica Alto Adige in quello dell’informatizzazione) la proporzionale è interamente disapplicata perché non ne è previsto l’obbligo e i manager tedeschi occupano la quasi totalità dei vertici aziendali. Nel 2011 i presidenti e i direttori delle quindici Spa provinciali più importanti appartenevano solo per il 15,3 per cento al gruppo italiano. Per quelle controllate con una quota superiore al 50 per cento (tra cui le strategiche Sel, Informatica Alto Adige, Sadobre, Terme di Merano, Sta Strutture e Trasporti, Fiera e Brennercom) solo la legale rappresentanza di Informatica Alto Adige è affidata al vicedirettore generale della provincia di lingua italiana, mentre tutte le rimanenti presidenze e direzioni sono tedesche.4

È fuori dal comparto pubblico e parapubblico che si collocano però i veri settori trainanti dell’economia provinciale: il settore alberghiero, l’agricoltura e il commercio che sono quasi interamente monopolizzati dal gruppo tedesco.

In questi settori che, anche di fronte alla crisi hanno continuato a crescere, l’occupazione si muove soprattutto sul piano delle relazioni informali e fiduciarie tipiche della cultura comunitaria delle vallate. Il volano occupazionale più che essere di tipo meritocratico appare ancora fortemente legato agli elementi della conoscenza personale e dell’appartenenza comunitaria.

La rete di rapporti densi di ordine parentale, amicale e spesso anche clientelare costituisce dunque per gli italiani un muro che si sovrappone a quello della conoscenza linguistica in sé.

Nei settori privati in cui storicamente è maggiore la presenza italiana, come la grande industria e l’edilizia, l’andamento congiunturale ha mostrato invece i maggiori segnali negativi (calo del numero di concessioni edilizie, ricorso alla cassa integrazione o chiusura per aziende storiche come la Memc di Merano o la Sapa Profili di Bolzano e anche il numero dei disoccupati è in costante crescita).

La proprietà terriera è un’altra risorsa fortemente discriminante per il gruppo italiano. Per anni i piani di espansione urbanistica delle città e in particolare del capoluogo sono stati utilizzati come fattore di disincentivazione dei flussi migratori e di segregazione spaziale del gruppo italiano. La volontà di frenare l’immigrazione sul territorio provinciale aveva una sua ragion d’essere negli anni ’60 e ’70; nel tempo invece è diventata uno strumento non solo per il contenimento ma anche per la segregazione spaziale della comunità italiana. Nei due principali nuovi quartieri di Bolzano, Don Bosco e Europa, ora allargati con gli insediamenti di Firmian e Casanova, sono state concentrate le più grandi realizzazioni di edilizia agevolata in cui hanno trovato alloggio decine di migliaia di italiani.

Le politiche urbanistiche di contenimento dell’immigrazione del passato hanno favorito inoltre un forte innalzamento dei prezzi delle abitazioni nelle aree urbane dove vive la maggioranza degli italiani. Secondo i dati forniti da Finanzautile5 tra le città italiane capoluogo è Bolzano ad aggiudicarsi il primato negativo dei prezzi delle case: per comprare un appartamento servono infatti circa 1.000 euro in più che nella media delle città italiane.

Gli italiani sono infine svantaggiati anche nell’accedere alla risorsa della rappresentanza politica. A livello nazionale la provincia di Bolzano non costituisce un argomento politico rilevante da circa trent’anni a questa parte. La grande parte dei politici nazionali italiani conosce la provincia di Bolzano per esservi stata eventualmente in vacanza ma non esiste ormai più da anni un’attenzione specifica rispetto all’argomento. A livello provinciale, invece, ormai da anni i rappresentanti politici italiani sono cooptati dal partito di raccolta tedesco e non esprimono la maggioranza dei votanti della stessa madrelingua. Gli assessori provinciali quindi sono dei referenti imperfetti per la popolazione italiana. Il loro peso politico in quanto rappresentanti di una minoranza sia di votanti che di italiani in provincia è di conseguenza minimale e nella gestione delle risorse e delle strategie di sviluppo provinciali essi esercitano un ruolo poco incisivo. La strategia più appagante per i politici italiani è la loro “mimetizzazione” nell’ambito del dibattito politico pubblico che si traduce nel sostegno sostanzialmente incondizionato alle posizioni del partito di raccolta dominante.

Anche a livello locale, nei cinque comuni in cui gli italiani costituiscono la maggioranza – Bolzano, Merano, Salorno, Bronzolo e Vadena – il loro peso politico è minimo a causa della frammentazione del quadro politico locale. La Svp esercita quindi un peso politico esponenzialmente più elevato dalla sua effettiva rappresentanza elettorale. Mentre per i tedeschi i rappresentanti politici sono una risorsa attivabile per risolvere problemi e accedere a risorse, per gli italiani le risorse mobilitabili dalla politica sono molto più ristrette e i canali di accesso resi più difficoltosi dalla mancanza di un partito di raccolta capace di integrare le diverse sensibilità e interessi specifici. Solo per dare un termine di paragone del quadro reale, gli iscritti alla Svp sono circa 50.0006 ovvero un numero pari a circa il 15,9 per cento della popolazione di lingua tedesca registrata al censimento 2011 (314.604 unità) e al 14,9 per cento della somma dei tedeschi e dei ladini (335.152 unità). Quindi, quasi un cittadino di lingua tedesca su sei è direttamente collegato al partito che è al governo e controlla la distribuzione politica delle risorse in tutti e 116 comuni della provincia. I tesserati del Partito democratico, ovvero dell’unica compagine politica italiana al governo a livello provinciale, e in quattro dei cinque comuni a maggioranza italiana erano invece, nel 2011, 465 (701 nel 2010). Questo significa che solo lo 0,4 per cento degli italiani è in grado di avere un accesso diretto ai centri di potere locali con un evidente disequilibrio nella possibilità di influenzare le risorse mobilitabili dalla politica (ovvero: contributi, carriere professionali pubbliche e parapubbliche, agevolazioni materiali e immateriali, capitale sociale, eccetera).

In questo quadro, la conoscenza linguistica è solo una parte del problema che la grande parte degli italiani quotidianamente incontra nell’accesso alle risorse. Il resto è oggetto di decisioni politiche, condizioni normative e materiali che allo stato attuale non garantiscono alla maggior parte degli italiani una competizione più equa nell’accesso alle risorse rispetto ai membri del gruppo etnico dominante.

5. Conclusioni: è così difficile vivere insieme?

Come ha evidenziato Terence Turner (1995) le identità culturali (ed etniche) non possono essere considerate una sfera autonoma e indipendente dalle condizioni sociali in cui esse si sviluppano e si riproducono. La formazione e riproduzione delle identità etniche in particolare è un potente mezzo di cui i gruppi sociali e le loro élite dispongono per la competizione rispetto all’allocazione delle risorse. Nonostante in provincia di Bolzano gli elementi culturali ed etnici costituiscano un cruciale fattore di identificazione sociale, non sta scritto da nessuna parte che i membri dei diversi gruppi debbano continuare a vivere in una condizione di separati in casa, né implica che un gruppo debba sentirsi più a disagio di un altro in modo sproporzionato. Se questo accade nella provincia con uno dei più elevati livelli di benessere d’Europa, ci sono buone ragioni per sospettare che questa condizione, più che un fondamento naturale, trovi il proprio ubi consistam, ovvero il proprio punto di appoggio, in ragioni diverse e più articolate.

Il problema del disagio degli italiani ha iniziato a essere studiato circa 15 anni fa (Giovannetti, 1998). Nel frattempo l’autonomia è cresciuta, l’ancoraggio internazionale dello statuto è ribadito e anche sul piano delle relazioni internazionali il gelo tra Italia e Austria si è ormai sciolto da molto tempo. Eppure questo sentimento è ancora oggi ben presente tra la popolazione di lingua italiana.

La questione del disagio degli italiani in provincia di Bolzano non riguarda tanto la domanda se esiste o meno questo sentimento di insicurezza psicologica ma il perché esso esista, perché coinvolga strati molto ampi di persone e perché continui a essere presente dopo quarant’anni dall’approvazione del nuovo statuto di autonomia.

In provincia di Bolzano l’uso politico delle identità etniche è stato storicamente finalizzato alla difesa della minoranza tedesca rispetto al tentativo di colonizzazione della maggioranza nazionale italiana. Il gruppo etnico tedesco doveva risultare compatto per cercare di sopravvivere al nemico e questo ha comportato l’enfatizzazione della dimensione etnica delle identità individuali. Si giustificava su queste basi il sistema delle scuole separate, delle associazioni separate, dei finanziamenti separati alla cultura e all’istruzione. Una volta compiuto il disegno autonomistico, con l’approvazione del secondo statuto, l’applicazione delle norme e il riconoscimento della natura internazionale dell’Accordo di Parigi, le relazioni tra i gruppi etnici avrebbero dovuto normalizzarsi. Ai muri si sarebbero dovuti sostituire i ponti e al conflitto il dialogo e il rispetto reciproco. Quarant’anni dall’approvazione del secondo statuto di autonomia e venti dopo la chiusura della vertenza internazionale, tutto questo non è purtroppo ancora accaduto o in un’interpretazione più ottimistica, è accaduto solo in parte marginale.

La società rimane divisa da muri, sia visibili che invisibili. I gruppi vivono in larga parte spazialmente separati, i punti di intersezione sono ancora troppo pochi e selettivi, i gruppi di potere si spartiscono le risorse sulla base del principio di appartenenza etnica. Un libro di storia comune è stato introdotto nelle scuole solo nel 2012: di modo che i ragazzi continuino a studiare non una storia della provincia di Bolzano, ma due storie, ciascuna connotata da propri miti fondativi. Anche i media parlano e raccontano quotidianamente di mondi diversi, contribuendo a costituire due distinte opinioni pubbliche e due diversi dibattiti in larga parte impermeabili l’uno rispetto all’altro (Pallaver 2006). Certamente si registrano anche dei cambiamenti positivi ma sono lenti e faticosi e percepiti come tali soprattutto da una minoranza di persone.

Ulf Hannerz ha scritto alcuni anni fa che le società, così come le culture viste da lontano, presentano un aspetto di apparente fissità ma questa fissità, in realtà, è solo apparente perché al di sotto si nasconde un movimento continuo e inarrestabile per cui “non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume” (Hannerz 1996, 46). Anche in provincia di Bolzano il mondo sta cambiando, i processi di globalizzazione hanno portato a vivere sul territorio decine di migliaia di stranieri, il turismo e la mobilità fanno interagire quotidianamente persone appartenenti a gruppi nazionali e linguistici diversi, il benessere economico e sociale ha raggiunto livelli inimmaginabili fino a venti’anni fa. Eppure, per molti italiani, la sensazione di bagnarsi sempre nello stesso fiume è molto forte.

La strategia della riparazione permanente messa in atto dalla Svp e alimentata ormai da spirali estremiste che sembrano essere sfuggite in larga parte allo stesso partito di raccolta continua a ritornare da sempre sugli stessi temi e la prospettiva di un futuro diverso da quello della tensione permanente rimane per i più ancora una chimera. Che nella sostanza molte cose stiano cambiando rischia di essere la percezione di gruppi minoritari di cittadini, i più inseriti nel tessuto sociale locale, coloro che dispongono di maggiori risorse personali e relazionali, le intellighenzie urbane e appartenenti ai ceti sociali più elevati.

Molti altri italiani sono tagliati inesorabilmente fuori dallo sviluppo dell’autonomia e percepiscono quotidianamente la difficoltà di costruire basi di convivenza accettabili per tutti. La domanda che molti si pongono è: perché è così difficile vivere insieme? Perché il contatto tra i gruppi deve essere ancora considerato come una condizione artificiale da governare attraverso la categorizzazione etnica e la separazione tra i gruppi? Sono domande che aspettano una risposta che gli attuali gestori del potere locale non sembrano essere in grado purtroppo di dare. Fare finta che il problema non esista però rischia di non portare l’autonomia ad andare molto lontano. Fino a che esisterà un “Propozistan” è difficile che la società cessi di essere divisa tra vinti e vincitori. Ma i nodi irrisolti, si sa, alla fine vengono sempre al pettine.

Note

1 Ancora nel 2008, alle ultime elezioni amministrative, il Partito delle libertà (Pdl), che ha ereditato nella sua agenda politica il cavallo di battaglia della “difesa degli italiani”, ha conquistato, pur dilaniato da frammentazioni interne, l’8,3 per cento dei consensi contro il 6 per cento del Partito democratico (Pd) il partito di rappresentanza degli italiani partner in Giunta provinciale della Südtiroler Volkspartei.

2 Cfr. “Censimento etnico, leggero calo degli italiani: sono il 26,06 per cento, in: Alto Adige, 12 giugno 2012, http://altoadige.gelocal.it/cronaca/2012/06/12/news/censimento-leggero-calo-degli-italiani-sono-il-26-06-1.5252385 (16.11.2012).

3 Dati forniti dall’Assessorato alla sanità www.social.bz.it/pressarchive.php?lang=i&art_id=64124.

4 Dati reperibili sui siti delle principali Spa provinciali in data 28 ottobre 2012.

5 Dati reperibili sul sito www.finanzautile.org.

6 Cfr. http://www.svp.eu/de/partei/ortsgruppen/ (16.11.2012).

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Turner, Terence (1995). Comment, in: Current Anthropology, n. 36, 16-18

Abstracts

Das Unbehagen der ItalienerInnen

Der Artikel untersucht die Grundlagen des sogenannten Unbehagens der italienischsprachigen BewohnerInnen der Provinz Bozen. Die Analyse hebt hervor, dass dieses Unbehagen nicht bloß einer nationalistischen Rhetorik entstammt, sondern vielmehr als soziologisches Phänomen begriffen werden muss, das nicht nur auf psychologischen, sondern auch auf politischen, wirtschaftlichen und sozialen Faktoren gründet. Anhand empirischer Untersuchungen zeigt der Autor die Entwicklung und die Grundcharakteristika dieses sozialen Zustandes auf. Das daraus hervorgehende Gesamtbild lässt die Schlussfolgerung zu, dass die Autonomie keinesfalls als vollendetes Instrument des interethnischen Zusammenlebens zu betrachten ist, sondern vielmehr in ihrer gegenwärtigen Umsetzung Konfliktformen zu nähren droht, die längst überwunden hätten werden müssen.

Le malester di talians y dles talianes

L’articul analisëia les fondamëntes dl malester dla popolaziun taliana tla Provinzia de Balsan. L’analisa alza fora che chësc malester n’é nia ma na invenziun dla retorica nazionalistica, mo ch’al mëss gnì odü plü co ater sciöche n fenomenn soziologich che se basëia sön faturs nia ma psicologics, mo inće politics, economics y soziai spezifics. Sön la basa de inrescides empiriches mostra sö l’autur le svilup y les carateristiches de basa de chësta situaziun soziala. Le cheder general che vëgn a s’al dè chilò lascia ponsè che l’autonomia n’é te degun caje da odëi sciöche stromënt stlüt jö por la conviënza interetnica, mo ch’ara manacia – da sciöch’ara vëgn aplicada al momënt – da alimentè formes de conflit, che ess bele dadî messü gnì superades.

The discontent of the Italians

The article examines the foundations of the disagio (discontent) of Italian-speaking residents of the Province of Bolzano. The analysis highlights that this unease arises not only from nationalist rhetoric, but rather must be understood as a sociological phenomenon that is based not only on psychological factors but also has political, economic and social components. Through empirical research, the author demonstrates the development and basic characteristics of this social condition. The resulting overall picture admits that autonomy is not at all to be regarded as a perfect instrument of inter-ethnic coexistence, but instead threatens to nourish conflict in its present form, which is something that should have been long since overcome.