Francesco Palermo
Regione, Province e forse nuova Regione?
Il pendolo di Foucault istituzionale dell’autonomia
1. Introduzione
Sotto il profilo istituzionale, il passaggio dal “primo statuto” al “secondo statuto”1 è consistito nel trasferimento della centralità delle competenze dalla Regione autonoma Trentino-Alto Adige alle due Province autonome di Bolzano e di Trento. In un certo senso si è trattato quasi esclusivamente di spostare i contenuti tra contenitori già presenti, di cambiare l’ordine di priorità (dunque il peso politico) tra Regione e Province, e quindi, potrebbe dirsi, di modificare molto la sostanza e poco la forma.
A ben vedere, infatti, le modifiche di natura istituzionale intercorse tra il primo e il secondo statuto sono state complessivamente meno significative ed hanno riguardato per lo più aspetti conseguenti allo spostamento del baricentro delle competenze2. Alcune modifiche importanti sono state poi introdotte con la riforma del 2001, ed hanno in parte riguardato anche aspetti istituzionali oltre ad altre questioni, specie relative ai diritti delle minoranze; infine, riforme di rilievo sono state introdotte alla fine del 2009 in tema di rapporti finanziari tra lo Stato e l’autonomia speciale3.
Il presente contributo dapprima illustrerà l’evoluzione istituzionale dell’autonomia speciale ripercorrendo i passaggi delle riforme intervenute nel 1972 e nel 2001 (2.), poi si soffermerà sulle principali conseguenze giuridiche di tali cambiamenti, mettendo in evidenza alcuni nodi problematici che sono venuti a crearsi a causa della successione di riforme non organiche (3.), e infine illustrerà le più recenti modifiche sul piano della collaborazione istituzionale, con particolare riferimento alla dimensione della collaborazione transfrontaliera (4.). Se ne ricaverà in conclusione (5.) da un lato la indispensabilità di forme di coordinamento tra le Province autonome (e non solo), sostenendo che queste sono oggi in grado di sviluppare tutto il loro potenziale a seguito dell’elaborazione del “trauma” che per alcuni il passaggio dalla Regione alle Province ha causato e, parallelamente, dell’attenuazione di una concezione meramente rivendicativa dell’autonomia; dall’altro si sosterrà che gli importanti mutamenti in atto (e in buona parte già occorsi) necessitano ora di una razionalizzazione istituzionale attraverso l’inclusione e la sistematizzazione nello statuto, perché la mancanza di organicità e di trasparenza del sistema rischia di limitarne le potenzialità fortemente innovative per il governo del territorio.
2. L’evoluzione dello statuto dal 1948 al 2001: continuità istituzionale e discontinuità competenziale
2.1. Le opposte letture della cornice regionale.
L’intera storia istituzionale dell’autonomia speciale trentino-altoatesina si è sviluppata lungo un’asse che univa, ma nel contempo separava, autogoverno per le minoranze e autogoverno per il territorio. La scelta di una forma territoriale di autonomia, va ricordato, non era scontata: il vincolo internazionale rappresentato dall’accordo Degasperi-Gruber del 1946 si riferisce in primo luogo ed essenzialmente alla tutela dei diritti degli “abitanti di lingua tedesca della provincia di Bolzano”. Sebbene l’accordo preveda la concessione di un “potere legislativo autonomo” (punto 2), va ricordato che esso è riconosciuto alle “popolazioni” e non al territorio. Nulla avrebbe vietato insomma di optare per una soluzione che privilegiasse l’autonomia personale del gruppo anziché l’autonomia del territorio. Anche per questo, tuttavia, specie in Alto Adige, i concetti di autonomia e tutela delle minoranze si sono sempre letti quasi fossero sinonimi (autonomia come autogoverno del gruppo), creando spesso difficoltà interpretative e anche scontri politici quando l’autonomia si poteva (e forse si doveva) leggere come qualcosa di più ampio, come un diritto appartenente al territorio e a tutti gli individui che vi abitano4.
Fatto sta che, conformemente alla scelta complessiva operata dal costituente in relazione all’assetto territoriale del potere (Bartole 1985, 63), si optò per una autonomia regionale speciale, a sua volta già speciale rispetto alle altre autonomie differenziate, per la presenza al suo interno di due autonomie provinciali dotate di competenza legislativa primaria e dunque di un proprio indirizzo politico. Il cosiddetto “assetto tripolare” della Regione, basato sulla compresenza e la necessaria collaborazione tra tre soggetti politici coordinati (le due Province e la Regione) è stato dunque una creazione del primo statuto.
Durante la vigenza del primo statuto il problema, com’è noto, ha riguardato non già la struttura istituzionale di questo assetto, quanto la sua gestione concreta, e in particolare il peso e l’esercizio delle competenze attribuite ai diversi livelli. Il peso, perché le competenze legislative primarie e secondarie (e di conseguenza le relative competenze amministrative)5 attribuite alla Regione superavano ampiamente, per numero e importanza, quelle spettanti alle Province. L’esercizio, perché nonostante la previsione nello statuto del 1948 di un meccanismo di delega a cascata per le funzioni amministrative (l’art. 14 prevedeva che la Regione esercitasse “normalmente” le funzioni amministrative delegandole alle Province, ai comuni e ad altri enti locali), non ha funzionato la premessa politica che era indispensabile per l’operatività di un sistema fortemente cooperativo come quello assunto a sistema dal legislatore. Com’è noto, è proprio sul (mancato) trasferimento delle funzioni amministrative ex art. 14 che si è fondata giuridicamente la latente crisi politica tra Bolzano e Trento e tra le rispettive, opposte letture dell’autonomia regionale.
Se per Bolzano la Regione rappresentava la “semiautonomia” dell’Alto Adige (Gatterer 1968) e dunque della sua popolazione maggioritaria, per Trento essa significava da un lato “un sintomo di consapevolezza circa una propria intrinseca debolezza per godere di un’autonomia speciale altrimenti non giustificabile”, e dall’altro “un’autentica ricerca di equilibrio fra una comunità regionale che si avverte come reale, l’orgoglio per la propria autonomia ‘sola’ e la consapevolezza della distinzione delle identità” (Toniatti 2005, 49).
Il lungo e complesso passaggio verso il “secondo statuto” si è giocato sulla ricerca di un difficile compromesso tra queste due opposte visioni. La struttura istituzionale, dopo una prima fase di pesante attacco volto al suo smantellamento (“Los von Trient”), è divenuta in sede di trattativa il contenitore del compromesso possibile. Solo mantenendo il contenitore, infatti, si poteva venire incontro alla concezione prevalente in Trentino (oltre che assecondare sul piano formale la pretesa dello Stato italiano di avere adempiuto ai propri obblighi internazionali con lo statuto del 1948)6, ma solo svuotandolo di poteri a favore delle Province si potevano recepire le richieste della popolazione di lingua tedesca dell’Alto Adige7.
2.2. Dal 1972 al 2001.
Il compromesso del nuovo statuto si basava dunque su una forte discontinuità nell’attribuzione delle competenze legislative e amministrative da un lato, e su una forte continuità nella struttura istituzionale dall’altro. A ciò si aggiunsero alcune disposizioni più dettagliate e avanzate rispetto ai diritti delle minoranze (su cui si tornerà) e la razionalizzazione degli organismi di collegamento (in particolare le commissioni paritetiche per l’attuazione dello statuto, già presenti) e degli enti locali8.
Sotto il profilo strutturale9 e istituzionale, insomma, le modifiche introdotte con lo statuto del 1972 sono state pressoché inesistenti. Tuttavia, l’importanza del passaggio si coglie avendo in considerazione da un lato il massiccio trasferimento di competenze alle Province, dall’altro l’intero “Pacchetto”, che prevedeva una serie di misure dettagliate da adottare prevalentemente attraverso la normativa di attuazione. In questo modo si è evitato per il secondo statuto il rischio di un’attuazione lenta, parziale e a tratti ingannevole come quella che ha caratterizzato il primo statuto, creando precisi istituti e procedure di confidence building che erano in origine mancati10.
Nonostante il termine eccessivamente ottimistico di due anni dall’entrata in vigore del secondo statuto di autonomia previsto dall’art. 108 dello statuto stesso11, il ventennio tra il 1972 e il 1992 (anno della chiusura della vertenza internazionale con il rilascio della quietanza liberatoria: Di Michele/Palermo/Pallaver 2003) è stato dedicato pressoché integralmente all’attuazione e alla “messa a regime” del nuovo sistema autonomistico. In quegli anni sono state adottate numerose e complesse norme di attuazione, che hanno definito i contorni delle questioni fondamentali (dalla proporzionale all’uso della lingua, dal trasferimento di nuove competenze al particolare sistema introdotto in relazione ai rapporti tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali12), in qualche caso andando forse oltre la mera funzione di attuazione statutaria e finendo per introdurre revisioni statutarie mascherate da norme di attuazione, come nel caso di quella relativa a composizione e funzioni della sezione altoatesina del Tribunale regionale di giustizia amministrativa13.
Dopo il 1992 si è inaugurata la fase comunemente definita dell’”autonomia dinamica”14. In realtà si è trattato della semplice prosecuzione della fase precedente, volta alla piena attuazione dello statuto, andando oltre lo statuto (nella lettera ma non nello spirito), attraendo alle Province autonome competenze ulteriori rispetto a quelle stabilite dallo statuto e concordate nel Pacchetto (ad es. in materia scolastica, di strade, ecc.), il trasferimento alle Province di ulteriori competenze regionali (ad es. il libro fondiario o alcune funzioni in materia comunale) e lo sviluppo di attività provinciali volte a sviluppare l’ambito di autonomia garantita (ad es. in tema di rapporti internazionali ed europei, ecc.). Sotto il profilo giuridico, le competenze acquisite in questa fase si differenziano da quelle del periodo precedente al 1992 essenzialmente per il fatto di non essere ricomprese nel “nucleo duro” del Pacchetto15 e pertanto per non essere, a stretto rigore, internazionalmente garantite16.
2.3. La riforma del 2001.
A seguito della profonda revisione del titolo V, parte II della costituzione italiana nel 2001, è venuto a cambiare radicalmente il quadro del riparto delle competenze tra Stato e Regioni, e ciò ha profondamente investito anche la Provincia autonoma di Bolzano (Avolio/Palermo 2004).
In primo luogo, per effetto della riforma costituzionale (art. 101 cost. 3/2001), tutte le competenze non attribuite allo Stato o alla competenza concorrente (art. 117 cost.) rientrano presuntivamente17 nella competenza primaria delle Regioni e delle Province autonome, trasferendosi così automaticamente nella competenza delle Province tutte le competenze più favorevoli non precedentemente loro attribuite dallo statuto. In secondo luogo, anche la generalità delle funzioni amministrative è stata trasferita ai Comuni e da lì, a salire, alle Province autonome/Regioni e allo Stato in base al principio di sussidiarietà (art. 118 cost.). In terzo luogo, sono state introdotte importanti modifiche con riferimento ai rapporti tra Stato e Regioni, ad esempio attraverso l’abolizione del visto governativo preventivo sulle leggi provinciali, o la riduzione delle funzioni del Commissario del Governo. E infine, la riforma costituzionale è stata preceduta di pochi mesi da una non irrilevante modifica dello statuto (l. cost. 2/2001) che è intervenuta in particolare sugli strumenti di democrazia diretta (Lausch 2005), sulla forma di governo delle Province (specie di quella di Trento, dove si è prevista l’elezione popolare diretta del Presidente della Giunta) e soprattutto (e conseguentemente) sulla struttura della Regione, essendosi invertito il criterio di composizione del Consiglio regionale. Le elezioni non sono infatti più regionali (con i Consigli provinciali composti automaticamente dai consiglieri regionali eletti nella circoscrizione della rispettiva Provincia), ma provinciali: il Consiglio regionale è ora organo derivato, frutto dell’unione dei due Consigli provinciali oggi eletti separatamente (e con diverse leggi elettorali).
L’attività di produzione normativa del Consiglio provinciale non è tuttavia sensibilmente aumentata a seguito della riforma, a dimostrazione del fatto che la riforma è stata meno incisiva di quanto avrebbe potuto (e forse dovuto) essere. Ciò pare dovuto ad una serie di fattori, tra cui la reticenza del livello centrale a “prendere sul serio” l’intera riforma e ad attuarla, e una giurisprudenza sicuramente “centralistica” della Corte costituzionale, ma anche ad una responsabilità delle Regioni più attive (tra cui certamente la Provincia autonoma di Bolzano), che hanno largamente continuato come prima, senza cercare di sfruttare il potenziale offerto dal mutato quadro costituzionale per ampliare in modo significativo le proprie competenze.
Forse per impreparazione alla gestione di nuove competenze, probabilmente per la poca voglia di rischiare ulteriori conflitti col Governo e davanti alla Corte costituzionale, certamente per la scarsa chiarezza dei nuovi contorni costituzionali, fatto sta che il legislatore provinciale non ha brillato, nella fase successiva alle riforme del 2001, per iniziativa e creatività istituzionale, a differenza, in particolare, della Provincia di Trento, che negli anni 2000 ha approvato una serie di importanti riforme ordinamentali che hanno profondamente mutato il suo assetto di governo18. Per l’autonomia speciale dell’Alto Adige, la riforma del 2001 è stata insomma una grande promessa solo in minima parte mantenuta.
2.4. Il convitato di pietra: la tutela delle minoranze.
Per cogliere appieno il significato di ciò che può apparire come una contraddizione (la lotta contro la Regione vinta senza toccare l’istituzione regionale), occorre richiamare e specificare quanto sopra ricordato in tema di sovrapposizione concettuale tra tutela delle minoranze e autonomia territoriale. La concezione che ha sempre dominato l’élite politica sudtirolese è stata quella dell’identità tra popolo e territorio: l’Alto Adige come territorio tedesco (e in parte ladino), dove il governo deve spettare al gruppo tedesco (e in parte a quello ladino), pur riconoscendo significativi diritti agli italiani, più però come conseguenza dell’appartenenza del territorio all’Italia che come riconoscimento della natura multietnica del territorio. Se il territorio è (o è visto come) etnicamente omogeneo, non vi è alcuna differenza concettuale tra attribuire poteri al territorio o al gruppo che ne è titolare. In questo senso, come si ricordava, autonomia e tutela delle minoranze sono sempre state lette e interpretate come sinonimi. Pertanto, più competenze alla Provincia di Bolzano significava più tutela della popolazione di lingua tedesca (e ladina); meno competenze alla Regione, per contro, significava minore controllo italiano.
Seguendo questo schema concettuale semplificato ma efficace (e che solo in tempi recenti ha iniziato ad essere messo in discussione anche in parte dall’élite politica di lingua tedesca), è stato possibile gestire un passaggio potenzialmente esplosivo, come quello tra la Regione e le Province, e raggiungere un difficile compromesso. L’essenza dell’accordo è stata la razionalizzazione delle due opposte visioni dell’autonomia: riconoscimento a Bolzano di essenzialmente tutte le competenze prima regionali (visto come vittoria dell’autogoverno del gruppo) e parallelo trasferimento a Trento (dal palazzo della Regione a quello della Provincia) delle medesime competenze, viste come la valorizzazione dell’autonomia del territorio trentino e della sua comunità (paradossalmente vista a Trento come più composita di come quella dell’Alto Adige veniva letta a Bolzano).
Questo passaggio epocale è stato puntellato da alcune importanti previsioni in materia di tutela specifica dei diritti delle minoranze, per assicurare da un lato una maggiore procedimentalizzazione, dunque certezza, e quindi confidence building tra i gruppi, e dall’altro per razionalizzare le forme di partecipazione delle popolazioni localmente minoritarie (italiani e ladini) al governo dell’autonomia.
Quanto alla procedimentalizzazione della tutela delle minoranze, per quanto molti degli istituti (ad es. la proporzionale, l’uso della lingua, il diritto all’istruzione in madrelingua, ecc.) esistessero già in vigenza del primo statuto, si è trattato di un passaggio fondamentale per assicurare che ogni possibile violazione fosse assistita da una precisa garanzia giuridica. Dove manca la fiducia (com’era indubbiamente e comprensibilmente il caso nel 1972) occorre la garanzia giuridica che esista un rimedio contro qualsiasi violazione di un diritto. Così la tolleranza è stata creata attraverso il diritto (Woelk/Palermo/Marko 2008), ed è stato possibile innescare una dinamica positiva nei rapporti tra gruppi.
Tra gli strumenti principali di questo passaggio vanno ricordati in particolare19: l’estensione della proporzionale anche all’amministrazione statale (art. 89 st.), che a fronte della sua parallela riduzione ha consentito l’immissione significativa dei gruppi tedesco e ladino in ruoli dai quali durante il primo statuto erano di fatto largamente esclusi; la contestuale statutarizzazione della rilevazione ufficiale della consistenza dei gruppi linguistici, sia collettivamente che per i singoli individui residenti (art. 89 c. 3 e relativa normativa di attuazione); l’inclusione della tutela delle minoranze linguistiche tra gli interessi nazionali, disposizione oggi largamente simbolica ma che fino alla revisione costituzionale del 2001 costituiva un fondamentale limite alla prevalenza automatica della legislazione statale di “grande riforma economico-sociale” su quella provinciale; un meccanismo complesso di garanzia ultima per i gruppi come “freno d’emergenza” contro eventuali abusi, consistente nella previsione del voto separato per gruppi linguistici (artt. 56 c. 1 e 84 c. 2 st.) e nella possibilità, nel caso in cui la votazione separata non sia accolta o la proposta sia comunque approvata, di ricorrere direttamente alla Corte costituzionale (art. 56 c. 2 st.); tutela giurisdizionale analoga davanti alla giustizia amministrativa (artt. 91, 92 e 84 c. 5 st.); garanzie dettagliate sulla composizione linguistica delle Giunte comunali (art. 62 st.), ecc.
La riforma del 2001 ha inoltre esteso diversi diritti soprattutto al gruppo linguistico ladino (in particolare la formalizzazione di diritti di rappresentanza politica nella Giunta e nella presidenza del Consiglio provinciale – artt. 48 c. 2 e 48 ter st.), soprattutto tuttavia nella Provincia di Trento (ad es. artt. 15 c. 3 e 92 c. 2 st.).
3. La situazione post-2011. Più problemi che certezze?
Oltre alla sommatoria delle varie concause che hanno impedito un atteggiamento proattivo da parte del legislatore provinciale a seguito della riforma del 2001, va segnalato che questa prevedeva espressamente, per la sua piena entrata a regime, l’approvazione di nuovi statuti da parte di tutte le Regioni20. Seppur lentamente e in modo non poco farraginoso, a distanza di dieci anni dall’entrata in vigore della riforma costituzionale pressoché tutte le Regioni ordinarie hanno concluso il processo di approvazione dei rispettivi statuti21. Per contro, nessun nuovo statuto speciale è stato finora approvato: alcune Regioni speciali (Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia) hanno iniziato il processo, che si è bloccato o sul nascere, o a seguito di pronunce della Corte costituzionale o nel Parlamento nazionale (va ricordato infatti che gli statuti speciali, essendo leggi costituzionali dello Stato, richiedono il procedimento di approvazione previsto per le leggi costituzionali ex art. 138 cost.). Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta non hanno neppure iniziato il procedimento di approvazione di un nuovo statuto.
Sotto il profilo politico, si tratta di una conseguenza della difficile stagione che la specialità regionale ha iniziato a vivere dopo le riforme del 2001, quando ha cominciato a radicarsi un clima politico sempre più “ostile” nei confronti delle autonomie speciali, ritenute costose e anti-storiche, clima che si è andato progressivamente accentuando in concomitanza con la crisi economica che ha colpito l’Italia a partire dal 2008. In chiave giuridica, oltre alla maggiore difficoltà procedurale di giungere ad una modifica degli statuti, va segnalata la confusione che è venuta a crearsi nel riparto delle competenze a seguito della riforma costituzionale, che è andata a sovrapporsi con il riparto precedente stabilito dagli statuti speciali, e che si è venuta lentamente assestando nel corso del tempo ad opera dell’interpretazione (fortemente centralistica) che ne ha dato, caso per caso, la Corte costituzionale22. In pratica, il concorso di questi fattori ha fatto sì che la riforma del 2001 non solo non abbia aumentato in misura significativa le competenze della Provincia autonoma, ma abbia creato maggiore confusione e di conseguenza, attraverso la giurisprudenza costituzionale, abbia quasi finito per ridurle.
Nell’attuale sistema derivante dall’intreccio tra costituzione riformata – con il rovesciamento del criterio di attribuzione delle competenze tassativamente elencate (art. 117) – e statuto di autonomia (artt. 4, 5, 6, 8, 9, 10), evidentemente concepito per un modello che lasciava allo Stato le funzioni residuali, si sono create non poche difficoltà interpretative. Il mantenimento di (normativa comunitaria esclusa!) ben nove separati cataloghi di competenze – materie esclusive dello Stato (art. 117 c. 2 cost.), competenze concorrenti (art. 117 c. 3 cost.), legislazione regionale esclusiva (art. 4 st.), legislazione provinciale esclusiva (art. 8 st.), competenze regionali concorrenti (art. 5 st.), provinciali concorrenti (art. 9), potestà legislativa provinciale integrativa (art. 10 st., ora probabilmente scomparsa in seguito alla riforma costituzionale), competenza legislativa provinciale trasferita (art. 17 st.) e competenza legislativa regionale trasferita (art. 17 st.) – ha dato luogo a serie difficoltà nell’individuazione della titolarità concreta di una determinata funzione, tanto più che alcune materie risultano sovrapposte23.
Una riforma dello statuto appare pertanto indispensabile, non foss’altro che per ripristinare un po’ di chiarezza nella divisione delle competenze tra i livelli di governo, oltre che utile al fine di includervi nuovi ambiti che attualmente sono del tutto ignorati dalla carta fondamentale dell’autonomia, come l’Europa, i rapporti internazionali o la cooperazione transfrontaliera.
La riforma statutaria appare difficilmente prorogabile anche per chiarire il ruolo della Regione e intervenire così su quel piano istituzionale finora rimasto ai margini del processo evolutivo dell’autonomia, e che tale processo non riflette ormai più. Tanto più che le modifiche apportate dalla l. cost. 2/2001 e dal nuovo titolo V parte II cost. impongono anche per il futuro l’esistenza della Regione come ente politico territoriale tradizionale. Lo si ricava dal nuovo art. 60 st., che preserva l’istituto della “legge regionale”, da cui si deduce che il legislatore della riforma abbia inteso mantenere la Regione come ente politico dotato di funzioni legislative ed amministrative e di organi propri, separati da quelli delle Province. Lo si vede anche dall’art. 49-bis c. 6, secondo cui “lo scioglimento del Consiglio provinciale non comporta lo scioglimento del Consiglio regionale”, e dalla mancata modifica dell’art. 36 st., che prevede l’elezione del Presidente della Regione da parte del Consiglio tra i suoi componenti, nonostante la convenzione politica ormai affermatasi che prevede la cd. “staffetta” tra i Presidenti delle Province alla guida della Giunta regionale24.
Se dunque il quadro risultante dalle riforme del 2001 è più oscuro e meno favorevole all’autonomia speciale di quanto fosse in precedenza, è pur vero che la fase sopra descritta di “autonomia dinamica” non è cessata, ed è anzi continuata come prima anche a seguito della riforma, attraverso l’approvazione di diverse (e spesso rilevanti) norme di attuazione che hanno contribuito ad incrementare l’autonomia speciale nonostante lo stallo sul versante legislativo ordinario25.
Tuttavia, la consapevolezza del naturale esaurimento di questa lunga fase caratterizzata dallo sviluppo dell’autonomia (ma anche delle norme specificamente relative ai diritti delle minoranze) quasi esclusivamente per mezzo di norme di attuazione, ha portato nell’ultimo anno alla proposta, da parte della Südtiroler Volkspartei, dell’apertura di un nuovo orizzonte, quello dell’autonomia “piena” (Vollautonomie). Questo obiettivo dovrebbe condurre all’attrazione alla Provincia autonoma di pressoché tutte le competenze residue dello Stato, e implicherebbe pertanto un profondo processo di riforma dello statuto.
4. Sviluppi paralleli: la dimensione transfrontaliera e la nuova prospettiva della collaborazione post-regionale
Nonostante il quadro istituzionale quasi immutato dal 1948 (con la parziale eccezione della riforma del 2001 in relazione alla direzione della legittimazione tra Regione e Province) e quello competenziale sviluppato dopo il 1972 attraverso la normativa di attuazione ben più che per mezzo della legislazione autonoma della Provincia, la situazione non ha mancato di evolvere in misura significativa.
Ciò è prevalentemente avvenuto, tuttavia, non attraverso lo strumento costituzionale principale (la revisione dello statuto), né, come si sarebbe potuto pensare, attraverso una proattiva attività legislativa del Consiglio provinciale26, ma tramite prassi politiche o evoluzioni normative esterne.
Un esempio delle prime è la ricordata convenzione, inauguratasi dopo la riforma statutaria del 2001, che prevede la cosiddetta “staffetta” alla presidenza della Regione: nonostante la Regione sia rimasta sotto il profilo istituzionale un ente politico esattamente uguale a quello del 1948 (anche se naturalmente con assai meno competenze e un peso politico nullo), il suo depotenziamento politico è passato soprattutto attraverso la decisione dei presidenti delle due Province autonome di alternarsi alla presidenza della Giunta regionale. Questa prassi, basata sul mero consenso degli organi politici (i due Presidenti e i due Consigli provinciali, e di conseguenza del Consiglio regionale da questi composto), ha contribuito in modo significativo a svuotare di peso politico la Regione, ma mancando di base normativa, potrebbe in ogni momento essere disattesa e riportare la Regione, sotto il profilo istituzionale, al punto del 1948, per quanto ciò sia politicamente assai improbabile.
Ancora più interessanti sono gli sviluppi occorsi a seguito di mutamenti esterni e di atti politici che solo in minima parte hanno avuto ricadute sul piano normativo provinciale. L’esempio più rilevante è rappresentato dalla cooperazione transfrontaliera e dai rapporti con l’Unione europea. Pur mancando qualsiasi menzione di entrambi gli aspetti nello statuto di autonomia, a partire dagli anni ’90 è iniziato un percorso, non privo di ostacoli (Pernthaler/Ortino 1996), volto a intensificare le relazioni politiche, ma anche giuridiche, sociali, economiche e in diversi settori come la formazione, i trasporti, l’assistenza sanitaria, ecc., a cavallo del confine del Brennero, agevolati anche dagli sviluppi del sistema comunitario che ha progressivamente facilitato i contatti tra le zone di confine, non ultimo attraverso l’eliminazione dei controlli alle frontiere con il trattato di Schengen.
Negli anni ’90 si tentò in particolare di giungere alla creazione di un ente transfrontaliero che coprisse l’area del Tirolo storico (Luverà 1996, Nick/Pallaver 1998), ma il progetto incontrò insormontabili ostacoli sia di natura politica, sia di ordine giuridico (Palermo/Woelk 2002). L’idea non fu allora abbandonata, ma perseguita con mezzi meno formali, come la partecipazione congiunta di Alto Adige, Tirolo e Trentino all’Expo di Hannover del 2000 tramite un Gruppo europeo di interesse economico, o tramite dichiarazioni politiche come il Manifesto delle Alpi del 2001.
Tuttavia, solo con l’entrata in vigore del Regolamento comunitario del 2006 che istituisce il Gruppo europeo di cooperazione territoriale (GECT)27 e con l’approvazione delle rispettive leggi nazionali in Italia (2009) e in Austria (2010), è stato possibile dare nuovo impulso al progetto di Euroregione a cavallo del Brennero (“Euroregione Tirolo-Alto Adige/Südtirol-Trentino”) attraverso la creazione del relativo GECT nel 2011.
Il GECT, pur non essendo un ente territoriale in senso classico28, lo è in senso funzionale, trattandosi di persona giuridica di diritto pubblico sia di diritto comunitario29 che di diritto interno30. Ai sensi della convenzione istitutiva e dello statuto del GECT Euroregione Tirolo-Alto Adige/Südtirol-Trentino, “compiti”, “obiettivi” e “progetti” (rispettivamente artt. 6, 5 e 7 della convenzione istitutiva), ossia i settori di intervento e dunque, per traslazione, le “competenze” dell’Euregio sono assai ampie, spaziando dalla formazione alla cultura, dall’energia alla viabilità sostenibile, dalla sanità alla ricerca, dall’economia all’ambiente alpino31.
Ciò significa in concreto che l’Euregio sarà titolare di molte competenze, più di quante ne abbia la Regione32, per quanto si tratti di competenze di natura diversa, non direttamente legislative ma di propulsione e coordinamento dell’attività dei tre enti territoriali partecipanti. Questo è stato reso possibile non già da modifiche statutarie o istituzionali, né dalla legislazione provinciale, ma semplicemente attraverso lo sviluppo del diritto europeo della collaborazione transfrontaliera, dalla legge nazionale33 e da atti dei soli esecutivi provinciali quali la convenzione e lo statuto del GECT.
Ciò conduce ad una duplice riflessione. Da un lato, sotto il profilo della fonte, la riforma forse più incisiva in merito alle forme di collaborazione sovraprovinciale – la creazione di un nuovo ente sovraprovinciale e transnazionale quale il GECT Euregio – è avvenuta senza passare attraverso alcuna riforma statutaria e senza l’intervento degli organi legislativi, e ciò pare emblematico dei nuovi modi di produzione del diritto nello spazio integrato europeo (Palermo 2011).
Dall’altro, le evoluzioni extra-statutarie ed extra-istituzionali degli ultimi anni segnano una riscoperta della dimensione collaborativa sovraprovinciale. Svuotata la Regione delle sue competenze e del suo significato politico, se ne è iniziato a rivalutare il ruolo di sede di concertazione tra due Province per molti aspetti troppo piccole e con molti tratti comuni, che devono necessariamente coordinarsi per attuare politiche sistemiche e di scala. Parallelamente, l’istituzionalizzazione dell’Euregio, per quanto largamente informale (ancor più della “nuova” Regione post 2001), ha aggiunto un nuovo, fondamentale livello di cooperazione per i settori che meglio si prestano ad una gestione congiunta.
A quarant’anni dalla realizzazione (parziale) del “Los von Trient” e dell’autonomia chiusa ed esclusiva, sembra insomma essersi inaugurata la fase del “mit Trient und mit Innsbruck”, quella dell’autonomia aperta ed inclusiva, capace di giocare contemporaneamente su più piani a seconda della materia e del contesto.
5. Osservazioni conclusive: il pendolo verso l’autonomia della maturità
Il pendolo di Foucault oscilla senza mai fermarsi a causa della rotazione terrestre, che fa però sì che non si tratti di un’oscillazione puramente orizzontale, tra due soli punti, ma di un’oscillazione rotatoria, che completa il giro nel corso di 24 ore. Per questo esso dà il titolo a un noto romanzo di Umberto Eco (1988), che inizia e finisce a Parigi, città che però nel frattempo, durante l’arco della vita del protagonista, è profondamente cambiata. È la stessa e non è più la stessa34.
L’immagine sembra rappresentare bene anche l’evoluzione dell’autonomia istituzionale tra dimensione provinciale e regionale: dalla centralità della Regione si è passati a quella delle Province, ma nella stessa cornice istituzionale. Nella fase attuale, l’oscillazione rotatoria sta riportando il pendolo verso una dimensione sovraprovinciale, che è tuttavia diversa da quella regionale originaria, e assume contorni più sfumati, dalla nuova cornice regionale largamente “de-istituzionalizzata” a quella, ancora in divenire ma dal grande potenziale, dell’Euregio.
Come si è osservato in questo scritto, sul piano giuridico questo passaggio è avvenuto quasi interamente al di fuori della cornice istituzionale posta dallo statuto – che è rimasta sostanzialmente invariata anche dopo il trasferimento delle competenze alle Province autonome di Bolzano e Trento – e senza un apporto significativo dei legislativi (in particolare di quello altoatesino). Piuttosto, esso si è realizzato attraverso norme di attuazione (che hanno attratto al livello provinciale sempre nuove competenze e irrobustito i diritti delle minoranze), convenzioni politiche (come l’alternanza alla presidenza della Regione), atti non vincolanti (come quelli che fino alla creazione del GECT hanno retto la cooperazione transfrontaliera), e norme prodotte da soggetti esterni alla Provincia (come il Regolamento comunitario istitutivo del GECT e la legge nazionale di attuazione).
Inoltre, in un’ottica storico-politica, non può mancare di notarsi come questa evoluzione extra-istituzionale sia stata possibile solo dopo una piena identificazione dell’intera popolazione dell’Alto Adige con l’autonomia e l’autogoverno, con l’avanzare di nuove generazioni cresciute nell’autonomia e libere dal “trauma” che la cesura del 1972 ha rappresentato: come “lutto” per larghe fette della popolazione di lingua italiana, “abbandonata” da Roma e da Trento, e come rivendicazione e rivincita per quella di lingua tedesca, finalmente “padrona in casa propria”. Non appare casuale che se la popolazione di lingua italiana sia ormai in massima parte convinta sostenitrice dell’autonomia speciale, in quella di lingua tedesca vada diffondendosi l’accettazione della natura multietnica del territorio provinciale, e la consapevolezza della impossibilità di fare riforme che non siano condivise dagli e con gli italiani.
Le evoluzioni qui sommariamente descritte sembrano dunque indicare l’inizio di una fase definibile come autonomia della maturità, in cui tutti i protagonisti hanno abbandonato l’estremismo delle posizioni “giovanili” per abbracciare un maggiore pragmatismo ideologicamente meno “puro”.
Resta tuttavia aperta la questione della razionalizzazione normativa di questo mutato quadro, perché se è vero che l’impressione di una nuova direzione del pendolo è stata possibile nel quadro dello statuto vigente, che ha quindi mostrato una buona capacità di tenuta e flessibilizzazione, è altrettanto vero che il quadro normativo attuale è caratterizzato da profonda disorganicità e mancanza di trasparenza. Il rischio, in questa situazione, è che l’eccesso di torsione della struttura statutaria, la de-statutarizzazione di molte materie, l’opacità del riparto delle competenze e lo sviluppo di sedi istituzionali flessibili portino ad un distacco eccessivo tra lo statuto e la realtà che esso è preordinato a disciplinare. Se così fosse, l’enorme potenziale di innovazione istituzionale accumulato in questi anni rischierebbe di svanire nella eccessiva discrezionalità della contingenza politica.
Note
1 La terminologia è ampiamente consolidata e corrisponde pienamente alla trasformazione sostanziale intervenuta: non vi può infatti essere alcun dubbio che con le modifiche del 1972 si sia trattato, nella sostanza, di un nuovo statuto. Tuttavia non può mancarsi di ricordare che un elemento significativo del difficile processo che ha condotto a questa trasformazione ha riguardato proprio la vicenda della continuità o discontinuità formale con lo statuto del 1948, giacché lo Stato italiano sosteneva di avere già adempiuto ai propri obblighi internazionali con il “primo” statuto, e di essere sì disposto a ulteriori “concessioni”, ma come scelta unilaterale e non per violazione degli obblighi internazionali nella vigenza del primo statuto. Per questo, sotto il profilo strettamente formale, la l. cost. 10 novembre 1971 n. 1 (poi confluita nel testo unico delle nuove disposizioni approvato con DPR 31 agosto 1972 n. 670 per ragioni di leggibilità e organicità del testo) è tecnicamente una revisione dello statuto del 1948 (l. cost. 26 febbraio 1948 n. 5) e non ne costituisce l’abrogazione e la sostituzione con un nuovo testo.
2 È il caso, in particolare, della parte relativa all’autonomia finanziaria dei livelli di governo, anch’essa, conseguentemente, passata dalla centralità regionale a quella provinciale (cfr. artt. 59-75 dello statuto del 1948 e artt. 69 ss. dello statuto del 1972 come successivamente modificati, dapprima con l. 30 novembre 1989 n. 386, e da ultimo con l. 23 dicembre 2009 n. 191 – legge finanziaria 2010 – che ha recepito il cd. “accordo di Milano” sui rapporti finanziari tra Stato, Province autonome di Trento e Bolzano e Regione autonoma Trentino-Alto Adige).
3 Cfr. n. 2.
4 Si pensi, ad esempio, alla proporzionale o alla scuola in lingua minoritaria: sono strumenti che servono esclusivamente agli appartenenti alla minoranza per contarsi e mantenere la propria identità e cultura distinte da quelle della maggioranza, o si tratta di strumenti che garantiscono la multietnicità e il plurilinguismo del territorio e sono dunque tendenzialmente “aperti” a tutti? Com’è noto, spesso confronti politici anche aspri (tra i gruppi e non solo) sono nati in Alto Adige a causa della lettura monolitica, nell’uno o nell’altro senso, degli istituti giuridici fondamentali del sistema. La questione ha riguardato, evidentemente, anche i rapporti tra le due Province: se per Bolzano ha tradizionalmente dominato la concezione “etnica” o “personale” dell’autonomia, per Trento, dove le minoranze linguistiche sono numericamente assai meno significative, l’autonomia è prima di tutto e soprattutto una pertinenza del “territorio”, dentro il quale, semmai, vive una popolazione non definibile in termini di maggioranze e minoranze, quanto piuttosto di una alterità complessiva rispetto alla popolazione italiana, alterità data non già dall’aspetto linguistico, quanto dall’appartenere ad una “comunità” storicamente diversa, per cultura e istituzioni, rispetto a quella nazionale.
5 L’art. 13 c. 1 dello statuto del 1948 stabiliva infatti il cd. principio del parallelismo delle competenze, per cui “nelle materie e nei limiti entro cui la Regione o la Provincia può emanare norme legislative, le relative potestà amministrative, che in base all’ordinamento preesistente erano attribuite allo Stato, sono esercitate rispettivamente dalla Regione e dalla Provincia”.
6 Cfr. n. 1.
7 Sulla più sfumata posizione dei ladini e della stessa popolazione di lingua italiana dell’Alto Adige si vedano i rispettivi contributi in questo volume.
8 Per una descrizione dettagliata delle modifiche introdotte con la l. cost. 1/1971 cfr. Postal 2011a, 62-89.
9 Va notato che non è cambiato neppure l’ordine di trattazione delle competenze (prima quelle regionali, poi quelle provinciali) né quello degli organi (prima quelli della Regione e poi quelli delle Province), e ciò neppure con la riforma del 2001 che pure, come si vedrà, ha invertito l’ordine di composizione degli organi.
10 Sulle complesse vicende del passaggio dal primo al secondo statuto di autonomia si vedano tra gli altri Reggio d’Aci 1994, 7, Pizzorusso 1975, 296 e, più recentemente Postal 2011a.
11 Altre disposizioni prevedevano per alcune materie l’adozione di norme di attuazione entro un termine ancora più breve, di un anno (es. artt. 108 c. 3 e 109 statuto).
12 Il riferimento è al d.lgs. 266/1992 che, superando la centralista legge Scelba del 1953, ha introdotto regole particolari in tema di adeguamento delle Province (e della Regione) alle norme di grande riforma economico-sociale dello Stato.
13 D.P.R. 426/1984. Cfr. La Brocca 2001.
14 Il termine si è rapidamente esteso dal linguaggio politico a quello giornalistico e anche accademico. Pur non risultando completamente teorizzata, l’espressione “autonomia dinamica” ricorre ora frequentemente anche nei testi ufficiali dell’amministrazione provinciale.
15 Ulteriori modifiche sono state apportate in materia di relazioni finanziarie, specie con l. 386/1989, su cui cfr. Pellegrini 2001.
16 In realtà si tratta di una distinzione solo teorica, giacché il collegamento funzionale tra le competenze è inscindibile, per cui in caso di contestazioni risulterebbe assai problematico scindere tra le competenze dotate di protezione internazionale e quelle che ne sono sprovviste.
17 Presuntivamente perché la giurisprudenza costituzionale nel decennio successivo all’entrata in vigore della riforma ha ampiamente limitato la portata di questo principio, ricostruendo la competenza statale attraverso clausole trasversali di accentramento dei poteri. Cfr. Belletti 2006.
18 Si pensi, tra le altre, alla legge statutaria n. 2/2003, a quella sulla forma di governo (l.p. 3/2006 con l’istituzione, ad esempio, delle Comunità di Valle), a quella sulle minoranze linguistiche (l.p. 6/2008). V. Postal 2011b e Parolari/Valdesalici 2011.
19 Per più approfondite analisi dei diversi istituti si rinvia ad altri contributi contenuti nel presente volume, oltre che alla letteratura citata in bibliografia.
20 Comprese, espressamente, quelle a statuto speciale. Recita infatti l’art. 10 l. cost. 3/2001: “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” (corsivo aggiunto).
21 Attualmente (gennaio 2012) non è ancora in vigore il solo statuto della Regione del Veneto, approvato tuttavia in prima deliberazione dal Consiglio regionale il 18 ottobre 2011. Tutti gli altri statuti sono perfezionati, in diversi casi a seguito di ricorsi governativi davanti alla Corte costituzionale. I testi e i rispettivi procedimenti di approvazione sono rinvenibili in http://www.astrid-online.it/i-nuovi-st/Statuti-ap/index.htm.
22 Tanto che in dottrina si è parlato opportunamente di “smaterializzazione delle materie”: Benelli 2006.
23 Tra i tanti esempi possibili si pensi alla competenza statale esclusiva in materia di “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e città metropolitane” (art. 117 c. 2 lett. p cost.), mentre spetta alla Regione Trentino-Alto Adige (in base all’art. 4 n. 3 st., come modificato con l’art. 6 l. cost. 2/1993) l’“ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni”. Oppure alla competenza concorrente in materia di istruzione (art. 117 c. 3 cost.), che potrebbe porsi in contrasto con le competenze provinciali in materia come disciplinate dalle norme di attuazione del 1996 (d.lgs. 433/1996 e 434/1996). Inoltre, non è chiara nemmeno la delimitazione della portata della competenza concorrente, che potrebbe ritenersi di due tipologie diverse: quella prevista dalla costituzione riserva allo Stato la determinazione dei principi fondamentali, quella disciplinata dallo statuto parla di principi tout court, né è dato di sapere se le competenze concorrenti possano esercitarsi in mancanza della legge statale di determinazione dei principi fondamentali.
24 Lo statuto di autonomia prevede (art. 36 c. 2) che “il Presidente [della Giunta regionale], i vice Presidenti e gli assessori sono eletti dal Consiglio regionale nel suo seno a scrutinio segreto ed a maggioranza assoluta”. A partire dal 2003, i Presidenti delle due Province si alternano alla presidenza della Regione attraverso una crisi di governo pilotata e gestita in via convenzionale, che porta alle dimissioni del Presidente in carica e alla sua sostituzione col Presidente dell’altra Provincia.
25 Tra il 2001 e il 2011 sono state approvate 39 norme di attuazione, anche in settori assai importanti come la modifica della dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico (d.lgs. 99/2005), la riforma dei poteri di controllo della Corte dei Conti (d.lgs. 166/2011), le modifiche in tema di uso della lingua nei processi (d.lgs. 124/2005), la competenza sui conservatori di musica e gli istituti musicali (d.lgs. 245/2006), l’energia (d.lgs. 289/2006), l’equipollenza dei certificati di bilinguismo (d.lgs. 86/2010), ecc.
26 A titolo di esempio va ricordato che il Consiglio provinciale, nell’ultima legislatura (XIII, 2003-2008) ha approvato 65 leggi, meno di 12 all’anno, molte delle quali prevalentemente tecniche o di adeguamento di leggi esistenti. Salvi pochi casi, l’attività legislativa del Consiglio è dunque quantitativamente e qualitativamente ridotta. Ciò non significa di per sé inefficienza dell’organo (quella legislativa è solo una delle funzioni del Consiglio, e non necessariamente quella prevalente), ma indica certo la crisi dello strumento legislativo provinciale.
27 Reg. (CE) 1082/2006, su cui v. Eisendle 2011.
28 Ai sensi della costituzione questi sono solo Comuni, Province, Città metropolitane, e Regioni, oltre allo Stato.
29 Il GECT è uno degli “organismi” dell’Unione ai sensi dell’art. 298 c. 1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
30 Cfr. art. 1 c. 3 e 4 Reg. 1082/2006. In primis dello Stato in cui esso ha sede, ma almeno indirettamente anche degli altri Stati partecipanti. Cfr. Cortese 2011.
31 Cfr. in part. art. 5 convenzione istitutiva GECT Euregio.
32 Lo si evince da un semplice confronto tra i cataloghi delle competenze della Regione autonoma Trentino-Alto Adige (artt. 4-6 statuto, molte delle quali tra l’altro nel frattempo sono state trasferite alle Province) e dell’Euregio (artt. 5-7 della convenzione e dello statuto del GECT).
33 Peraltro approvata senza un reale dibattito parlamentare, in quanto il Regolamento GECT è stato attuato dalla legge comunitaria, che raccoglie e attua tutta la normativa comunitaria dell’anno (legge comunitaria 2009, l. 88/2009).
34 È nota un’altra metafora che proviene dalla filosofia greca, quella di Eraclito, che ricordava “non ti bagnerai due volte nell’acqua dello stesso fiume”, perché il fiume è lo stesso, ma non è mai la stessa acqua perché tutto scorre.
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Abstracts
Region, Provinzen oder vielleicht neue Region?
Das institutionelle Foucault’sche Pendel der Autonomie
Der Aufsatz befasst sich mit den institutionellen Entwicklungen der Südtiroler Autonomie seit 1948, mit besonderer Berücksichtigung der Beziehungen zwischen Südtirol (dem Trentino) und der Region. Vor allem werden die Änderungen aus den Jahren 1972 und 2001, im Hinblick auf ihre institutionellen Folgen analysiert. Diese sind zwar in vielerlei Hinsicht sehr relevant gewesen, nicht jedoch in institutioneller Perspektive, da die Struktur formell noch sehr ähnlich aussieht wie im Jahre 1948. Es wird schließlich betont, wie die jüngsten Entwicklungen in Sachen grenzüberschreitender Zusammenarbeit und flexibler Handhabung der Region eine neue Phase der institutionellen Kooperation eingeleitet haben.
La Regiun, les Provinzies y poester na Regiun nöia?
Le parpanticul de Foucault istituzional dl’autonomia
L’articul tol en conscidraziun i svilups istituzionai dl’autonomia de Südtirol dal 1948 incà, tignon particolarmënter cunt dles relaziuns danter Südtirol, le Trentin y la Regiun. Dantadöt vëgnel analisé les mudaziuns di agn 1972 y 2001, ćiaran dantadöt a sües conseguënzes istituzionales, che é stades relevantes da n gröm de punć d’odüda, mo nia dal punt d’odöda dl’istituziun instëssa, dal momënt che la strotöra ti somëia formalmënter ćiamò bindebò avisa a chëra dl 1948. Ala fin vëgnel ćiamò sotligné sciöche i ultims svilups en cunt de colaboraziun sura i confins fora y de comportamënt flessibl dla regiun à inaudè na fasa nöia de cooperaziun istituzionala.
Region, Province, and Perhaps New Region? The Institutional Focault’s Pendulum of Autonomy
This article explores the evolution of South Tyrolean autonomy from its first inception in 1948 up until the present day. It focuses, in particular, on the institutional relationship between the region and the autonomous province(s), showing that the changes have been significant but almost entirely ignoring the institutional structure, which has remained largely unaffected. The article t is argued that more recent developments, particularly with regard to cross-border cooperation, show the rediscovery of cooperation within the regional context and in the wider Euro-regional space.