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Pier Vincenzo Uleri

Referendum comunali in Italia:
la “partecipazione” che non piace.

Introduzione elementare a forme ed esperienze

“Il referendum ha in sé stesso una grande

potenza educativa della vita pubblica,

perché avvezza i cittadini ad occuparsi

delle cose anziché delle persone”

(Giovanni Giolitti)1

1. Introduzione

Questo articolo è inteso come un’introduzione elementare allo studio del fenomeno referendario in ambito locale e più specificamente comunale. L’approccio è di tipo empirico, in prevalenza descrittivo; la prospettiva analitica, per uno studio più ampio­ e approfondito, è quella propria della scienza politica. Ometto necessariamente i principali elementi costitutivi di un’analisi comparata: a) riferimenti sistematici agli istituti e alle esperienze referendarie di altri sistemi politici; b) classificazione e denominazione degli istituti referendari negli statuti comunali; c) interazione tra esperienze di referendum nazionali, regionali e comunali intese come componenti di un unico processo di istituzionalizzazione del fenomeno referendario nella democrazia italiana2. I riferimenti a casi specifici hanno valore meramente esemplificativo. Il quadro di riferimento giuridico-istituzionale è appena accennato, così come i riferimenti alla bibliografia (ricca, come sempre, quella giuridica, assai scarsa, se non assente, come sempre, quella più propriamente politologica di lingua italiana).

2. Le origini dei “referendum” comunali in epoca liberale

Agli inizi del XX secolo, le prospettive per l’istituzione del referendum comunale o “amministrativo” apparivano sufficientemente promettenti. Negli ultimi tre decenni del XIX secolo, infatti, ipotesi e proposte di adozione di una o più forme di referendum amministrativo erano state presentate e discusse in parlamento, specie nell’ambito dei dibattiti sulla riforma della legge sulle autonomie locali. Alcuni studiosi e qualche politico osservavano con interesse le esperienze svizzere (Basile 1992; 1994). Nei programmi di alcuni partiti politici era frequente la richiesta di adozione di istituti referendari. Di quella richiesta si fece interprete anche il movimento municipalista organizzato attorno all’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI). Un tema centrale di quella stagione del municipalismo italiano, ma anche di altri paesi, riguardava l’istituzione di aziende municipalizzate per assicu­rare una serie di servizi pubblici ai cittadini (Gaspari 1998, 83). I dibattiti politici sulle varie forme di referendum amministrativo erano un tema importante del confronto tra le componenti del movimento dei sindaci di diversa matrice politica (socialisti, radicali, liberali, popolari). La questione era considerata così importante che l’ANCI decise di indire, assieme alle organizzazioni sindacali, un comizio nazionale a Milano (28 giugno 1903) per chiedere il referendum amministrativo e lo sgravio delle spese statali (Gaspari 1998, 108-111). Tra le ipotesi di refe­rendum amministrativo vi era anche quella del referendum obbligatorio in tema di tributi.

La legge Giolitti sulle municipalizzazioni (legge n. 103 del 1903, art. 13) istituiva la prima forma di referendum prevista per legge in Italia: il referendum obbligatorio per la ratifica delle delibere dei consigli comunali in materia di servizi pubblici municipalizzati. Nei primi due decenni del XX secolo, un’esperienza assai significativa fu proprio quella dei referendum comunali obbligatori per la ratifica o meno di quelle delibere che davano vita ad aziende municipalizzate. Tra il 1904 e il 1914 in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro, furono indetti decine e decine di referendum comunali obbligatori. I referendum ebbero luogo in comuni di medie e grandi dimensioni: Padova, Pavia, Verona, Udine, Venezia, Parma, Reggio Emilia e Milano, Torino, Genova, Roma, Palermo e altri ancora. Le aziende mu­nicipalizzate oggetto delle votazioni popolari riguardavano la costruzione di: tramvie elettriche, impianti termoelettrici, idroelettrici e acquedotti, officine per illuminazione pubblica a gas o elettrica, la costruzione di case popolari, l’apertura di farmacie comunali e altro ancora3. Di esperienze altrettanto significative non vi è traccia, a nostra conoscenza, in altre democrazie dell’epoca, escluse naturalmente Svizzera e Stati Usa (Guiglia/Knapp 2000). Lo scoppio della Grande Guerra, i conflitti politici negli anni immediatamente successivi alla sua conclusione, la crisi e il crollo del regime liberal-democratico e, infine, l’avvento della dittatura fascista, posero fine a quell’esperienza di partecipazione e decisione democratica nei comuni italiani.

3. Democrazia repubblicana e istituti referendari

In tema di istituti referendari, in prospettiva comparata, la Costituzione repubblicana del 1948 si configura come “un caso deviante”. Nel senso che, a differenza di quanto stabilito in molte Costituzioni liberal-democratiche europee e non, nelle democrazie di più antico e stabile consolidamento così come in quelle francese e tedesca approvate tra il 1945 e il 1949, la Costituzione italiana prevede la presenza di istituti referendari attivabili mediante richieste sottoscritte da cittadini-elettori per referendum nazionali su leggi ordinarie (art. 75) e costituzionali (art. 138) e referendum regionali (art. 123). La Costituzione, invece, non prevede espressamente il principio del referendum su provvedimenti dell’amministrazione comunale.

A partire dagli anni Settanta del XX secolo (dopo l’approvazione della legge n. 352 del 25 maggio 1970), fino al primo decennio del XXI secolo, i referendum abrogativi sono stati un elemento importante della vita politica nazionale italiana (Barbera/Morrone, 2003). Raffrontata con quelle di molte altre democrazie europee, l’esperienza referendaria italiana è una delle più importanti: sia per il numero dei quesiti promossi e di quelli votati, sia per la varietà delle questioni sottoposte agli elettori (Gallagher/Uleri 1996). Si tratta di un’esperienza per alcuni aspetti anche molto controversa: una serie di elementi fanno sì che la qualità delle regole e delle modalità effettive di svolgimento del “gioco referendario” lasci molto a desiderare (Barbera/Morrone 2003). Un elemento che caratterizza l’esperienza referendaria italiana è costituito dal diverso grado di istituzionalizzazione tra la dimensione nazionale e quelle regionale e comunale.

La Costituzione della democrazia repubblicana, dunque, prevede in forma esplicita istituti referendari su questioni di rilievo nazionale e regionale ma non su materie e atti che rientrano nelle competenze attribuite alle amministrazioni comunali. Eppure, in sede di dibattiti all’Assemblea Costituente, non erano mancate le proposte volte a sancire, anche nei Comuni, così come nelle Regioni, “l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum”.

Favorevole in generale all’istituto referendario, il costituente Giovanni Uberti, democratico cristiano, esponente dell’Azione cattolica veronese, aveva proposto con determinazione l’adozione del referendum non solo nazionale e regionale ma anche comunale. Uberti sosteneva:

“l’opportunità di affermare nella maniera più ampia possibile il referendum comunale, stabilendo che quando una deliberazione dell’Amministrazione superi un limite determinato di spesa, si debba, in sostituzione del controllo di merito, ricorrere al referendum. Vorrebbe inoltre che l’impiego del referendum nei riguardi degli statuti regionali, …, fosse esteso ad altre questioni quali l’assunzione diretta dei pubblici servizi, la contrazione di prestiti non destinati alla conversione di debiti precedenti, l’esecuzione di una grande opera pubblica, la costituzione di un consorzio comunale, ecc.. Non escluderebbe inoltre il referendum per le leggi riguardanti i Comuni, perché in materia di finanza locale sarebbe utile ricorrere a questo istituto come forma di controllo diretto da parte della popolazione” (Assemblea Costituente, seduta del 17 gennaio 1947, resoconto).

Tuttavia, le proposte in tema di referendum comunali, quella di Uberti e quelle di altri costituenti, non ebbero successo. Nella Costituzione democratica, manca quindi una norma che sancisca il principio e l’istituto del referendum comunale come strumento di partecipazione e decisione dei cittadini alla vita dell’amministrazione. Eppure proprio la dimensione dell’amministrazione comunale, anche secondo alcuni tra i critici più intransigenti degli istituti referendari, sarebbe quella più adatta per fare esprimere ai cittadini un voto su questioni specifiche.

In un numero monografico della rivista “Amministrare” (1999) dedicato a “La democrazia diretta locale in Svizzera e in California”, Ettore Rotelli osservava:

“Tramonta il XX secolo senza che il referendum deliberativo comunale sia posto in Italia all’ordine del giorno della riforma dell’ordinamento locale. Eppure è in causa il ruolo rispettivo della democrazia diretta e rappresentativa nel governo delle città” (Rotelli 1999, 297-309)4.

Agli inizi del XXI secolo uno dei temi dell’agenda politica italiana è stato quello della riforma “dei servizi pubblici locali”, eredi moderni delle aziende municipalizzate, che si configurano secondo alcuni come un sistema di “capitalismo pubblico locale5. La riforma della legge sul controllo e la gestione dei servizi pubblici locali (secondo le direttive dell’Unione europea in tema di concorrenza) riguarda una fetta importante del potere politico ed economico. Una molteplicità di interessi consolidati si oppongono alla possibilità di attuare un’ampia ed effettiva liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Intervenendo sulla questione, il sindaco di Bologna Sergio Cofferati scriveva: “perché non si ha il coraggio di parlare di liberalizzazioni vere, quelle in cui è il cittadino che sceglie tra più offerte del servizio?6.

Una modalità di scelta effettiva dei cittadini potrebbe essere resa possibile dal voto referendario. È possibile registrare qualche caso di consultazioni di quel genere. Un referendum “consultivo – abrogativo” si è svolto il 28 settembre 2008 nel Comune di Carpi (provincia di Modena) su una delibera comunale in materia di parziale privatizzazione dell’azienda di servizi pubblici locali Aimag spa. Il quorum dei votanti non è stato raggiunto perché alle urne si sono recati il 21.2 per cento degli iscritti: i voti Sì sono stati pari al 59 per cento, i voti No il 41 per cento. Alle elezioni comunali del 2004 i votanti erano l’82,5 per cento e per le comunali del 2009 il 78,9 per cento.

4. I referendum comunali: un’istituzionalizzazione ritardata,
incerta e debole

Rispetto all’esperienza dei referendum nazionali, nei Comuni e nelle Regioni, l’avvio del processo di istituzionalizzazione del fenomeno referendario si è manifestato più tardi, in maniera più incerta e difficile, con maggiori ostacoli. Fino alla fine degli anni Novanta del XX secolo, la limitata diffusione del fenomeno referendario nei Comuni e nelle Regioni è stata un fatto tanto più emblematico e problematico, specie se consideriamo i processi politico-istituzionali che hanno caratterizzato la politica italiana degli ultimi quattro decenni (1968–2008). In quegli anni, infatti, una diecina di leggi, costituzionali e ordinarie, hanno in qualche misura modificato i rapporti tra Stato, Regioni e il così detto “sistema delle autonomie locali”. Un processo di trasformazione politico-istituzionale ha investito l’assetto unitario e centralistico del sistema politico italiano7.

La revisione del Titolo V della Costituzione, approvata nel referendum costituzionale del 2001 (Legge costituzionale n. 3, 2001) e la revisione costituzionale, respinta nel referendum costituzionale del 2006, sono state fin qui le tappe cruciali di quel processo. Il nuovo articolo 114 della Costituzione, il primo del Titolo V, è in qualche misura emblematico di quel processo non ancora concluso, quantomeno come riscrittura della Costituzione. Gli articoli 123, 132 e 133, anch’essi parte del Titolo V, prevedono forme diverse di referendum. Rispetto al testo originale del 1948, gli articoli 123 e 132 sono stati modificati, l’articolo 133, invece, è rimasto immutato.

Con riferimento agli statuti delle Regioni, l’articolo 123 stabilisce, al comma primo, che:

“… Lo statuto regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione …”

e, al comma terzo, che:

“Lo statuto è sottoposto a referendum popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale”.

L’articolo 132 prevede il ricorso al referendum per:

“la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni – oppure per – consentire che Province e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra”.

L’articolo 133, infine, prevede che:

“La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni”.

In termini alquanto sommari, potremmo dire che gli articoli 132 e 133 istituiscono una sorta di “referendum locale su questioni territoriali”.

5. Il problema

Il processo di trasformazione politico-istituzionale della Repubblica ha già favorito e favorirà ancor più l’istituzionalizzazione e la diffusione del fenomeno referendario nei Comuni, nelle Regioni e nelle Città metropolitane (se e quando saranno approvate)?

Statuti comunali e regionali prevedono, in misura più o meno estesa, forme di “partecipazione” e di c.d. “democrazia deliberativa”. Politici e amministratori che operano nelle Regioni e nei Comuni mostrano apertura e interesse prevalente per nuove forme di partecipazione da loro stessi guidate, controllate e finanziate con risorse previste nei bilanci di loro competenza. Si tratta di forme di partecipazione che sembrano maggiormente volte a prevenire il dissenso e precostituire e incentivare il consenso dei governati (soprattutto da parte di gruppi di interesse, di così dette “organizzazioni e formazioni sociali”, di associazioni e gruppi specifici cittadini) alle decisioni dei governanti. Nei confronti degli istituti referendari permangono, invece, negli attori delle istituzioni di governo regionale e dell’amministrazione comunale, atteggiamenti di antica e “comprensibile” diffidenza già mostrati nell’esperienza statale e regionale. Politici e amministratori regionali e comunali, specie se di maggioranza, probabilmente percepiscono le consultazioni referendarie come strumenti di partecipazione e di decisione più difficili da controllare; strumenti maggiormente funzionali all’espressione di dissenso, di opposizione e delegittimazione della loro azione di governo.

Ciononostante, negli ultimi anni, sia pure in misura limitata, possiamo individuare processi di lenta e difficile istituzionalizzazione del principio e degli istituti referendari nei Comuni e nelle Regioni. Le forme e l’esperienza referendaria nazionale, in particolare il referendum abrogativo previsto dall’art. 75, hanno influenzato e condizionato in maniera e misura significativa la diffusione del fenomeno nelle Regioni e nei Comuni. L’art. 75 della Costituzione e la legge n. 352 del 25 maggio 1970 sono stati una sorta di modello di riferimento per l’attuazione delle forme referendarie nelle Regioni e nei Comuni, soprattutto per tutti quegli elementi che limitano l’effettività del voto referendario, in primo luogo la previsione del quorum di votanti per la validità del voto stesso (Biagi Guerrini, 1978).

Mentre il primo decennio del XXI secolo è già trascorso, possiamo osservare una lenta e disordinata (o forse tale solo in apparenza) diffusione del fenomeno referendario nelle Regioni e nei Comuni italiani. È un fenomeno ancora incerto e di cui poco o niente sappiamo in termini di sistematica analisi empirica o di studi del caso8.

6. Gli istituti referendari nella legge sulle autonomie locali
(L. n. 142, 1990)

I processi di riforma politico-istituzionale degli anni Novanta hanno investito anche la vita politico-amministrativa dei Comuni. La riforma generale dell’ordinamento delle autonomie locali, prevista dalla legge n. 142 del 1990, è stata la prima di una serie di importanti leggi di riforma della politica delle autonomie locali. Un passaggio importante è costituito dall’approvazione della legge, anch’essa già menzionata, sull’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Province (l. n. 81, 25 marzo 1993). Sia la legge del 1990 che il Testo unico del 2000, di cui dirò nel paragrafo successivo, prevedono l’istituto del referendum su questioni di competenza delle amministrazioni comunali. In entrambi i casi si tratta di una previsione formulata in termini alquanto generici; c’è tuttavia una differenza che merita di essere sottolineata.

Due commi dell’articolo 6 della legge del 1990 (commi 3° e 4°) prevedevano la possibilità, non l’obbligo, che gli Statuti comunali adottassero forme di “referendum consultivi”. Il terzo comma terminava con queste parole: “Possono essere previsti referendum consultivi anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini”9. Il comma quarto precisava che: a) oggetto delle votazioni referendarie devono essere “materie di esclusiva competenza locale”; b) i referendum “non possono avere luogo in coincidenza con altre operazioni di voto”. La lettura completa dell’articolo 6 e dei due commi menzionati mostra come l’istituto referendario sia considerato una forma di partecipazione del tutto secondaria rispetto ad altre. Infatti, con riferimento agli Statuti comunali, il terzo comma comincia con queste parole:

Nello statuto devono essere previste forme di consultazione della popolazione nonché procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi e devono essere altresì determinate le garanzie per il loro tempestivo esame.”10

Il comma prosegue con la parte dedicata, nei termini appena sopra menzionata, al referendum consultivo. È facile percepire il differente peso politico attribuito dal legislatore alle “forme di consultazione della popolazione” rispetto ai “referendum consultivi”11.

Durante i lavori parlamentari che portarono all’approvazione della legge n. 142 del 1990, per favorire nelle autonomie locali una presenza più ampia e politicamente significativa di vari tipi di istituti referendari (abrogativo, propositivo etc.) erano stati presentati sia progetti generali sia emendamenti al testo del relatore. Il relatore del provvedimento, il Senatore Giuseppe Guzzetti (Dc), si oppose all’adozione di forme di referendum diverse da quello consultivo affermando che:

“vi sarebbe la possibilità attraverso i referendum abrogativi o propositivi, di vincolare o di disfare l’attività che gli organi degli enti locali compiono attraverso l’attività amministrativa”12.

Affermazione invero abbastanza sorprendente. A cosa dovrebbero servire le votazioni referendarie se non a esercitare un controllo effettivo sull’azione degli amministratori? Inoltre con quali argomenti e con quale logica possiamo escludere dagli Statuti comunali il referendum abrogativo previsto invece nella Costituzione statale e negli Statuti regionali? Una spiegazione realistica è quella proposta da Alfonso Di Giovine secondo il quale l’art. 6:

“ha il significato di dare un più solido fondamento legale e una più restrittiva conformazione a una “spontanea” e vivace prassi precedente” (Di Giovine 1992, 15213).

Alla prova dei fatti il “fondamento legale” è stato poco solido mentre la “più restrittiva conformazione” è stata effettivamente tale. Secondo Luciano Vandelli, le forme di partecipazione dei cittadini alla vita amministrativa locale hanno avuto:

“sviluppi limitati, e talora deludenti. Il discorso vale particolarmente per il referendum che … ha finito per essere utilizzato in pochissimi casi, registrando comunque percentuali di astensioni assai elevate” (Vandelli 20052, 71)14.

Tra la fine degli anni Settanta e poi soprattutto negli anni Ottanta, si erano svolti o erano stati richiesti alcune diecine di referendum comunali. Un ristretto numero di consultazioni referendarie erano state indette in comuni nei quali era previsto l’insediamento o la trasformazione di centrali per la produzione di energia elettrica; in alcuni casi si trattava di centrali di tipo nucleare (Avetrana: 1982; Viadana: 1984; Casale Monferrato – Trino Vercellese: 1985), in altri casi di centrali alimentate a carbone (Tavazzano: primi anni Ottanta; Muggia: 1985). Richieste di referendum su centrali elettriche a carbone erano state promosse a Piombino e Ravenna. A Cervignano del Friuli un referendum aveva avuto per oggetto la costruzione di uno scalo ferroviario (1980). Referendum per la chiusura del centro della città al traffico automobilistico privato avevano avuto luogo a Bologna (1984), Lecco, Livorno e Milano (tutti nel 1985). Sullo stessa questione vi erano state richieste in alcune altre città (Genova, Roma, Trento, Varese, Viterbo) (Uleri 1986). In qualche comune, Firenze fu probabilmente il primo, erano stati approvati regolamenti per lo svolgimento di referendum consultivi (Basile 1988). I comitati promotori delle richieste di referendum erano in genere costituiti da aderenti a gruppi locali delle liste Verdi (che si andavano organizzando proprio in quegli anni), da associazioni di Lega Ambiente, da gruppi ecologisti locali, in qualche caso anche Wwf, Italia Nostra, federazioni e sezioni locali di Democrazia proletaria; in qualche caso associazioni locali di aderenti al Partito radicale, come per il referendum di Avetrana sulla centrale nucleare (Uleri 1986, 68 e ss.).

7. Gli istituti referendari negli Statuti comunali dopo l’approvazione del Testo Unico sull’ordinamento delle autonomie comunali

Le due sopramenzionate leggi del 1990 e del 1993, e altre approvate negli anni successivi, sono confluite nel Testo unico delle leggi sull’ordinamento delle autonomie comunali (decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267). In tema di referendum, il Testo unico mantiene l’impostazione della legge 142 sopra menzionata (articolo 8, comma 3°). Rispetto ad altre forme di partecipazione, che devono essere obbligatoriamente previste, gli istituti referendari sono relegati ancora in posizione secondaria. Gli Statuti comunali, infatti, possono prevedere “referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini”. In compenso non si precisa più che si tratta di “referendum esclusivamente consultivi”.

Gli Statuti comunali, quindi, possono prevedere più tipi di referendum, quali ad esempio quelli “abrogativi o propositivi” che erano stati di fatto esclusi dieci anni prima. Rotelli riteneva che la possibilità di prevedere negli statuti comunali una pluralità di tipi di referendum era solo “una facoltà delle quali difficilmente essi [i Consigli comunali, n.d.r.] si avvarranno” (Rotelli 1999, 308). Sempre l’articolo 8, comma 4°, conferma il limite (che era già nella l. 142 del 1990) di “materie di esclusiva competenza locale” e il divieto di indire votazioni referendarie “in coincidenza con operazioni elettorali provinciali, comunali e circoscrizionali”. Occorre sottolineare come, a differenza di quanto stabilito dalla legge 142, ora i referendum comunali possano essere indetti in concomitanza di elezioni regionali, nazionali o europee. Un aspetto importante se si considera che spesso anche per i referendum comunali, compresi quelli consultivi, vale la regola di un quorum di votanti pari al 50 per cento più uno degli aventi diritto. Lo svolgimento di referendum comunali nella stessa data di elezioni regionali potrebbe facilitare il raggiungimento del quorum prescritto.

Sono numerosi gli interrogativi cui non è possibile rispondere in maniera sistematica in questa sede. In primo luogo se gli Statuti comunali, dopo l’approvazione del Testo unico, hanno previsto l’adozione di ulteriori tipi di referendum rispetto al “referendum consultivo” previsto dalla legge 142 del 1990. È certo che in alcuni statuti comunali di città Capoluogo di Regione o di Provincia sono presenti forme referendarie denominate “referendum abrogativo” e/o “referendum propositivo”15, mentre negli Statuti di altre città è previsto solo il referendum consultivo16. Qualche Statuto prevede altri tipi non meno interessanti di referendum come quelli per la revisione degli Statuti comunali17. L’identificazione di diversi tipi di referendum non è sempre immediata e i testi degli Statuti non sono sempre impeccabili sotto il profilo lessicale.

A titolo puramente esemplificativo possiamo menzionare lo Statuto del Comune di Aosta che, in maniera ordinata e precisa, dedica uno specifico articolo per ciascun tipo di referendum adottato: art. 30 – Referendum abrogativo; art. 31 – Referendum propositivo; art. 32 – Referendum consultivo. Altri Statuti, invece, accomunano in un medesimo articolo, in maniera alquanto approssimativa, due o più tipi di referendum. Ad esempio l’art. 64 dello Statuto di Reggio Emilia recita:

“È indetto referendum consultivo o propositivo su materie di esclusiva competenza locale e di interesse generale della collettività comunale quando lo richiedano almeno il 4 per cento delle elettrici e degli elettori o un terzo dei Consigli circoscrizionali o il Consiglio comunale”.

Lo Statuto del comune di Milano (adottato in data 9 giugno 2003), che in tema di referendum non contiene modifiche rilevanti rispetto al precedente Statuto, non è un esempio di chiarezza, a partire dai nomi impiegati per individuare forme diverse di “referendum consultivo”. L’articolo 10, primo comma, prevede che 5.000 cittadini “esercitano l’iniziativa popolare mediante la proposta di uno schema di deliberazione …”; il secondo e ultimo comma stabilisce che: “Sulle proposte di iniziativa popolare l’organo competente delibera entro il termine fissato dal regolamento”. L’art. 11 intitolato “Referendum di proposta popolare e di indirizzo” prevede che l’1,5 per cento di elettori del Comune possono richiedere un referendum consultivo su una “iniziativa popolare” se essa non è stata “approvata dall’organo competente”. La stessa percentuale di elettori può richiedere un “referendum consultivo di indirizzo su orientamenti o scelte di competenza del Comune, o riguardo ai quali il Comune possa esprimere una proposta o un parere”. Il voto è valido se partecipa almeno il 30 per cento degli elettori (art. 14). Queste due procedure referendarie possono essere attivate anche da Consiglieri di Zona. L’art. 12 intitolato “Referendum di consultazione successiva” prevede che il 3 per cento di elettori del Comune o un certo numero di Consigli di Zona possano richiedere un “referendum consultivo sulle proposte di revoca di deliberazioni del Consiglio e … di deliberazioni della Giunta …”. Il voto è valido se partecipa almeno il 40 per cento degli elettori (art. 14). Il secondo comma dell’articolo 12 elenca nove distinte materie che non possono essere oggetto di votazioni referendarie: lo Statuto del Comune, il bilancio preventivo e il conto consuntivo; provvedimenti concernenti: tariffe o tributi, assunzioni di mutui o l’emissione di prestiti, il personale del Comune e così via.

Alberto Zucchetti, analizzando un campione di Statuti comunali italiani approvati dopo la legge del 1990, aveva stilato un elenco di diciannove distinte materie (Zucchetti 1992, 171-2). Una materia di particolare interesse che viene indicata tra quelle sottratte è quella che riguarda “i piani territoriali e urbanistici”, la loro attuazione e le eventuali variazioni; si tratta di un tema di particolare importanza per il governo del territorio e per la difesa dell’ambiente.

8. Esperienze referendarie nei Comuni

Dalle informazioni raccolte tramite internet, le consultazioni referendarie nei Comuni ammontano ad alcune centinaia. Si tratta di un’esperienza assai composita e variegata di cui non è possibile fornire un quadro sintetico e un’analisi esaustiva. Non disponiamo di un archivio nazionale che dia conto sia delle consultazioni effettivamente svolte sia di quelle proposte ma giudicate non ammissibili o comunque non votate per altri motivi. La raccolta di informazioni e documentazione sui singoli casi è un lavoro proibitivo in assenza di mezzi e risorse adeguate.

Sulla base delle informazioni e della documentazione che ho potuto raccogliere non vi è dubbio che nel primo decennio del XXI secolo il ricorso a votazioni referendarie ha mostrato una significativa diffusione nei Comuni italiani. Vi è naturalmente una grande varietà di questioni sottoposte o che si vorrebbe sottoporre al voto degli elettori in Comuni di tutte le dimensioni, dai più piccoli fino ai più grandi. Non di rado per indire le consultazioni referendarie i comuni hanno dovuto approvare ex-novo i regolamenti necessari allo svolgimento delle votazioni (regolamenti che spesso arrivano a distanza di anni dall’approvazione dello Statuto comunale). Si tratta di regolamenti che mostrano non di rado lacune e inadeguatezze frutto di una cultura istituzionale e politica che sconta la sua inesperienza in fatto di procedure e votazioni referendarie affrontate, non di rado, con fastidio da politici e amministratori locali.

Un certo numero di richieste volte a promuovere un voto referendario non giungono al voto perché le questioni oggetto delle richieste vengono giudicate non ammissibili in base sia all’elenco delle materie che gli Statuti comunali sottraggono al voto referendario sia all’interpretazione più o meno discrezionale di quell’elenco. Larga parte dei referendum votati sono dichiarati nulli perché è assai raro che la partecipazione al voto superi il quorum dei votanti così come previsto, spesso, negli Statuti. Gli attori contrari all’obbiettivo dei fautori del referendum in genere si astengono da fare una campagna di mobilitazione al voto o più apertamente invitano gli elettori ad astenersi. Per molteplici ragioni l’obiettivo di rendere nulla la consultazione facendo mancare il quorum dei votanti è ancora più facile di quanto non avvenga nei referendum nazionali. Basti ricordare che in genere la partecipazione al voto nelle elezioni comunali e regionali è più bassa rispetto a quella per le elezioni e che è certamente inferiore la quantità di informazione disponibile.

Spesso le votazioni sono richieste per contrastare e bloccare decisioni prese dalle amministrazioni comunali. Così è stato, ad esempio, in un importante referendum consultivo svoltosi a Firenze nel febbraio del 2008. L’intento dei promotori era quello di bloccare la costruzione di due importanti linee di tramvia parte di un progetto che prevede tre linee, di cui la prima già in fase di realizzazione quando la consultazione ebbe luogo18. Gli elettori si sono espressi su due quesiti relativi ciascuno a una linea; il secondo quesito era assai più lungo del primo19. Una questione particolarmente controversa era se consentire o meno il passaggio di una linea nella Piazza del Duomo dove per decenni sono passati centinaia di autobus. Per anni una fermata di autobus proprio di fianco al Duomo è stata la principale minaccia, a detta di studiosi della Facoltà di Architettura, che la Cupola di Filippo Brunelleschi ha dovuto affrontare nella sua storia secolare.

Tabella 1: Referendum tramvia Comune di Firenze (17 febbraio 2008)

No

Votanti

Voti validi

Quesiti

N.

%

sui voti validi

N.

%

sui voti validi

N.

%

sugli aventi diritto

N.

%

Sui votanti

Quesito n. 1 – Linea tranviaria Careggi –
Viale Europa

64.069

51,87 %

59.440

48,13 %

124.206

39,35 %

123.509

99,44 %

Quesito n. 2 – Linea tranviaria Peretola –
Piazza della Libertà

66.466

53,84 %

56.974

46,16 %

124.207

39,35 %

123.440

99,38 %

Elettori iscritti

315.641

Fonte: nostra ricostruzione sui dati del sito web del Comune di Firenze

Anche in questi quesiti, così come nei referendum abrogativi nazionali votati in base all’art. 75 della Costituzione, chi era contrario alle decisioni dell’amministrazione comunale doveva votare Sì e chi era favorevole doveva votare No. Entrambi i quesiti infatti cominciavano con una formula del tipo: “Volete voi che siano revocate le delibere comunali?”. È lecito chiedersi se tutti gli elettori fossero pienamente consapevoli di questo aspetto del voto, considerata la scarsa esperienza di votazioni referendarie nei comuni. La partecipazione al voto è stata pari a quasi il 40 per cento e perciò, non essendo stato raggiunto il quorum dei votanti del 50 per cento, l’esito della votazione è stato dichiarato nullo. Tuttavia la maggioranza dei voti espressi è stata favorevole all’intento dei promotori che hanno raccolto un consenso significativo: circa il 52 e il 54 per cento sui due quesiti. Il Sindaco di Firenze non gradì ed espresse parole di biasimo per i partiti che esprimevano la sua maggioranza in Consiglio comunale, in primo luogo per il Partito democratico, il suo partito; a suo dire i partiti non si sarebbero impegnati a sufficienza nella mobilitazione degli elettori al voto in sostegno dell’importante opera pubblica. Il nuovo Sindaco, appena eletto, ha deciso la completa pedonalizzazione della Piazza del Duomo, la deviazione delle linee di autobus che passavano dalla piazza e la modifica del percorso della linea tranviaria che non passerà comunque più dalla Piazza del Duomo.

Il tema della costruzione di tramvie si è presentato anche in altre città, Parma, ad esempio, ma la richiesta di voto referendario non è stata ammessa dalla commissione preposta al giudizio. È difficile comprendere perché su una stessa materia possano votare i cittadini di una città ma non quelli di un’altra.

Ricordiamo che un numero significativo di referendum comunali sulla costruzione di linee tranviarie da parte di aziende municipalizzate si erano svolti, in alcune città tra il 1904 e il 1914, in base alla legge Giolitti sulle municipalizzazioni: Bergamo, Genova, Civitanova, Cassano Magnago, Padova, Este, Pavia, Roma, Torino, Vicenza (Basile 1994, 287-315).

Tabella 2: Referendum consultivo nel Comune di Taranto sulla chiusura dello ­stabilimento industriale della Società ILVA

Quesiti del referendum consultivo previsto dalla delibera del consiglio comunale n. 10 del 6 febbraio 2009 e dal relativo regolamento, proposti dal comitato promotore cittadino referendario per la tutela della salute e del lavoro “taranto futura”:

I Referendum: Quesito
Volete voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la vostra salute, nonché la salute dei lavoratori contro l’inquinamento, proporre la chiusura dell’Ilva, con l’impegno del Governo di tutelare l’occupazione, impiegando le maestranze per lo smantellamento e bonifica dell’area in cui sono attualmente situati gli impianti industriali, e di destinare l’area stessa per altre attività economiche non inquinanti ovvero per permettere lo sviluppo del Porto e dell’Arsenale (da riconvertire in industria naval-meccanica) e dare alla città di Taranto nuove e concrete opportunità dì lavoro nel settore del turismo?

II Referendum: Quesito
Volete Voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la Vs. salute e quella dei lavoratori, proporre la chiusura dell’area a caldo dell’Ilva, maggiore fonte di inquinamento, con conseguente smantellamento dei parchi minerali, con l’impegno del Governo di far impiegare i lavoratori dell’area a caldo in altre attività?

III Referendum: Quesito
Volete voi cittadini che il Comune di Taranto chieda all’llva S.p.A. il risarcimento dei danni, in seguito alla condanna definitiva da parte della Corte di Cassazione dei responsabili del citato impianto siderurgico per inquinamento ambientale, tenendo presente che gli interessi diffusi, come quelli dell’ambiente e della salute, non possono essere oggetto di accordo da parte dell’Ente locale, così come sancito dalla Corte di Cassazione e dalla magistratura amministrativa?

IV Referendum: Quesito
Volete voi cittadini che il Sindaco, ai sensi dell’art. 50 del decreto legislativo 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), per motivi sanitari, di igiene pubblica e per la tutela della salute dei cittadini e dei lavoratori, obblighi l’Ilva S.p.A. e le altre industrie di Taranto a bonificare il territorio e il mare inquinato a loro spese, sulla base del principio “chi inquina paga”, così come sancito dall’art. 174 comma 2 del Trattato dell’Unione Europea e dall’art. 3 ter del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152?

V Referendum: Quesito
Volete voi cittadini che il Consiglio Comunale di Taranto si adegui al risultato positivo derivante dal referendum consultivo in materia di ambiente, sulla chiusura totale o parziale dell’Ilva (della sola area a ­caldo), con la tutela dell’occupazione, così come prospettato dai quesiti referendari del Comitato ­Promotore “Taranto Futura”, nel pieno rispetto del principio della sovranità popolare, così come previsto dall’art. 1 della Costituzione?

Così come nel caso di Firenze, una serie di referendum (spesso solo evocati, talvolta effettivamente promossi, più raramente votati) hanno per oggetto opere pubbliche dei più diversi tipi: per la costruzione o la trasformazione di impianti industriali di vari tipo (centrali elettriche alimentate con diversi tipi di combustibili quali carbone, gas metano, gasolio), per la costruzione o la trasformazione di edifici di pubblico interesse e così via. La costruzione di impianti per lo smaltimento di rifiuti urbani oppure di rigassificatori, la riqualificazione di aree urbane con insediamenti industriali dismessi, sono state oggetto di richieste e proposte di referendum che in taluni casi hanno avuto luogo. Quando le votazioni hanno avuto luogo è difficile dire quale sia stata, in generale, la loro efficacia. Solo studi approfonditi di casi potrebbero aiutarci a comprendere gli “effetti” diretti e indiretti delle votazioni referendarie.

Si preannuncia come un caso interessante la consultazione che dovrebbe avere luogo nel corso del 2010 nel comune di Taranto su una questione assai importante che si trascina da lungo tempo e dai molteplici e complessi risvolti di natura economica e ambientale, relativa all’area nella quale è situato l’insediamento industriale dell’Italsider-Ilva. La richiesta di referendum, promossa da un comitato cittadino denominato Taranto Futura, è stata articolata in ben cinque distinti quesiti.

Sul sito web del comune di Taranto nella pagina di presentazione dello Statuto si legge che:

“Lo Statuto Comunale, approvato ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 della Legge n. 142 dell’8/06/1990 “Ordinamento degli Enti Locali”, rappresenta la Carta Costituzionale della Città di Taranto ispirata a principi di partecipazione alla vita cittadina di uomini e donne anche non residenti e/o con diversa cittadinanza. Favorisce lo sviluppo della promozione umana e incentiva le forme di cooperazione esaltando il ruolo e le funzioni della sussidiarietà.”

Lo Statuto comunale fu approvato in via definitiva nel marzo del 1992 e quindi oggetto di revisione nel dicembre del 2006: “alla luce delle disposizioni di cui al T.U.E.L. n. 267/2000”. Non sono state introdotte nuove forme referendarie. L’articolo dello Statuto dedicato al referendum consultivo è formulato nei seguenti termini:

“Art. 52 ll Referendum consultivo.

1) ll Comune riconosce, fra gli strumenti di partecipazione del cittadino all’Amministrazione locale, il Referendum consultivo.

2) Il Referendum consultivo è ammesso su questioni di rilevanza generale interessanti la collettività ed è indetto dal Sindaco.

3) Il Regolamento individua i soggetti promotori e le materie oggetto di referendum, disciplina le modalità per la raccolta, autenticazione delle firme dei sottoscrittori, stabilisce le condizioni di ricevibilità ed ammissibilità e le modalità di svolgimento delle operazioni di voto.

4) Il quesito sottoposto a referendum è dichiarato accolto nel caso in cui i voti attribuiti alla risposta affermativa non siano inferiori alla maggioranza assoluta degli elettori con diritto di voto, altrimenti è dichiarato respinto.

5) Entro 60 giorni dalla proclamazione dell’esito favorevole del referendum la Giunta propone al Consiglio Comunale una proposta di provvedimento riferito all’oggetto del referendum.”

È abbastanza singolare il fatto che il numero delle firme necessarie per promuovere una richiesta di referendum non sia stato indicato nello Statuto ma che la sua determinazione sia stata affidata al Regolamento menzionato nel comma 3° dello Statuto. Il Regolamento stabilisce che la richiesta di referendum debba essere sottoscritta da almeno 3.000 firme di elettori del comune.

Il Regolamento è stato approvato con delibera del Consiglio comunale n. 10 del 6 febbraio 2009 e successivamente modificato con delibera n. 155 del 20 novembre 2009. Nella seconda pagina della delibera comunale di approvazione si afferma chiaramente che la decisione di procedere, infine, diciannove anni dopo lo Statuto, all’approvazione del Regolamento è dovuta alle ripetute richieste dell’Associazione Taranto Futura di voler promuovere un referendum e alla pronuncia del Tribunale amministrativo regionale che accoglieva l’istanza del Comitato sulla mancata approvazione del Regolamento in questione.

L’articolo 13 del Regolamento, per quanto riguarda l’esito del voto stabilisce che: “Il quesito sottoposto al voto è approvato se alla votazione ha partecipato la maggioranza degli elettori e se ha conseguito la maggioranza dei voti validamente espressi”. Tuttavia, la “maggioranza dei voti validamente espressi” è altra cosa rispetto alla “maggioranza assoluta degli elettori con diritto di voto” di cui al comma 4° dell’art. 52 dello Statuto.

Originariamente, il Regolamento prevedeva l’impossibilità di svolgere referendum comunali nello stesso anno di elezioni amministrative di qualsiasi tipo, ivi comprese le elezioni regionali. Il comitato referendario ha fatto pertanto ricorso al Tribunale amministrativo che ha riconosciuto le ragioni del comitato promotore disponendo:

“l’annullamento dell’art. 3, 1° comma, e dell’art. 8, 2° comma, nella parte in cui prevede il divieto di effettuare operazioni referendarie nell’anno in cui si svolgono le elezioni amministrative e l’obbligo di interrompere ogni attività od operazione relativa al referendum consultivo al 31 dicembre dell’anno solare antecedente a quello di scadenza della durata in carica del Consiglio Comunale del Regolamento comunale di disciplina dell’istituto del referendum consultivo adottato dal Consiglio comunale di Taranto con la deliberazione 9 febbraio 2009 n. 1020.

Si tratta di un caso esemplare ma niente affatto eccezionale che pone interrogativi sulla qualità delle istituzioni che stanno alla “base” della democrazia italiana.

Non mancano casi, probabilmente più sporadici, di referendum che vengono indetti per iniziativa del Sindaco e della maggioranza del Consiglio per ottenere il consenso dei cittadini su decisioni che l’amministrazione ha preso o intende prendere. È stato questo, ad esempio, il caso di due comuni della Provincia di Pisa intenzionati a permettere la costruzione di così detti “Parchi eolici” per ottenere energia elettrica dal vento21. In questi referendum la partecipazione al voto è stata superiore al 50 per cento degli iscritti nelle liste elettorali e l’esito del voto favorevole all’obbiettivo dei promotori.

9.a I referendum contro le moschee

Una questione oggetto di una diecina di richieste (o annunci di richiesta) di referendum, senza che vi sia stata, a nostra conoscenza, una sola consultazione effettivamente indetta, è quella relativa ai luoghi di culto per gli immigrati di fede islamica e in particolare la destinazione di aree pubbliche per la costruzione di moschee. Il clamore suscitato dall’iniziativa popolare costituzionale votata nella Confederazione elvetica nell’autunno del 2009, con l’approvazione da parte degli elettori e dei Cantoni del divieto di costruire minareti, ha riattizzato in alcune città italiane le polemiche e i contrasti già manifestasi negli anni precedenti. I luoghi di culto islamico in Italia sarebbero circa 750 di cui tre vere e proprie moschee con minareto22. Il problema si è posto da circa un decennio in città come Bologna, Genova, Milano, Modena Padova, Ravenna, Torino, Treviso e nel Comune di Colle Val d’Elsa (Provincia di Siena).

Si tratta di una questione complessa che non è circoscritta alle campagne promosse, specie nelle città delle regioni centro-settentrionali, soprattutto dalla Lega Nord con accenti più o meno xenofobi e gesti di assai dubbio gusto quali l’impiego di maiali per “infettare” i terreni destinati alla costruzione delle moschee23. I militanti della Lega in qualche caso erano affiancati anche da gruppi locali di ispirazione paleo-fascista come Forza Nuova o da politici locali di Forza Italia. Nell’estate del 2008 la Lega Nord aveva preannunciato la presentazione in Parlamento di una proposta di legge sulla costruzione delle moschee, proposta che prevede anche il referendum obbligatorio nei comuni nei quali le moschee dovrebbero essere costruite24.

A Genova il dibattito sulla costruzione di una moschea è aperto da qualche anno: consentire oppure no alla costruzione della moschea, in quale parte della città, con o senza il minareto ed eventualmente quanto alto. L’intenzione di promuovere un referendum comunale consultivo è stata annunciata da tempo da quattro Consiglieri regionali aderenti a quattro diversi partiti25. Infine, alla vigilia di Natale 2009, il Consiglio Comunale ha approvato la delibera che dà il via alla costruzione della moschea. Il Sindaco della città, Marta Vincenzi (Pd), commentando la vicenda del voto referendario svizzero sul divieto di costruzione di minareti ha affermato che:

“Queste cose non si decidono con i referendum, questo tipo di approccio e di votazione fa venire fuori tutto il peggio dalla gente. Non è il modo di affrontare un tema così delicato”.

La presenza o l’assenza del minareto nella moschea genovese e la sua altezza sono questioni che il Sindaco ha riservato alla propria discrezionalità politica. In particolare, quando l’area prevista per la costruzione della moschea era antistante il porto della città, la costruzione del minareto era esclusa per evitare contrasti con la Torre della Lanterna, faro del porto e simbolo della città. L’altezza complessiva della Lanterna sul livello del mare è di 117 metri. L’area destinata dal Comune alla costruzione della moschea è stata infine individuata nel quartiere di Lagaccio che, assieme ad altri quartieri, è parte del Municipio Centro-Est che, con oltre 90.000 abitanti, è il più popoloso dei Municipi genovesi. L’altezza del minareto non è stata ancora definita: originariamente era prevista di quindici metri ma notizie di stampa riferiscono di una sua progressiva riduzione. Il Sindaco della città ha dichiarato che:

“il minareto è soprattutto un simbolo e per questo non necessita di grandi dimensioni. Non deve essere un elemento prevaricante, qualcosa di svettante nel nostro paesaggio che si è andato costruendo in secoli di storia. Anche lo skyline della città è un segno di identità, con i suoi campanili, che va rispettato”.

Un caso esemplare, di cui si sono occupati alcuni quotidiani nazionali e il Parlamento, è quello della moschea di Colle Val d’Elsa, importante cittadina della provincia di Siena26. In un contesto politico e amministrativo tradizionalmente controllato dal Partito comunista prima e poi dai partiti da esso derivati, ha suscitato molta sorpresa e scalpore la raccolta di un numero rilevante di firme contro la destinazione di un terreno pubblico per la costruzione di una moschea. Non meno controversa è stata, per alcuni, la decisione dell’amministrazione comunale di non far svolgere la consultazione referendaria, nonostante l’alto numero di firme raccolte. Una vicenda che meriterebbe davvero un approfondito “studio del caso”27.

9.b I referendum “territoriali”: “federalismo Italian style”

Una “famiglia” articolata di referendum particolarmente interessante è quella che potremmo denominare, con una grande dose di approssimazione, dei “referendum territoriali”. Pochi riferimenti a qualche caso specifico possono aiutare a suggerire il carattere variegato e composito di questa “famiglia” di referendum.

Nel comune di Venezia si sono svolti quattro referendum (1979, 1989, 1994, 2003) per decidere sulla separazione tra il nucleo storico di Venezia e quello moderno di Mestre situato sulla terra ferma. Non si tratta di banali questioni di “campanilismo”, così tipiche della storia italiana, bensì di scelte importanti per Venezia e il suo entroterra costituito non solo da Mestre ma anche dal porto industriale di Marghera e dall’insediamento industriale di quello che fu un tempo un grande polo chimico e fonte di un forte inquinamento ambientale28. La soluzione potrebbe venire, secondo alcuni, con la costituzione della Città metropolitana. Il progetto della istituzione delle Città Metropolitane, com’è noto, è finora rimasto sulla carta.

Le esperienze politicamente più rilevanti e significative di “referendum territoriali” sono probabilmente quelle dei referendum promossi alla luce degli articoli 132 e 133 della Costituzione in quei Comuni che, chiedendo di passare da una Provincia all’altra, in effetti chiedono di cambiare Regione di appartenenza. Il primo tentativo di indire un referendum per il cambio di regione è del 1990: 42 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione e 20 anni dopo l’approvazione della legge n. 352. Chieuti, piccolo comune di circa due mila abitanti della Provincia di Foggia nella Regione Puglia, chiedeva di cambiare Regione per passare alla Regione Molise, nella Provincia di Campobasso.

Nell’agosto del 1992, si è perfino costituita una piccola “Unione Comuni italiani per cambiare Regione”29. Nel volgere di poco più di una diecina di anni circa una trentina di comuni hanno votato per decidere sul cambio di Provincia e Regione. Circa una cinquantina di comuni hanno avviato le procedure per arrivare al voto referendario per decidere sul cambio di Provincia che in molti casi implicherebbe, come già detto, il passaggio da una Regione a un’altra. Un cambiamento che acquista particolare rilievo quando il passaggio avviene tra una Regione con Statuto di autonomia ordinaria e una Regione con Statuto di autonomia speciale (Frosini 2010).

Sotto un profilo giuridico-istituzionale la storia di questi referendum è un tassello esemplare del difficile e contrastato processo di istituzionalizzazione dei referendum nella democrazia italiana. Questo tipo di referendum, come tutti gli altri previsti dalla Costituzione, è rimasto congelato fino all’approvazione della legge n. 352 del 1970 che ha disciplinato tutti i tipi di referendum previsti nella Costituzione e quindi anche quelli dell’art. 132 della Costituzione30.

Possono essere molteplici le ragioni per le quali il primo tentativo, quello già menzionato del Comune di Chieuti, è stato fatto dopo 20 anni la legge n. 352. È possibile che una delle ragioni consistesse nelle grandi difficoltà previste dagli articoli 41-47 della legge. In questa sede non posso illustrare nei dettagli le procedure previste da quegli articoli e le modifiche derivate da una Sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato la parziale incostituzionalità della legge n. 352 31. Quella sentenza ha reso sicuramente meno difficile il processo decisionale dei Comuni intenzionati a cambiare Regione.

Com’è noto, l’art. 75 della Costituzione, comma iv, prevede il quorum del 50 per cento dei votanti per la validità del voto nel referendum abrogativo nazionale. Gli Statuti regionali e comunali hanno in genere ripreso il criterio del quorum dei votanti come requisito per la validità dei referendum regionali e comunali, in taluni casi prevedendo una soglia più bassa rispetto al 50 per cento. La legge n. 352 del 1970 (art 45, secondo comma) stabilisce, invece, che la decisione di cambiare regione per essere approvata deve ottenere un numero di voti favorevoli che “non sia inferiore alla maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali dei comuni nei quali è stato indetto il referendum”. Si tratta di un vero e proprio superquorum: la partecipazione al voto e i voti favorevoli alla proposta devono essere almeno pari al 50 per cento degli iscritti.

San Michele al Tagliamento, in Provincia di Venezia, è stato il primo comune che, nella primavera del 2005, ha indetto un “referendum territoriale” per il cambio di Provincia e Regione (per un passaggio rispettivamente alla Provincia di Udine e quindi alla Regione Friuli Venezia Giulia) in base all’articolo 132 della Costituzione per la modifica dei confini regionali. Il referendum, richiesto dal Consiglio comunale il 10 febbraio 2002, era stato dichiarato ammissibile dalla Corte di Cassazione (ordinanza del 10 dicembre 2004). La consultazione ha avuto infine luogo il 29 e 30 maggio 2005. Il quesito sottoposto al voto degli elettori recitava:

“Volete che il territorio del comune di San Michele al Tagliamento sia separato dalla regione Veneto per entrare a far parte integrante della regione autonoma Friuli-Venezia Giulia?”

Ha partecipato al voto il 58,33 per cento degli iscritti; i voti favorevoli sono stati 4.844 pari al 76,25 dei voti validamente espressi. Tuttavia il quesito è stato giudicato nullo (o respinto come scritto sulla pagina del sito web del Comune), perché non è stato raggiunto il superquorum prescritto: infatti, i 4.844 voti favorevoli corrispondevano “solo” al 44,47 per cento degli elettori iscritti.

Dopo la consultazione di San Michele al Tagliamento, qualche diecina di altri comuni hanno avviato la procedura per il cambio di Regione in base all’art. 132 della Costituzione (vedi la tabella). In alcuni casi le consultazioni hanno avuto esito positivo: la maggioranza dei voti favorevoli ha superato il superquorum del 50 per cento degli iscritti nelle liste elettorali. In altri casi l’esito del voto è stato dichiarato nullo perché i voti favorevoli non hanno raggiunto la soglia prevista dal super­quorum. Le votazioni già effettuate in effetti sono concentrate in una ventina di Comuni della Regione Veneto che hanno votato per passare a Province confinanti delle Regioni Trentino Alto-Adige/Südtirol o del Friuli-Venezia Giulia, entrambe con Statuti di autonomia speciale. In circa una quindicina di altri Comuni del Veneto le procedure per il voto sono state avviate.

Tabella 3: “Referendum territoriali” – Comuni che hanno richiesto e ottenuto il ­referendum per il cambio di Regione sulla base dell’art.132 della Costituzione.

Regione e Provincia
di distacco

Regione di aggregazione

Comune

Data di ­svolgimento

Elettori iscritti

N.

Voti favorevoli

N.

Percentuale
di voti favorevoli
sul totale
degli elettori iscritti 

%

Esito

Regione

Provincia

Regione

Piemonte

Torino

Valle d’Aosta 

Noasca

08/09.10.2006

180

95

52,7 %

Approvato

Piemonte

Torino

Valle d’Aosta 

Carema

18/19.03.2007

634

432

68,1 %

Approvato

Veneto

Venezia

Friuli-Venezia Giulia

San Michele
al Tagliamento

29/30.05.2005

10.892

4.844

44,4 %

Respinto

Veneto

Belluno

Trentino-
Alto Adige 

Lamon

30/31.10.2005

4.151

2.377

57,2 %

Approvato

Veneto

Venezia

Friuli-Venezia Giulia

Cinto ­Caomaggiore

 26/27.03.2006

2.994

1.790

59,7 %

Approvato

Veneto

Venezia

Friuli-Venezia Giulia

Gruaro

26/27.03.2006

2.642

1.214

45,9 %

Respinto

Veneto

Venezia

Friuli-Venezia Giulia

Pramaggiore

26/27.03.2006

3.756

1.675

44,5 %

Respinto

Veneto

Venezia

Friuli-Venezia Giulia

Teglio Veneto

26/27.03.2006

2.097

911

43,4 %

Respinto

Veneto

Belluno

Friuli-Venezia Giulia

Sappada

09/10.03.2008

1.199

860

71,72 %

Approvato

Veneto

Vicenza

Trentino-
Alto Adige 

Pedemonte

09/10.03.2008

811

414

51,04 %

Approvato

Veneto

Belluno

Trentino-
Alto Adige 

Sovramonte

08/09.10.2006

1.925

1.246

64,7 %

Approvato

Veneto

Vicenza

Trentino-
Alto Adige 

Otto Comuni Altopiano di Asiago1

06/07.05.2007

20.862

12.4042

59,4 %2

Approvato

Veneto

Belluno

Trentino-
Alto Adige 

Tre comuni Ampezzano

28/29.10.2007

6.828

3.847

56,34 %

Approvato

Marche

Pesaro e Urbino

Emilia-­Romagna

Mercatino Conca

09/10.03.2008

935

474

49,11 %

Respinto

Marche

Pesaro e Urbino

Emilia-­Romagna

Monte Grimano Terme

09/10.03.2008

1.216

520

42,76 %

Respinto

Marche

Pesaro e Urbino

Emilia-­Romagna

Montecopiolo

24/25.06.2007

1.124

651

57,9 %

Approvato

Marche

Pesaro e Urbino

Emilia-­Romagna

Sassofeltrio

24/25.06.2007

1.273

645

50,6 %

Approvato

Marche

Pesaro e Urbino

Emilia-­Romagna

Sette Comuni Valmarecchia2

17/18.12.2006

16.4101

9.2111

56,1 %1

Approvato

Campania

Avellino

Puglia

Savignano Irpino

11/12.06.2006

1.411

555

39,3 %

Respinto

Note: 1) Comuni Altopiano di Asiago: Asiago/Sleghe, Roana/Robaan, Rotzo/Rotz, Gallio/Ghèl, Enego/Ghenebe, Foza/Vüsche, Lusiana/Lusaan e Conco/Kunken;
2) Comuni Valmarecchia: Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, Sant’Agata Feltria, San Leo, Talamello.

Fonte: elaborazione dell’autore con informazioni e dati desunti dal sito web:
www.comunichecambianoregione.org/presentazione.php.

Il voto referendario nei comuni che intendono cambiare Regione è un passaggio, certamente cruciale, di un processo decisionale che si conclude con una legge votata dal Parlamento. La Corte Costituzionale (con sentenza N. 334 del 2004), ha dichiarato incostituzionale quella parte della legge n. 352/1970 che per la legittimità della decisione imponeva l’assenso di altri comuni (in quella circostanza sia friulani che veneti) in rappresentanza di almeno un terzo delle rispettive popolazioni regionali. Le corrette procedure definite dalla Corte Costituzionale con la predetta sentenza furono le seguenti:

1. Referendum consultivo solo nel comune richiedente;

2. Parere (non vincolante) delle due regioni;

3. Legge del Parlamento nel caso di trasferimento del comune in Friuli-Venezia Giulia32.

Ai primi di gennaio 2009, la Corte costituzionale ha respinto il ricorso promosso dai rappresentanti del Comitato promotore referendario “pro Friuli” di San Michele al Tagliamento33 per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti dell’Ufficio centrale per il referendum, del Consiglio dei ministri, nonché del Presidente della Repubblica in relazione agli atti di rispettiva competenza (Ordinanza n. 1, 16 gennaio 2009). Tra le numerose questioni oggetto del ricorso due riguardavano in maniera specifica l’articolo 45, comma secondo, della legge n. 352 del 1970, perché:

1. prevede la “maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune”;

2. non prevede la cancellazione dalle liste elettorali degli iscritti deceduti sino al giorno precedente alla data della votazione, anziché fino al quindicesimo giorno anteriore.

In due casi, consultazioni referendarie di questa famiglia, hanno riguardato gli elettori non di un singolo comune ma di un gruppo di Comuni. Nella Regione Marche sette Comuni della Valmarecchia, nel 2006, hanno votato per il passaggio alla Regione Emilia-Romagna; in questo caso si tratta di un cambio tra Regioni con Statuti di autonomia ordinaria34. Nella Regione Veneto otto Comuni dell’Altipiano di Asiago, nel 2007, hanno votato per il passaggio alla Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol. La consultazione che ha attratto maggiormente l’attenzione dei principali organi di informazione è stata quella indetta nei giorni 28 e 29 Ottobre 2007 dai Comuni di Cortina d’Ampezzo, Livinallongo del Col di Lana e Colle Santa Lucia per il cambio di Regione dal Veneto al Trentino-Alto Adige/Südtirol.

Considerato il numero di consultazioni che avevano superato lo sbarramento del superquorum, il Consiglio dei Ministri del governo di centro-sinistra presieduto dal Presidente Romano Prodi aveva proposto una revisione del primo comma dell’art. 132 della Costituzione. La proposta di revisione costituzionale prevedeva che:

“Per il passaggio di una Provincia ad un’altra Regione, la richiesta deve essere inoltre approvata, mediante referendum, dalla maggioranza delle popolazioni di ciascuna delle Regioni interessate. Per il passaggio di uno o più Comuni da una Provincia ad un’altra appartenente a diversa Regione, la richiesta deve essere invece approvata, mediante referendum, dalla maggioranza delle popolazioni di ciascuna delle due Province interessate”35.

Quella proposta prevedeva dunque il voto referendario non solo dei Comuni (o delle Province) interessati al passaggio da una Regione all’altra, ma anche il voto referendario nelle due Province (nel caso di passaggio di singoli comuni) o nelle due Regioni (nel caso di passaggio di un’intera Provincia) interessate al cambiamento. La caduta del Governo di centro-sinistra ha bloccato l’iter di quella revisione costituzionale.

Non è possibile prevedere quale sarà l’evoluzione di questa “famiglia di referendum” nei prossimi anni. È probabile che questo tipo di “referendum territoriali” continueranno a manifestarsi almeno fino a quando non sarà completato l’assetto istituzionale di tipo “federale”, specie con riferimento al c.d. “federalismo fiscale”, un tema al centro dell’agenda politica del Governo di centro-destra in carica dopo le elezioni dell’aprile 2008 (Brosio/Maggi/Piperno 20033). Quel tipo di referendum solleva questioni complesse sulla formula referendaria più consona al tipo di decisione in gioco.

Le ragioni di questo fenomeno sono probabilmente molteplici e di diversa natura. Talvolta possono essere ragioni di natura esclusivamente economico finanziaria. Una parte di questi comuni, infatti, hanno chiesto di passare da Regioni a Statuto ordinario a Regioni a Statuto speciale che dispongono di più favorevoli condizioni economico-finanziarie. In altri casi possono esserci ragioni di natura più strettamente partitica. Occorre infatti considerare anche gli aspetti di natura più propriamente politica ed elettorale considerato che questi cambiamenti possono avere conseguenze più o meno significative sui collegi elettorali e sugli equilibri di forze nelle amministrazioni locali. Fino ad oggi non vi sono stati Comuni che abbiano chiesto di fare il percorso inverso: da Regioni a Statuto speciale a Regioni a Statuto ordinario. Il fenomeno tuttavia, come abbiamo detto, si manifesta anche come richiesta di passaggio tra Regioni con Statuti di autonomia ordinaria.

Vi sono, infine, alcune ipotesi che potrebbero configurarsi, per così dire, come vicende in fieri oppure come semplici chimere. Ci limitiamo a brevi segnalazioni. Una proposta, avanzata dal Movimento per l’Autonomia della Romagna (MAR), prevede la creazione della Regione Romagna, separata dall’Emilia36. Una proposta che sembra trovare qualche attenzione tra le forze politiche locali di centro-destra, che hanno presentato una proposta di referendum nel Consiglio comunale di ­Forlì37. Non abbiamo elementi per dire il grado di consenso tra i cittadini dei comuni romagnoli.

Un altro progetto che ha elementi comuni al precedente è quello che prevede di costituire una nuova Regione denominata Lunezia e “costituita da territori comunali appartenenti alle attuali intere sei province di La Spezia, Parma, Massa Carrara, Reggio Emilia, Piacenza, Mantova e dai territori della Garfagnana (LU) e di Cremona”, secondo quanto stabilito nello Statuto dell’Associazione Culturale “Regione Lunezia”. I promotori si richiamano al dibattito svoltosi in Assemblea Costituente quando si discusse della proposta di costituire tre distinte Regioni: Emilia, Romagna e Emilia-Lunense.

Meno ambiziosa, infine, sembra l’ipotesi del cambio di regione di un’intera Provincia, quella di La Spezia, dalla Liguria alla Toscana, con l’intento di dar vita a una Città metropolitana assieme con la Provincia di Massa Carrara.

Una Regione che potrebbe conoscere un esodo consistente di alcuni suoi comuni è la Regione Campania. Oltre una quarantina di Comuni di due Province campane hanno avviato le procedure per cambiare Provincia e trasmigrare verso due Regioni confinanti Molise e Basilicata (anche in questo caso si tratta di Regioni con Statuto di autonomia ordinaria). La maggior parte di questi comuni, con circa 200.000 abitanti, marginali e periferici in una Regione di circa sei milioni di abitanti come la Campania, vorrebbero acquisire maggiore importanza in una regione assai più piccola come la Basilicata composta di due sole Province e circa 600.000 abitanti38.

Meno problematici, sotto il profilo istituzionale, sono i passaggi dei Comuni da una Provincia all’altra, la costituzione di nuove Province all’interno di una Regione, l’aggregazione di due o più Comuni o frazioni per dar vita a nuovi Comuni. Ad esempio, in Friuli-Venezia Giulia, a fine novembre 2007, si sono svolti due referendum per decidere sull’unione tra comuni della provincia di Udine: Attimis e Faedis­ e Campolongo al Torre e Tapogliano; in questi ultimi due comuni gli elettori hanno votato tramite un computer che ha sostituito completamente le tradizionali schede di carta39.

Forse l’esperienza più significativa è stata la consultazione indetta nel marzo del 2004 per costituire la nuova Provincia dell’Alto Friuli. Gli elettori di 43 comuni sono stati chiamati a votare per un referendum di carattere consultivo sulla istituzione di una nuova provincia. Promotori i Sindaci di 38 comuni dell’area della Provincia da costituire. Il referendum è stato indetto dal Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia40. Sebbene di carattere consultivo, per essere approvato dagli elettori il referendum doveva ottenere la maggioranza dei voti validamente espressi senza quorum di alcun tipo. Il Consiglio regionale avrebbe quindi dovuto istituire la nuova provincia con un’apposita legge regionale. La maggioranza degli elettori si è pronunciata contro. I dati evidenziano come le due comunità in cui sono raggruppati i comuni che avrebbero dovuto costituire la nuova regione fossero di orientamento nettamente contrapposti.

Tabella 4: Referendum consultivo per l’istituzione della Provincia dell’Alto Friuli –
21 marzo 2004

Territori

Elettori

Votanti

No

N.

%

N.

%

N.

%

Carnia

40.261

20.569

51,09 %

14.628

71.87 %

5.725

28.13 %

Gemonese, Canal del Ferro, Val Canale

35.022

17.973

51,32 %

2.969

16.63 %

14.886

83.37 %

Alto Friuli

75.283

38.542

51,20 %

17.597

46.06 %

20.611

53.94 %

Fonte: nostra ricostruzione sui dati del sito web della Regione http://elezioni4.regione.fvg.it/Referendum2004/

Referendum consultivi per la creazione di nuovi comuni (Regione autonoma Friuli-­Venezia Giulia)

Date

Comuni

Elettori registrati

Votanti

No

N.

%

N.

%

N.

%

27/11/1994

Resia; Lusevera; frazione di Uccea

1.333

931

69,8

900

97,8

20

2,20

25/11/2007

Attimis; Faedis

5.047

2.561

50,7

1.297

51,1

1.241

48,90

25/11/2007

Campolongo al Torre; Tapogliano

1.082

561

51.8

459

85,4

78

14,53

Fonte: nostra elaborazione sui dati del sito web della Regione: http://elezioni4.regione.fvg.it/Referendum2004/

Nota: non è richiesto alcun quorum, le tre proposte sono state accettate.

10. Considerazioni finali

Giova ribadire quanto già affermato in altra occasione. Gli istituti referendari non sono un anacronistico residuo della “democrazia diretta” degli antichi. Essi sono, piuttosto, una modalità istituzionale di articolazione, di espressione e di risoluzione di conflitti politici nell’ambito della democrazia rappresentativa dei moderni che ha nel costituzionalismo e nelle teorie politiche liberali i suoi irrinunciabili fondamenti. La nozione di “democrazia diretta” non aiuta a comprendere il fenomeno referendario. Rimane valido l’ammonimento di Norberto Bobbio contro il “feticcio della democrazia diretta” (Bobbio 1975), anche sotto un profilo solamente lessicale anche quando non si parla più di “democrazia diretta” ma, ad esempio, di “democrazia radicale”41. La nozione di controllo delle decisioni dei governanti mediante decisioni dei governati mi pare la più appropriata per analizzare e valutare il contributo che gli istituti referendari potrebbero dare per migliorare la qualità del governo democratico costituzionale, liberale e rappresentativo.

Il processo di istituzionalizzazione e di legittimazione politica del principio e degli istituti referendari nel “governo della città” è stato ritardato e ostacolato, ancor più di quanto sia accaduto nel governo della nazione. Principi e “regole del gioco” referendario nella amministrazione della Res publica comunale sono ancora più deboli e di scarsa qualità di quanto non lo siano nel governo della Res publica nazionale. Sono molteplici i fattori principali che hanno favorito questo stato delle cose. In primo luogo l’assenza nella Costituzione democratica della Repubblica di una norma che sancisca il principio e il voto referendario come elemento costitutivo della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Poi l’adozione negli Statuti e nei regolamenti di attuazione di accorgimenti che hanno dato “buona prova di sé” nel funzionamento dell’istituto referendario nella politica nazionale: la regola del quorum dei votanti (spesso pari al 50 per cento più uno degli iscritti) per la validità della consultazione, l’ampiezza delle liste di materie escluse dalle votazioni referendarie, l’ampia discrezionalità nel conseguente giudizio di ammissibilità delle richieste di referendum. Ciò nonostante, nel corso degli ultimi anni, possiamo osservare una pressione verso una diffusione del ricorso a votazioni referendarie nei Comuni. L’attivazione di procedure referendarie a tutti i livelli è frutto di decisioni di partiti, gruppi, professionisti della politica: è la prosecuzione della politica con strumenti aggiuntivi alle competizioni elettorali. Spesso è così, ma non sempre. In taluni casi cittadini costituiti in comitati, autonomi e indipendenti da partiti e gruppi, ritengono opportuno promuovere una consultazione referendaria.

Anche in Italia si osservano negli ultimi anni esperienze di democrazia deliberativa nella vita delle autonomie locali (Bobbio 2002, 191-193 e 205-207; Sebastiani 2007, 167-189). Alcune Regioni, in particolare, cercano di favorire una partecipazione diffusa mediante una vasta gamma di procedure di democrazia deliberativa e con un ruolo residuale per gli istituti referendari42. Questo sembra ad esempio l’orientamento espresso dalla legge della Regione Toscana n. 69, 27 dicembre 2007, in tema di “Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali” di cui potremo osservare e valutare i frutti nei prossimi anni43. Si tratta di capire in che misura queste esperienze costituiscano, di fatto, occasioni volte alla creazione di consenso e di legittimazione per l’operato dei governanti locali piuttosto che occasioni per l’espressione di dissenso e opposizione. Non si tratta di formulare generici e gratuiti sospetti per cui tutte le esperienze di partecipazione possono “essere piegate agli interessi dei politici che le promuovono, per legittimare a posteriori scelte che essi hanno già compiuto e per esibire una finta apertura” (Bobbio 2010, 62-63). Un principio di cautela, prudenza e diffidenza suggerisce di tenere sempre presente che il rischio potenziale della “torsione plebiscitaria” non vale solo per gli istituti referendari.

Quando si afferma che i dispositivi c.d. di democrazia deliberativa possono “aprire la partecipazione alla cittadinanza (anche quella “passiva”) assai più profondamente che con qualsiasi altro metodo” (Bobbio 2010, 60), sarebbe necessario un confronto con la partecipazione che si può esprimere mediante gli istituti referendari.

Chiara Sebastiani ha osservato che:

“se la teoria dichiarata suggerisce di attivare processi partecipativi per prevenire conflitti, la teoria in uso sembra mostrare che i processi partecipativi avvengono proprio laddove non c’è conflitto” (Sebastiani 2007, 186).

Il mancato incontro tra domanda e offerta di partecipazione politica dipenderebbe secondo Sebastiani dal fatto che l’offerta è influenzata da fattori quali:

“l’opportunità di intercettare finanziamenti, in particolare dall’Ue; la ricerca di visibilità politica di un’amministrazione o di singoli esponenti …; una autonoma iniziativa di settori dell’amministrazione locale più nuovi e professionalizzati” (ibidem).

Secondo quanto rilevato da alcune ricerche sui sistemi di governo municipale, nel breve periodo, la tendenza in atto è caratterizzata dalla diffusione di un mix tra “democrazia plebiscitaria” (che ha il suo perno centrale nella elezione diretta dei sindaci così come dei presidenti delle regioni e delle province) e “democrazia deliberativa” (che si articola in una varietà di procedure ed esperienze di consultazione e partecipazione di gruppi e di cittadini) (Ramella 2006). Tale mix mantiene gli istituti referendari in una condizione del tutto subalterna; verso di essi permane, di fatto, anche nei Comuni una forte diffidenza.

Processi effettivi di trasformazione dello stato centralistico di impianto napoleonico in stato regionale potrebbero precostituire, nel medio-lungo periodo, un contesto politico-istituzionale per una più ampia diffusione del fenomeno referendario nella vita politica dei Comuni. Il timore, fondato sull’osservazione delle vicende politico istituzionali italiane, è che a quella diffusione non corrisponda un più solido radicamento costituzional-liberale dei principi e una migliore qualità degli istituti referendari comunali.

In Italia, infatti, è un caso più unico che raro quello del gruppo “Initiative für mehr Demokratie – Iniziativa per più democrazia”, attivo nella provincia di Bolzano, specificamente impegnato, da lungo tempo, in una campagna politico-istituzionale per il rafforzamento degli istituti referendari in un contesto così peculiare quali sono quello della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e quello della Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige (Benedikter 2008).

Per concludere davvero possiamo richiamare pochi spunti della riflessione sui rapporti tra il modello del cartel party e la democrazia (Katz/Mair 1995). Con l’avvento del cartel party la democrazia consisterebbe:

“nel tentativo delle élite di accattivarsi il favore del pubblico, piuttosto che nel coinvolgimento del pubblico nella politica … – inoltre – … I partiti sono società di professionisti. Non associazioni di o per i cittadini”

soprattutto

“la democrazia elettorale è sempre più percepita come mezzo attraverso cui i governanti controllano i governati piuttosto che viceversa … – e, infine, – … la demo­crazia cessa di essere considerata un processo attraverso il quale vengono posti limiti e controlli allo stato da parte della società civile, per diventare invece un servizio fornito dallo Stato alla società civile” (ibidem, 54).

Il problema è se e in che misura specifici istituti referendari possono essere strumento efficace di limiti e controlli al potere politico dei governanti da parte dei governati. Dopo oltre un secolo le parole di Giovanni Giolitti hanno ancor più valore e meritano più considerazione di quando vennero pronunciate.

Note

1 Questa affermazione era attribuita al presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti da Giacomo Ferri, sindaco socialista di San Felice sul Panaro (provincia di Parma) durante i lavori del Congresso dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI) svoltosi a Messina, dal 9 all’11 novembre 1902; in quella occasione i rappresentanti dei Comuni membri dell’ANCI discussero quali tipi di referendum fosse preferibile adottare nelle amministrazioni comunali (Gaspari1998, 108).

2 Di problemi di classificazione e tipologizzazione degli istituti referendari ho trattato in Uleri (2003, 57-109). Un testo classico sul fenomeno referendario negli Stati Uniti, Oberholtzer (1912) dedica sette capitoli al “Local referendum”, dal IX al XIV inclusi (218-367) e il XVII (427-453). Sono in numero assai circoscritto le raccolte di saggi sulle esperienze referendarie regionali e comunali, vedi ad esempio Delpérée (1985); Delwit/Pilet/Reynaert e Steyvers (2007).

3 Un ampio elenco dei referendum obbligatori sulle aziende municipalizzate è in Appendice a Basile (1994, 287-315).

4 Quel numero della rivista era di carattere monografico ed era dedicato a La democrazia diretta in Svizzera e California.

5 L’espressione è in Francesco Giavazzi “La rendita dei comuni – Centrodestra e servizi pubblici”, in Corriere della Sera, 1 settembre 2008.

6 Sergio Cofferati in “Le rendite? I comuni non le hanno, lo Stato sì”, in Corriere della Sera, in risposta all’articolo di Giavazzi citato nella nota precedente; Cofferati è stato per alcuni anni segretario generale della Confederazione Generale dei Lavoratori Italiani (Cgil).

7 La letteratura, specie quella giuridica, è assai ricca: Pizzetti (1998); Caretti/Tarli-Barbieri (2007); Vandelli (20073), in particolare per il caso italiano, 23-55 e per il quadro comparato, 239-250; Pizzetti/Poggi (2007); Torre (2007). Analisi di carattere politologico sono quelle di Baldi/Baldini in Ventura (2008, 69-112); Cotta/Verzichelli (2008, 187-213); Baccetti (2008, in particolare 94-119); Baldi (2003), in particolare per il caso italiano in prospettiva comparata vedi il cap. 4: “Regionalismo e federalizzazione negli stati unitari”, 108-148; per un’analisi comparata Bobbio (2002).

8 L’osservazione e l’analisi empirica sono difficili non solo per ragioni intrinseche al carattere regionale e comunale ma anche per la difficoltà di reperire in archivi ufficiali online informazioni e dati sulle votazioni referendarie regionali e comunali.

9 Corsivo aggiunto

10 “devono” messo in risalto dall’autore

11 Un’analisi ampia e dettagliata delle molteplici forme di partecipazione dei cittadini nelle autonomie locali, prevista dalla legge 142 del 1990, e della loro attuazione negli statuti comunali è svolta da Zucchetti (1992, 160-190). Si possono vedere anche Barrera (1992); Di Giovine in: Luciani/Volpi (1992, 150-176), poi in Di Giovine (2001); Lazzaro (1999), tutti di carattere giuridico. La rivista Amministrare (anno XXIX, n. 2, 1999) ha dedicato un numero monografico al tema La democrazia diretta locale in Svizzera e in California.

12 Senato, 18 aprile 1990.

13 “restrittiva” messo in risalto dall’autore

14 Luciano Vandelli ha curato la pubblicazione di un fascicolo monografico della rivista Regione e Governo Locale (anno VII, nn. 3-5) dedicata al tema Referendum e democrazia diretta a livello locale, con alcuni articoli anche su esperienze straniere. Vandelli ha espresso brevi riflessioni critiche sulle esperienze referendarie locali in Vandelli (1997, 76-78).

15 È ad esempio il caso degli Statuti comunali di Aosta (articoli 30 e 31), Torino (art. 16), Trento (referendum di iniziativa popolare di carattere consultivo, propositivo e abrogativo), Trieste (art. 8), Venezia (art. 28/bis e 28/ter.), Reggio-Emilia (art. 64), Perugia (art. 20), Ancona (art. 19), Roma (art. 10), Catania (art. 47), Bari (art. 42), Reggio Calabria (art. 21).

16 È ad esempio il caso degli Statuti comunali di Genova (art. 24), Bolzano (art. 50), Bologna (art. 7), Firenze (art. 101), L’Aquila (art. 11), Cagliari (art. 66), Palermo (art. 17).

17 È ad esempio il caso degli Statuti comunali che prevedono il referendum di iniziativa popolare per la revisione dello Statuto: Statuti comunali di Sassari (art. 122), di Napoli (art. 93).

18 Promotori della consultazione sono stati un consigliere comunale della minoranza di centro, di ispirazione democratico-cristiana, che anni addietro aveva già promosso un referendum di quartiere, e una serie di comitati di cittadini dei vari quartieri interessati dal passaggio delle due linee tranviarie. L’inizio del regolare servizio della prima linea è previsto per il 14 febbraio 2010.

19 120 parole il primo quesito, 750 il secondo (www.notraffico.org/content.aspx?idcont=1139)

20 Per Il testo integrale della sentenza vedi la pagina web www.giustizia-amministrativa.it/Documenti
GA/Lecce/Sezione%201/2009/200900354/Provvedimenti/200901872_01.XML

21 Montescudaio e Monteverdi Marittimo.

22 Secondo quanto riportato da un articolo del Corriere della Sera del 30 dicembre 2009.

23 In un articolo di Luigi Offeddu, sul Corriere della Sera del 15 Ottobre 2000, che da conto di una “Marcia anti-Islam, Forza Italia con la Lega Azzurri e lumbard uniti contro la costruzione di una moschea: musulmani via da Lodi” si può leggere di un cartello che campeggia sul prato: “Terra concimata con urina di porco”. Qualche anno dopo, un articolo di Gianna Fregonara, sul Corriere della Sera del 14 Settembre 2000, dava conto della sfida del “Maiale day anti moschea” lanciata dal Vice-Presidente leghista del Senato Roberto Calderoli contro l’ipotesi di costruzione di una mosche nella città di Bologna.

24 “Moschee, la legge-muro della Lega “Non deve nascerne una ogni 4 ore”. Referendum obbligatori, divieto di minareti e preghiere degli imam in italiano”, Corriere della Sera, 22 agosto 2008, articolo di Alessandro Trocino.

25 http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/genova/2008/07/20/1101639241774-referendum-incostituzionale.shtml; www.gruppoanregioneliguria.it/; http://archiviostorico.corriere.it/2007/ottobre/06/referendum_cittadini_sulle_nuove_moschee.

26 Si vedano le pagine sul sito web del Comune: www.comune.colle-di-val-d-elsa.si.it/cgi-bin/htsearch e www.comune.colle-di-val-d-elsa.si.it/cgi-bin/htsearch?config=colleve&restrict=&exclude=&method=and&format=builtin-long&sort=score&words=moschea. Sulla vicenda, che è stata al centro di numerosi e importanti articoli su quotidiani nazionali quali il Corriere della Sera, è stato girato un film-documentario di 67 minuti intitolato “Minareto Mille Punti. Un viaggio nell’Islam che c’è già” di Farian Sabahi e di Edoardo Camurri, ideato e diretto da Pietro Raschillà. Per un breve resoconto del dibattito in Parlamento si può vedere www.osservatoriosullalegalita.org/06/acom/12dic2/1145immigraita.htm

27 Per un’analisi sui rapporti tra società locali, subculture politiche e immigrazione, con specifico riferimento a esperienze di Veneto e Toscana, si veda il saggio di Comelli/Carrai in: Baccetti/Messina (2009, 138-190).

28 I nodi cruciali dell’agenda politico-amministrativa di Venezia, tra cui quello dell’area di Marghera, sono stati riassunti in termini assai efficaci da Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 18 gennaio 2010: http://archiviostorico.corriere.it/2010/gennaio/18/Quattro_Questioni_Vitali_per_Venezia_co_9_100118045.shtml.

29 Per informazioni più ampie e dettagliate vedi il sito web: www.comunichecambianoregione.org/
presentazione.php, dal quale ho ricavato la maggior parte delle informazioni qui riportate; vedi anche i siti web collegati.

30 Vedi il “Titolo III” della legge n. 352, articoli 41-47.

31 Corte Costituzionale, sentenza n. 334 del 2004, con riferimento all’art. 42, comma secondo, della legge n. 352.

32 Il primo comune nel quale si è svolto questo tipo di referendum è stato San Michele al Tagliamento. www.comunesanmichele.it.

33 Franco Romanin e Francesco Frattolin, rispettivamente “delegato effettivo” e “delegato supplente” del Comune di San Michele al Tagliamento.

34 Tra di essi sette Comuni detti della Valmarecchia: www.unavalmarecchia.org.

35 Consiglio dei Ministri n. 44 del 30 marzo 2007. Disegno di legge costituzionale: Modifica all’articolo 132, secondo comma, della Costituzione, in tema di distacco ed aggregazione di comuni e province.

36 Le ragioni del Movimento per l’Autonomia della Romagna (MAR), la cui costituzione risale al 1990, sono esposte nel sito web del Movimento, www.regioneromagna.org.

37 Vedi la notizia “Referendum Regione Romagna, baruffa in Consiglio comunale” su Il Resto del Carlino di Forlì http://ilrestodelcarlino.ilsole24ore.com/forli/cronaca/2010/01/12/279504-referendum.shtml.

38 Il progetto è denominato Grande Lucania: www.grandelucania.it/index.htm. Lucania era il nome di un’antica regione dell’Italia meridionale le cui origini risalgono al III secolo a. C.

39 http://referendum2007.regione.fvg.it.

40 Si è trattato infatti di un referendum regionale.

41 La nozione di “democrazia radicale” abbraccia un’ampia varietà di referenti teorici ed empirici, per una prospettiva di storiografia politica si può vedere Ridolfi (2005). Tuttavia qui il riferimento principale è a contributi di teoria e ideologia politica che spaziano dal neo-repubblicanesimo al neo-marxismo: per un primo approccio si possono vedere i saggi raccolti in un numero monografico dedicato alla Democrazia Radicale, a cura di Nicola Bellanca ed Ernesto Screpanti in: Il Ponte (agosto-settembre 2007).

42 Sulla teoria e le esperienze di democrazia deliberativa, oltre alla vastissima letteratura internazionale, vi è anche un’ampia letteratura in lingua italiana; mi limito a pochi riferimenti bibliografici: gli articoli del numero monografico dedicato al tema delle Politiche pubbliche e pratiche partecipative nella rivista “Stato e Mercato”, n. 1, 2005; i volumi curati da Gelli (2005) e Bobbio (2007); la riflessione critica di Giannetti (2007). In una prospettiva teorica che va oltre il tema della democrazia deliberativa sono di particolare interesse le relazioni e i rapporti di ricerca presentati nell’ambito di una conferenza internazionale promossa dalla Provincia Autonoma di Trento sul tema “Quality of Democracy, Governance and Participation: the local perspective”, Trento, 23–24 maggio 2008. Il fatto che di referendum tratti la relazione della studiosa tedesca Brigitte Geissel ma non le relazioni degli studiosi italiani forse non è una semplice curiosità frutto del caso.

43 La legge è illustrata da Floridia [2008].

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Abstracts

Gemeindereferenden in Italien: die ­ungeliebte „Mitbestimmung“

In Italien gehen die Ursprünge der Debatte und der Erfahrungen um die Gemeindereferenden auf das liberale Zeitalter zurück. Mit dem Giolitti-Gesetz der Kommunalisierung (Gesetz Nr. 103 von 1903) wurde der Grundstein für die erste Form von gesetzlich vorgesehenen Volksabstimmungen in Italien gelegt: das obligatorische Gemeindereferendum über die Genehmigung der Beschlüsse der Gemeinderäte in Bezug auf die gemeindeeigenen öffentlichen Dienste. Die Verfassung von 1948 sieht mehrere Arten von nationalen Volksbefragungen vor: über einfache Gesetze (Art. 75), über Verfassungsgesetze (Art. 138) und regionale Volksbefragungen (Art. 123). Als Grundsatz und Form ist die Volksabstimmung über Verordnungen der Gemeindeverwaltung nicht vorgesehen. Trotzdem führen die Artikel 132 und 133 der Verfassung eine Art von lokal-kommunalem Referendum über territoriale Fragen ein. Seit Ende der 70er-Jahre und insbesondere im Laufe der 80er-Jahre mehren sich die Fälle von Gemeindereferenden. Beginnend mit dem allgemeinen Gesetz über die lokalen Autonomien (1990) und dann mit dem Einheitstext über die Ordnung der Gemeindeautonomien (2000) ist die Möglichkeit vorgesehen, dass die Gemeindesatzungen Institute der direkten Demokratie mit beratendem Charakter beinhalten können.

Referendums de comun tla Talia:

la “partezipaziun” che ne plej nia

Les raîsc dla discusciun y dles esperiënzes ai referendums de comun va derevers tla Talia al tëmp liberal. La Lege Giolitti sön les comunalisaziuns (lege n. 103 dl 1903) à metü sö la pröma forma de referendum odüda danfora dala lege tla Talia: le referendum de comun obligatore por ratifiché les deliberes di consëis de comun en cunt di sorvisc publics comunalisà. La Costituziun dl 1948 vëiga danfora formes importantes de istituć referendars por i referendums nazionai sön leges ordinares (art. 75) y costituzionales (art. 138) y por i referendums regionai (art. 123). Ara vëiga deperpo danfora, en general, le prinzip y l’istitut referendar sön provedimënć dl’aministraziun de comun. I articui 132 y 133 indere dla Costituziun mët sö na sort de “referendum local-comunal sön chestiuns teritoriales”. A pié ia dala fin di agn Setanta y dantadöt tratan i agn Otanta metunse man de registré caji de referendums de comun. Impröma cun la lege generala sön les autonomies locales (1990) spo cun le Test unich dles leges sön l’ordinamënt dles autonomies de comun (2000) él gnü odü danfora la poscibilité che i Statuć de comun surantoles istituć referendars de carater “consultif”.

Municipal Referendums in Italy:
“Participation” that is Disliked

In Italy, the origins of debate and experiences of municipal referendums go back to liberal times. The Giolitti Law of municipalisation (Act No. 103 of 1903) established the first form of referendum provided by law in Italy: the municipal binding referendum for ratification of local council decisions on matters of municipal public services. The Constitution of 1948 provided for broad systems of referendums: national referendums on ordinary laws (Article 75), constitutional laws (Article 138) and regional referendums (Article 123). It did not, however, generally envisage the referendum principle and scheme on a municipal level. Still, Articles 132 and 133 of the Constitution do institute a sort of local municipal referendum on territorial issues. Beginning in the late seventies, especially during the eighties, we start to see cases of municipal referendums. The General Law on Local Autonomies (1990) and, later, the Consolidated Act of Laws on the Rules of Municipal Autonomies (2000) do provide the possibility of adopting consultative, or non-binding, referendums to municipal charters.