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3. Essay: Kritische Bewertung des Jahres 2009

Saggio: Sintesi e interpretazione dell’anno politico 2009

Lidia Menapace

L’Anno Nove tra conservazione
e innovazione

Das Jahr Neun zwischen
Bewahrung und Erneuerung

L’anno che sta alle nostre spalle è un Anno Nove, mi dicevo spesso, attendendo qualcosa di straordinario secondo il destino di questa nostra terra: infatti se si parte dal 1809, l’anno di Andreas Hofer e poi il 1919, il funesto anno del Trattato di Versailles, così è stato. Ma il 2009 non mi pare abbia risposto alle attese, almeno alle mie. Anche le celebrazioni hoferiane hanno avuto un carattere rituale un po’ noioso. Un anno di quasi ordinaria amministrazione, se qualcosa di straordinario può succedere qui.

Ma gli aspetti un po’ dimessi del 2009 mi consentono di fare un breve preambolo sul modo col quale la nostra piccola patria partecipa alla grande storia, sempre un po’ ai margini o di passaggio.

A partire dallo sconvolgimento europeo provocato dalla Rivoluzione francese che qui da noi risultò capace di provocare un episodio in fin dei conti vandeano, con un senso identitario molto forte: da quel fatidico Anno Nove il Tirolo segnala la propria posizione tradizionale, addirittura tradizionalista, che lo colloca anche nel grande mondo dello “Sprachraum” tedesco in posizione specifica. E tra le culture politiche nelle isole, o di montagna (Baschi) o di mare (Sardegna). Le simpatie, a parte la severa fedeltà all’imperatore, non vanno tanto a Vienna, città cosmopolita progressista e laica, ma alla Baviera (stockkatholisch), come si avverte alla fine della prima guerra mondiale, quando il Tirolo di lingua tedesca subisce lo shock fortissimo e drammatico della separazione dalla sua millenaria storia (dal Sacro Impero romano-germanico del Natale del nono secolo, da Carlo Magno, al Sacro Imperatore Francesco Giuseppe del decimonono): tuttavia anche questo traumaticissimo evento (che si ripete con altre forme, ma ancora con non minore dolore e umiliazione dopo la seconda guerra mondiale) ha caratteristiche specifiche, ricambiate da Vienna con non grande interesse, tanto che le simpatie e i progetti, dopo aver sperimentato che non era affidabile il presidente Usa, che aveva lanciato l’autodeterminazione dei popoli come criterio di ricomposizione dell’Europa dopo i massacri della Grande Guerra, si volsero a un orizzonte più chiuso in sé. Anche dopo la seconda guerra mondiale durante la trattativa per il Trattato di Parigi, il ministro degli Esteri austriaco mostrò assai minore attaccamento e conoscenza del problema che il Presidente del Consiglio italiano Degasperi. Ma non oso pensare che cosa sarebbe successo se al suo posto ci fosse stato un qualsiasi altro uomo politico antifascista: Degasperi conosceva la questione bene perché era trentino, non perché era italiano.

Ma della persistenza culturale della storia qui accennata è testimonianza la dichiarazione, resa da Adenauer a nome anche di Degasperi e Schuman (i padri dell’Europa), quando volendo rassicurare l’opinione laica (e tutti e tre i padri citati erano cristiani) disse che non volevano rifare l’Europa di Carlo Magno. Teniamo presenti queste caratteristiche di marginalità che si colorano di tradizionalismo (la presenza della religione cattolica nella vita politica) e insieme di modernità (il principio di nazionalità).

L’attaccamento a Vienna molto minore che la simpatia per la Baviera, si vide già alla fine della prima guerra mondiale, come dicevo. Ma i legami con l’estrema destra europea si colsero invece durante il periodo del cosiddetto “terrorismo” sudtirolese, quando nelle vicende dei fuochi e dei tralicci si scoprì che oltre all’Oas francese erano coinvolti i circoli ultranazionalisti bavaresi. Ancora infatti tra il tradizionalismo “risorgimentale” cattolico del Nordtirolo con il simbolo religioso della corona di spine e il neonazismo di circoli germanici vi era una bella differenza. Vi era e forse sta lentamente cambiando.

Quando Vienna resistette all’“Anschluss”, lo fece anche perché era la città del Karl-Marx-Hof, un modello di urbanistica socialista avanzata, ed era lì molto forte il cosiddetto austromarxismo e il partito socialdemocratico. Un contesto politico poco amato in Tirolo e parlo del Tirolo storico, incluso quello che allora si chiamava Tirolo meridionale e oggi Trentino (la ferrovia Innsbruck–Verona era ancora per mio suocero “la meridionale”) (e chissà che dopo le meraviglie dell’Altavelocità non ci convenga cercare che si chiami ancora così).

Vorrei concludere questo preambolo, svolto senza continuità storiografica, cui non ambisce, dato il carattere del presente contributo, affermando che la grande storia passa qui da noi sempre o almeno di frequente con una specie di doppia linea, quella cattolica tradizionale e un’altra “moderna”.

Donde ha origine e fondamento quest’ultima? Ciò che vado affermando non avviene per canali così distinti come li narro, tutto è più incrociato e misto, ma mi preme, anche forzando un po’ la scientificità storiografica, sottolineare il carattere composito del patrimonio storico del Tirolo e vedere se a questo specifico carattere è legata una possibile ipotesi di futuro.

In questo senso il 2009 torna ad essere un anno cruciale, anche se le differenti opzioni appaiono lente e non ben definite, mescolate e incerte: ma ciò dipende dal fatto che tutta la politica è da una decina d’anni molto confusa in Italia e ciò in parte si riverbera anche nel Sudtirolo, e che l’Europa fa passi molto lenti e ambigui e non sembra avere un interesse politico significativo per noi. Questo ci carica di maggiori responsabilità e ci obbliga a renderci conto che i prossimi anni possono essere anni di grandi scelte e che – come sempre qui – possiamo fare scelte rivolte al futuro o ripiegate solo su un non tanto onorevole (per ambedue le lingue maggioritarie) passato prossimo.

I Sudtirolesi di lingua tedesca e i Sudtirolesi di lingua italiana costituiscono ormai due culture locali significative, con diverso radicamento storico e sociale, operai, pubblico impiego, insegnanti, professionisti quelli di lingua italiana, collocati in prevalenza nelle città o nella Valdadige meridionale; contadini professionisti commercianti albergatori pubblico impiego quelli di lingua tedesca, presenti su tutto il territorio della provincia, città e campagne, fondovalli e montagna. I Ladini, che sono la popolazione di più antico e stabile radicamento, segnalano la grande area ladina dell’arco alpino tra Grigioni, Val Badia, Val Gardena, Val di Fassa e Fiem­me e ancora quelli del Friuli, affacciati o collocati in vari stati (Svizzera, Italia, Austria e area balcanica slovena): sono socialmente variegati e culturalmente molto flessibili.

Mi trattengo un momento a dar conto della nomenclatura che uso: chiamo Sudtirolo la terra che i suoi abitanti maggioritari chiamano Sudtirolo, e questa è per me una regola generale: chiamo infatti Curdi e non Turchi di montagna i Curdi, e riconosco al popolo Sarawi il diritto di non voler essere assimilato al Marocco, e Armeni sono anche quelli fuori dei confini dell’Armenia storica. A tutti quelli che abitano un territorio riconosco il diritto di chiamarsi col nome che il territorio ha; estendo il nome del territorio anche a popolazioni di più recente arrivo e distribuzione territoriale meno diffusa per ricordare che questa porzione di popolazione esercita tutti i diritti dei residenti più antichi, avendo ottenuto un riconoscimento e dato assicurazione che non avrebbe messo in atto politiche di assimilazione. In generale i rapporti tra popolazioni diverse in un territorio sono di difficile nominazione, e bisogna procedere per tentativi. Basta vedere il passaggio da “nigger” a “coloured” a “afroamerican” o da “indio” a “nativo”.

Non uso mai il riferimento a una ipotetica “etnia”, bensì alla lingua parlata, che è un civile e storico termine di identificazione e appartenenza, ma non ha carattere esclusivo e immobile, come invece ha il termine “etnia” privo di qualsiasi fondamento scientifico e collocato in una cultura irrazionalista “Blut und Boden”. Usare queste locuzioni invece di dire “italiani”e “tedeschi” è una scelta che faccio da tempo costantemente, sperando che prima o poi entri nell’uso. Cultura o lingua sono termini che fanno sperimentare la storia come è stata vissuta e può essere comunicata appresa, interpretata criticamente. Questo è utile, mentre è impossibile misurarsi sulle etnie che spingono solo alla guerra spesso anche guerreggiata come si vede in Iraq e Afghanistan. O, se si vuole un precedente meno esotico, però più lontano nel tempo basta pensare che cosa furono le guerre di religione in Europa, concluse con quel mostro giuridico del Trattato di Westfalia (1648): cujus regio, ejus religio. Né è meno truce e impossibile da gestire politicamente la definizione della nazionalità italiana così come venne formulata all’inizio del Risorgimento: “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”, un delirio di unità e uniformità, fino alla religione, la “razza” cioè il sangue e un indefinito sentimento (cor).

Mentre dunque le culture politiche e le basi sociali (contadini di montagna da una parte e classe operaia importata dall’altra) sembrano portare a contrapposizioni facilmente strumentalizzabili, le caratteristiche geopolitiche del paese, cioè di essere un’area di passaggio commerci comunicazione transito fiere mercati, anche eserciti, e strade e ferrovie tra il nord e il sud d’Europa mostrano l’altro aspetto di questa terra, ben visibile nell’antichità della Fiera di Bolzano, nella struttura urbanistica del centro storico, simile in tutte le città mercantili europee da Cava dei Tirreni a Danzica: una lunga strada con le alte e strette case dei mercanti (perché il terreno vale molto) lungo la quale vengono esposte le merci che i clienti possono scegliere e acquistare al riparo dal maltempo, e dietro ci sono i magazzini e sopra l’abitazione del mercante. Questo tipo di città non ha mura per la difesa militare appunto perché sono città che ospitano pacifici traffici commerciali. Le donne vi hanno un ruolo pubblico, le mercantesse di Bolzano sono “cittadine” e hanno diritti, come le mercantesse fiorentine che tengono la contabilità dei commerci esercitati dai mariti e inventano la partita doppia. E una signora fiorentina, di una famiglia diventata aristocratica dopo avere esercitato i commerci, vedova di un conte del Tirolo, ovvero Claudia de’Medici, in nome del figlio minore esercita il potere politico e quello economico, taglia perpendicolarmente la via dei portici e piazza a un capo la Zecca dove i fiorentini battono moneta, il fiorino che era l’euro del tempo e fa costruire all’altro capo della perpendicolare un bel palazzotto di stile toscano per fare la prima Camera di Commercio, attraversando le case di stile gotico dei mercanti bolzanini. E perché sia chiaro con chi si sta trattando e che quella è una zona di libero scambio, i portici sono “deutsch” da una parte e “welsch” di fronte.

Segnalo così l’altro aspetto di questa terra. E qui Bolzano incontra il suo destino europeo. E mentre Merano fonda la sua caratteristica aristocratica (molti “von” sono meranesi) o comunque pingue: ospita i pensionati di alto grado dell’Impero e il turismo più antico e ricco nei suoi splendidi alberghi, e Bressanone è la cittadella ecclesiastica di assai notevole importanza teologica, Bolzano è la città mercantile, di una mercatura colta che a me fa venire in mente i “Buddenbrooks” di Thomas Mann, e cioè una mercatura raffinata amante della musica e delle arti, che avverte come un pericolo le contrapposizioni frontali e usa anche in politica le capacità di mediazione e di accordo che l’ha resa grande ricca e importante nella città e nel Sudtirolo. Bolzano città di incontri fatta diventare dal fascismo città di scontri può recuperare la sua funzione simbolica di importante crocicchio europeo.

Possono ripresentarsi occasioni grandi per uscire da un certo piccolo respiro e per giocare invece l’opportunità di essere luogo di incontro, scambio e dialogo in un continente difficile, ma senza il quale e la sua storia l’intera storia del pianeta sarebbe tanto più piatta e scialba? Infatti Europa vuol dire molteplicità, differenza, ricchezza di molte civiltà, difficili intrecci, ma anche la possibilità di scrivere futuri di pace o di distruzione. In Europa ci sono le radici di tutto.

E se vogliamo arrivare ai nostri giorni, possiamo constatare che la molteplicità europea incomincia dalle lingue (quasi tutte le grandi lingue culturali che ci sono al mondo sono europee); e che in Europa lo scontro tra civiltà storie religioni è stato lungo assolutamente importante e alla fine esemplare per la storia umana.

Possiamo individuare aree limiti confini incroci tra differenti storie in alcuni punti d’Europa e generalmente sono collocati sulle pendici di zone montagnose. I Pirenei con le popolazioni basche sui due versanti, quello spagnolo e quello francese; le popolazioni tra Italia e Francia, che parlano il patois in Aosta e Savoia, il provenzale in Liguria e Provenza; lo sloveno tra Venezia Giulia e Slovenia; nel Cantone Ticino si parla lo stesso dialetto lombardo usato entro i confini italiani.

Se le caratteristiche geofisiche sono chiare e segnalano più d’una euregio “naturale” nel continente, la storia ha invece spesso cristallizzato i confini e sostenuto e sospinto le differenti lingue l’una contro l’altra. Il caso più clamoroso è stato quello dei continui revanscismi tra Francia e Germania per l’Alsazia e la Lorena. Ma anche le incerte appartenenze nazionali dei paesi delle grandi pianure della Mitteleuropa pur segnate dai grandi fiumi Reno, Danubio, Oder, Neisse. Sembra un destino in Europa: o si riesce a vivere la mescolata molteplicità delle lingue tradizioni storie religioni o finiamo per ucciderci da soli o tra noi, in senso reale o simbolico. Un grande evento però ha potuto realizzarsi senza ricorso alla guerra ed è la prova che d’ora in avanti in Europa i confini si spostano solo attraverso la politica e la diplomazia, che si tratti di Tirolo o di Cipro: ed è la riunificazione della Germania.

Saremo capaci di stare in questo spazio politico? Occorre molto esercizio demo­cratico: e sotto questo profilo i presagi non sono buoni: sia il referendum per mutare il nome di piazza della Vittoria, che i più recenti e vari dello scorso anno non hanno avuto buon esito: la situazione politico-partitica qui da noi è ancora troppo rigida, diffidente e governata dall’alto: ma si può agire per superare tutto ciò.

Dunque la storia recente sembra decisamente indicarci una euregio nel nostro futuro. Una regione europea che riunifichi il Tirolo storico fotografando la situazione data con le caratteristiche che ha assunto durante il secolo XX. Ma perché non succede, perché se ne parla poco? Il ministro degli Esteri italiano prontamente interviene per dire un secco no, che non si può discutere la sovranità territoriale italiana. Una vera gaffe, dopo aver addirittura lasciato passare la riesumazione del decreto Tolomei. Il fatto è che negli ultimi anni l’orizzonte politico-partitico quassù è molto mutato e non in bene. La presenza della Lega tra i partiti della popolazione di lingua italiana e l’affermarsi dei Freiheitlichen tra quella di lingua tedesca mette nel contesto delle culture politiche spesso molto rozze.

Come usare positivamente queste difficoltà? Al ministro Frattini basta ricordare il comma “europeista” dell’art. 11 della Costituzione dove dice che noi possiamo ridurre la sovranità sul nostro territorio purché in modo bilaterale e reciproco. E alle forze politiche citate riconoscere una freschezza che spesso è brutalità e violenza, ma serve ottimamente per capire che non ci sono dogmi né nascondigli in politica. Dunque accettiamo che tutto debba e possa essere riletto, ridiscusso, giudicato criticamente, a partire dai Trattati di pace. Certamente avere partiti politici di maggior respiro cultura profondità sarebbe bello: quanto si è atteso che nella popolazione di lingua tedesca avvenisse una qualche articolazione socialdemocratica: invece abbiamo un partito di destra politicamente e iperliberista economicamente. Ma non possiamo permettere che queste formazioni politiche scadenti ci sottraggano una opportunità enorme che può aprirsi in Europa.

Credo infatti che siamo prossimi a poter porre la questione di una Europa federale negli ordinamenti, e militarmente neutrale, e che in quel contesto si debba avanzare la richiesta di poter istituire euregioni ovunque se ne avverta l’esigenza storica, in alcuni dei territori che ho elencato fin qui. Mettere in piedi gruppi di studio per generalizzare ipotesi di territori a doppia sovranità o istituire delle sovranità miste, insomma qui si profila una sfida di ricerca e di cultura politica che aprirebbe un futuro e non sempre solo nostalgie e identità minori.

Infatti invece di chiedere che il Sudtirolo sia citato nella Costituzione austriaca (e come la mettiamo col Trattato di Parigi che è quello che consente l’ancoraggio internazionale?), meglio prevedere un modello di istituzioni che non siano sempre eccezionali speciali specifiche, ma generalizzabili e che non mirino a conservare un qualche parco storico-archeologico, ma si affaccino a un futuro di flessibilità ricchezza innovazione: insomma idee politiche che sviluppino anche la fantasia, una qualità che ci manca un po’, in mezzo a tutte le nostre virtù (efficienza, abilità, correttezza, attaccamento alla terra e al lavoro, un patrimonio che ci ha anche consentito di stare nella crisi con difficoltà minori delle altre regioni), ma che forse ci farà restare un po’ indietro, se si tratterà di disegnare un futuro non ripetitivo.

A questo punto a voler ripensare all’anno Nove si scopre che nel 1909 nacque Josef Mayr Nusser, il sudtirolese esemplare avversario del nazismo, mandato a morire nei campi di sterminio poco prima della fine della seconda guerra mondiale, ecco lui possiamo ricordare; o Friedl Volgger che dai campi di sterminio tornò, e quelli di lingua italiana e di lingua tedesca, che passarono per il campo di concentramento di Bolzano. Quei sudtirolesi senza storia che Poldi Steurer, Martha Verdorfer e Walter Pichler hanno studiato sotto il suggestivo titolo di “Verfolgt, Verfemt, Vergessen”: e se da queste comuni dimenticanze dovesse venire una memoria pacificata, molto bene sarebbe.

Das Jahr, das wir nun hinter uns haben, war ein „Neuner-Jahr“. Ausgehend von 1809, dem Andreas-Hofer-Jahr, und von 1919, dem verhängnisvollen Jahr des Versailler Vertrages, sagte ich mir das oft, da ich für das Schicksal unseres Landes etwas­ Außergewöhnliches erwartete. Aber das Jahr 2009 scheint nicht den Erwartungen entsprochen zu haben, wenigstens nicht den meinen. Auch die Andreas-Hofer­-Feiern hatten einen rituellen, etwas langweiligen Charakter. Ein eher gewöhnliches Regierungsjahr – wenn denn von der Regierung überhaupt etwas Außergewöhnliches erwartet werden kann.

Aber die etwas bescheidene Gestalt des Jahres 2009 gestattet mir eine kurze Vorbemerkung zur Art und Weise, mit der unsere kleine Heimat an der großen Geschichte teilnimmt: nämlich immer ein wenig am Rande oder beiläufig.

Angefangen bei der Umwälzung Europas durch die Französische Revolution, die in unserem Land letztlich Kaisertreue und identitätsstiftende Gefühle stärkte, signalisiert Tirol seit jenem schicksalsträchtigen Jahr Neun seine eigene traditionelle, geradezu traditionalistische Haltung, die das Land auch innerhalb des deutschen Sprachraumes auf spezifische Art positioniert, wie auch innerhalb der politischen Kultur von Inseln, Bergregionen (Basken) oder dem Meer (Sardinien). Abgesehen von der strengen Kaisertreue war die Verbundenheit mit Wien, der fortschrittlichen und kosmopolitischen Weltstadt, weniger stark als mit dem stockkatholischen Bayern. Am Ende des Ersten Weltkrieges zeigte sich dies wieder, als Deutschtirol den dramatischen Schock der Trennung von seiner tausendjährigen Geschichte erleidet – der Trennung vom Heiligen Römischen Reich Deutscher Nation, beginnend unter Karl dem Großen im 9. Jahrhundert bis hin zu Kaiser Franz Joseph im 19. Jahrhundert. Doch dieses traumatische Ereignis, das sich in anderer Form, aber mit nicht weniger Leid und Demütigung nach dem Zweiten Weltkrieg wiederholt, weckt in Wien nur geringes Interesse. Dazu kam die Erfahrung, dass dem US-Präsidenten, der nach den Massakern des Weltkrieges die Selbstbestimmung der Völker als Kriterium der Neugestaltung Europas lanciert hatte, nicht zu trauen war. All dies hatte zur Folge, dass sich die kulturellen Handlungsspielräume unseres Landes zunehmend auf einen in sich gekehrten Horizont beschränkten. Auch nach dem Zweiten Weltkrieg, während der Verhandlungen des Pariser Vertrages, zeigte der österreichische Außenminister weit weniger Hingabe und Problembewusstsein als der italienische Ministerpräsident Degasperi. Was allerdings passiert wäre, wenn damals ein anderer antifaschistischer Politiker dieses Amt innegehabt hätte, bleibt offen. Degasperi war jedenfalls mit der Problematik vertraut, weil er Trentiner, nicht weil er Italiener war.

Von der hier angedeuteten Kontinuität der Geschichte zeugt nicht zuletzt Adenauers Deklaration, unterstützt auch von Degaspari und Schuman, den Vätern Europas, in der die laizistische Öffentlichkeit (waren doch alle drei erwähnten „Gründer Europas“ christlich) beruhigt werden sollte, dass man nicht das Europa Karls des Großen wiederherzustellen gedenke. Man muss sich daher die Merkmale der Randständigkeit vor Augen halten, die im Kleid des Traditionalismus – der Präsenz der katholischen Religion im politischen Leben – und auch der Moderne – dem Prinzip der Nationalität – auftreten.

Wie bereits erwähnt, zeigte sich die weitaus geringere Verbundenheit mit Wien im Gegensatz zur Sympathie für Bayern bereits am Ende des Ersten Weltkrieges. Die Verbindungen mit der extremen Rechten Europas wurden dagegen in der Zeit des sogenannten Südtiroler „Terrorismus“ offenkundig, als man im Zusammenhang mit den Sprengungen entdeckte, dass neben der französischen Untergrundbewegung OAS auch ultranationalistische Kreise aus Bayern beteiligt waren. Zwischen dem auf Wiedervereinigung (im Sinne des „Risorgimento“) bedachten katholischen Traditionalismus Nordtirols mit der Dornenkrone als religiösem Symbol und dem Neonazismus der germanischen Kreise gab es allerdings einen gewaltigen Unterschied. Es gab ihn, doch möglicherweise beginnt sich dies zu verändern.

Als Wien gegen den Anschluss Widerstand leistete, geschah dies nicht zuletzt, weil es die Stadt des Karl-Marx-Hofs war, ein Vorbild sozialistisch-fortschrittlicher Urbanistik, wo der so genannte Austromarxismus und die Sozialdemokratische Partei starken Rückhalt besaßen – eine in Tirol wenig geschätzte Weltanschauung. Gemeint ist dabei das gesamte historische Tirol inklusive jenem Teil, der damals „Südtirol“ hieß und heute das Trentino ist (die Bahnstrecke Innsbruck–Verona war für meinen Schwiegervater noch die „Südbahn“, und wer weiß, ob es sich angesichts der Hochgeschwindigkeitszüge nicht lohnen würde, sie wieder so zu nennen.)

Ich möchte diese Einleitung, die aufgrund des Charakters meines Beitrages keine historische Vollständigkeit anstrebt, mit der Bemerkung abschließen, dass die große Geschichte in unserem Land immer oder wenigstens für gewöhnlich in einer Art doppelten Linie verläuft, in einer katholisch-traditionellen sowie einer modernen.

Wo liegen nun Ursprung und Grundlage der Letztgenannten? Was ich im Folgenden aufzeigen möchte, lässt sich in der Realität nicht so klar voneinander trennen wie in diesem Essay, denn es ist weitaus verworrener und verstrickter. Dennoch möchte ich, auch im Bemühen um eine wissenschaftliche Geschichtsschreibung, den vielschichtigen Charakter des historischen Erbes von Tirol unterstreichen und sehen, ob sich daraus eine mögliche Annahme über die Zukunft ableiten lässt.

In diesem Sinn war 2009 doch ein entscheidendes Jahr, auch wenn die Entscheidungen nur langsam ans Licht kommen und nicht eindeutig definiert, vielmehr durcheinander und unklar sind: Das hängt jedoch damit zusammen, dass sich in Italien die Politik bereits seit einem Jahrzehnt sehr verworren zeigt – mit Auswirkung auch auf Südtirol – und dass Europa sich nur langsam und zweideutig weiterentwickelt und kein signifikantes politisches Interesse für uns zu haben scheint. Aus diesem Grund tragen wir noch größere Verantwortung und müssen ein Bewusstsein dafür entwickeln, dass die nächsten Jahre ausschlaggebende Entscheidungen mit sich bringen können. Diese Entscheidungen können sich – wie immer in unserem Land – entweder auf die Zukunft beziehen, oder aber auf eine für die beiden großen Sprachgruppen nicht sehr ehrenhafte jüngere Vergangenheit.

Die deutschsprachigen und die italienischsprachigen Südtiroler bilden inzwischen zwei beachtliche Lokalkulturen mit unterschiedlicher historischer und sozialer Verwurzelung: Arbeiter, öffentlich Bedienstete, Lehrer und Berufstätige italienischer Muttersprache, die mehrheitlich in der Stadt oder im Unterland angesiedelt sind; Bauern, Berufstätige, Geschäftsleute, Gastwirte und öffentlich Bedienstete deutscher Muttersprache, die im ganzen Land leben, in den Städten und auf dem Land, im Tal und auf dem Berg. Die Ladiner als älteste Bevölkerung mit fester Verwurzelung in Südtirol beanspruchen das große ladinische Alpengebiet zwischen Grigioni, Gadertal, Grödner Tal, Fassatal und Fleimstal bis ins Friaul, das an verschiedene Staaten angrenzt oder in diese hineinreicht (Schweiz, Italien, Österreich und Slowenien): Sie sind sozial differenziert und kulturell sehr flexibel.

Bevor ich fortfahre, soll ein kurzer Blick auf die von mir verwendete Terminologie geworfen werden: Südtirol nenne ich jenes Land, das die Mehrheit seiner Bewohner als Südtirol bezeichnet, was für mich eine allgemeingültige Regel darstellt: So sind die Kurden für mich Kurden und nicht etwa Bergtürken, so wie ich dem Volk der Sahrauis das Recht zugestehe, nicht von Marokko assimiliert zu werden, und als Armenier ebenso jene bezeichne, die außerhalb der Grenzen des historischen Armeniens leben. All jenen, die ein Gebiet bewohnen, soll das Recht zugestanden werden, sich mit dem Namen zu benennen, den auch das Gebiet trägt. Ich weite den Gebrauch des territorialen Namens auch auf die zuletzt angesiedelte und im Gebiet weniger verbreitete Bevölkerung aus, um darauf aufmerksam zu machen, dass dieser Teil der Bevölkerung, sofern er anerkannt wird und selbst versichert, keine Assimilierungspolitik zu betreiben, alle Rechte der ursprünglich Ansässigen ausübt. Im Allgemeinen ist das Verhältnis zwischen den unterschiedlichen Bevölkerungsteilen eines Territoriums schwierig zu benennen und es ist notwendig vorsichtig vorzugehen. Es genügt der Blick auf den Übergang von „Nigger“ über „Farbige“ bis hin zu „Afroamerikaner“ oder von „Indio“ hin zu „Ureinwohner“.

Ich beziehe mich nie auf eine vorausgesetzte „Ethnie“, wohl aber auf die gesprochene Sprache, die ein ziviler und historisch gewachsener Ausdruck von Identifikation und Zugehörigkeit ist, aber keinen ausschließenden oder unbeweglichen Charakter besitzt wie der Begriff „Ethnie“ – welcher zudem eines wissenschaftlichen Fundaments entbehrt und in eine irrationale Blut-und-Boden-Kultur eingebettet ist. Der Gebrauch der Wendungen „deutschsprachige“ und „italienischsprachige“ Südtiroler anstelle der Begriffe „Italiener“ und „Deutsche“ ist eine Angewohnheit, an die ich mich schon seit einiger Zeit in der Hoffnung halte, dass sie früher oder später allgemein gebräuchlich werden. Kultur oder Sprache sind Begriffe, die die Geschichte so erfahren lassen, wie sie erlebt wurde. So kann Geschichte vermittelt, gelehrt und kritisch interpretiert werden. Dies ist ein notwendiger Prozess. Doch es ist unmöglich, sich über die Ethnie mit anderen zu messen, da dies zum Krieg führt, wie man etwa im Irak oder in Afghanistan sieht. Um ein weniger exotisches Beispiel anzuführen, das allerdings weiter in die Geschichte zurückreicht, denke man nur an die Religionskriege in Europa, die durch das gigantische Rechtswerk des Westfälischen Friedens von 1648 beendet wurden: cuius regio, eius religio. Die Definition der italienischen Nation, wie sie zu Beginn des „Risorgimento“ formuliert wurde, ist zwar weniger grausam, aber politisch unmöglich verwirklichbar: Ein Volk „der Waffen, der Sprache, des Altars, der Erinnerungen, des Blutes und des Herzens“ – ein Delirium der Einheit und der Einigkeit bis hin zur Religion, zur „Rasse“ bzw. des Blutes und eines unbestimmten Gefühls (des Herzens).

Während also die politischen Kulturen und die sozialen Grundlagen (Bergbauern auf der einen Seite und eine zugewanderte Arbeiterklasse auf der anderen Seite) zu leicht instrumentalisierbaren Gegensätzen führen, verdeutlichen die geopolitischen Gegebenheiten die andere Seite unseres Landes, nämlich jene des Übergangs zwischen Nord- und Südeuropa, des Austausches von Waren, der Kommunikation, des Transits, der Messen und Märkte, aber auch des Durchzugs von Armeen, Straßen und Eisenbahnen. Gut erkennbar ist dies an der langen Tradition der Bozner Messe oder an der urbanistischen Struktur der Altstadt, die in allen europäischen Handelsstädten von Cava dei Tirreni bis Danzig ähnlich ist: eine lange Straße mit (aufgrund der beträchtlichen Grundstückspreise) hohen und schmalen Kaufmannshäusern, entlang der die Waren ausgestellt werden, und zwar unter Laubengängen, welche die Kunden vor Wind und Wetter schützen. Dahinter liegen die Lager, darüber die Wohngebäude der Händler. Dieser Typ Stadt besitzt keine Mauer zur militärischen Verteidigung, gerade weil es Städte sind, in denen ein friedlicher Handelsaustausch stattfindet. Die weibliche Bevölkerung dieser Städte spielt eine bedeutende Rolle, die Händlerinnen von Bozen etwa sind „Bürgerinnen“ und haben Rechte wie die Kaufmannsfrauen von Florenz, die die Buchhaltung der von ihren Männern geführten Geschäfte übernehmen und dabei die doppelte Buchhaltung erfinden. Und eine Florentinerin aus einer über den Handel zum Adel aufgestiegenen Familie, zugleich Witwe eines Grafen von Tirol, nämlich Claudia de Medici, übt im Namen ihres minderjährigen Sohnes die politische und ökonomische Macht in Bozen aus. Sie trennt die Laubengasse, um am einen Ende eine Prägestätte zu platzieren, wo die Florentiner den Gulden – also den Euro von damals – prägen, und um am anderen Ende zwischen den gotischen Häusern der Bozner Kaufleute die erste Handelskammer in Form eines schönen Palazzo im toskanischen Stil zu erbauen. Und um zu verdeutlichen, mit wem man handelt und dass es eine Zone des freien Austauschs ist, sind die Lauben auf der einen Seite „deutsch“ und gegenüber „welsch“.

Mit dieser Darstellung soll das andere Gesicht dieses Landes angedeutet werden. Darin zeigt sich auch das europäische Schicksal Bozens. Während Meran seinen Charakter auf dem Adel (viele „von“ sind Meraner) oder zumindest auf seinem Wohlstand gründet und als ältester und nobelster Tourismusort zahlreiche hochrangige Rentner des ehemaligen Habsburgerreiches in prächtigen Hotels beherbergt, und Brixen das geistliche Zentrum von beachtlicher theologischer Bedeutung ist, präsentiert sich Bozen als Handelsstadt mit einem gebildeten Bürgertum, das mich an die „Buddenbrooks“ von Thomas Mann denken lässt, also mit einer vornehmen, an Musik und Kunst interessierten Kaufmannschaft, welche direkte Gegensätze als Gefahr empfindet und auch in der Politik eine Mittlerfunktion ausübt. Dies sind die Eigenschaften, welche die Bozner Kaufmannschaft in Stadt und Land stark, reich und bedeutend machten. Bozen, die Stadt der Zusammenkünfte, vom Faschismus zur Stadt des Zusammenpralls gemacht, kann jedoch seine symbolische Funktion als wichtiger europäischer Knotenpunkt wiedererlangen.

Vielleicht ergeben sich Gelegenheiten, um die Kleinkrämerei zu überwinden und um wieder ein Ort der Begegnung, des Austauschs und des Dialogs auf einem von Schwierigkeiten gezeichneten Kontinent zu werden, ohne den und dessen Probleme die Geschichte unseres gesamten Planeten wohl eine viel plattere und fadere wäre? Europa bedeutet Vielfalt, Unterschied, kultureller Reichtum, schwierige Verflechtungen, aber auch die Möglichkeit einer Zukunft des Friedens oder der Zerstörung. In Europa liegen die Wurzeln von beidem.

Wenn wir wieder zur heutigen Zeit zurückkehren, lässt sich feststellen, dass die europäische Vielfalt bei den Sprachen beginnt (fast alle großen Kultursprachen, die es auf der Welt gibt, sind europäisch), und dass in Europa der Kampf zwischen Kulturen, Zivilisationen und Religionen über lange Zeit von absoluter Wichtigkeit war und schlussendlich exemplarisch für die Menschheitsgeschichte wurde.

In Europa lassen sich gar einige Grenzgebiete mit sich kreuzenden Geschichten ausmachen. Meist finden sich diese in Bergregionen: In den Pyrenäen etwa mit der baskischen Bevölkerung auf beiden Seiten, der spanischen und französischen; die Bevölkerung zwischen Italien und Frankreich, die in Aosta und in Savoyen Patois spricht und in Ligurien und in der Provence das Provenzalische; das Slowenische zwischen Julisch-Venetien und Slowenien; im Kanton Tessin wiederum spricht man denselben lombardischen Dialekt wie innerhalb der Grenzen Italiens.

Wenn auch die geophysischen Merkmale klar sind und auf mehr als nur eine „natürliche“ Euregio unseres Kontinents hinweisen, hat die Geschichte oft die Grenzen scharf umrissen und die unterschiedlichen Sprachen gegeneinander verteidigt und aufgehetzt. Der eklatanteste Fall war wohl jener der ständigen Rivalitäten zwischen Frankreich und Deutschland um Elsass-Lothringen, aber auch die ungeklärte nationale Zugehörigkeit der Länder in den großen Ebenen Mitteleuropas entlang der Flüsse Rhein, Donau, Oder und Neiße. Es scheint dies das Schicksal Europas zu sein: Entweder das Zusammenleben in einer bunten Mischung von Sprachen, Traditionen, Geschichten und Religionen gelingt, oder es endet damit, dass wir uns selbst oder die anderen umbringen – real oder symbolisch. Doch ein bedeutendes Ereignis ließ sich ohne den Rückgriff auf einen Krieg verwirklichen – der Beweis dafür, dass sich die Grenzen Europas von nun an sehr wohl mittels politischem Geschick und Diplomatie verändern lassen, ob es sich nun um Tirol oder Zypern handelt: Dieses Ereignis ist die Wiedervereinigung Deutschlands.

Werden wir imstande sein, diesen politischen Rahmen zu wahren? Dazu bedarf es viel demokratischen Geschicks, und in dieser Hinsicht stehen die Vorzeichen nicht gut: Sowohl das Referendum zur Umbenennung des Siegesplatzes als auch andere Volksbefragungen im vergangenen Jahr hatten keinen guten Ausgang. Die parteipolitische Situation ist bei uns noch zu starr, zu misstrauisch und von oben herab bestimmt; doch es ließe sich dagegen ankämpfen, um all das zu überwinden.

Die jüngste Geschichte scheint uns den Weg hin zu einer zukünftigen Euregio zu weisen. Eine europäische Region, die das historische Tirol wiedervereint, indem sie die gegebene Situation mit den Merkmalen, die sie während des 20. Jahrhunderts erlangt hat, aufnimmt. Aber warum geschieht es nicht? Warum spricht man so wenig darüber? Der italienische Außenminister schreitet sofort mit einem barschen Nein ein, denn über die territoriale Souveränität Italiens könne nicht diskutiert werden. Ein wahrer Fehlgriff, nachdem er gerade die Wiedereinführung des Tolomeischen Dekrets durchgehen hat lassen. Tatsache ist, dass sich der parteipolitische Horizont in den letzten Jahren in Südtirol sehr verändert hat – allerdings nicht zum Guten. Die Präsenz der Lega unter den Parteien der italienischsprachigen Bevölkerung und das Erstarken der Freiheitlichen unter jenen der deutschsprachigen Südtiroler lässt den Ton der politischen Kultur verrohen.

Wie können diese Schwierigkeiten ins Positive gewendet werden? Minister Frattini gegenüber sollte es reichen, an den „europäischen“ Absatz des Artikels 11 der Verfassung zu erinnern, in dem es heißt, dass wir auf unserem Territorium die staatliche Oberhoheit beschränken können, vorausgesetzt dies werde bilateral und wechselseitig anerkannt. Den obgenannten politischen Kräften sollte eine Frische zugestanden werden, die zwar oft Brutalität und Gewalt bedeutet, aber ausgezeichnet dazu dient, zu begreifen, dass es weder Dogmen noch Verstecke in der Politik gibt. So akzeptieren wir auch, dass alles neu gelesen, diskutiert, kritisch bewertet werden kann und muss, angefangen bei den Friedensverträgen. Natürlich wäre es schön, politische Parteien mit größerer Hinwendung zu kultureller Tiefgründigkeit zu haben: Wie sehr hat man darauf gewartet, dass die deutschsprachige Bevölkerung irgendeine sozialdemokratische Bewegung hervorbringen möge; stattdessen haben wir eine sich politisch rechts und wirtschaftlich hyperliberal gebärdende Partei. Aber wir dürfen nicht zulassen, dass diese kurzlebigen politischen Formationen uns die enormen Chancen unterschlagen, die sich in Europa auftun könnten.

Ich glaube, dass wir uns dem Ziel eines föderal organisierten und militärisch neutralen Europas annähern, und dass man in diesem Kontext jene Forderung, Europaregionen bilden zu können, überall dort erheben muss, wo ein historisches Bedürfnis danach besteht – wie in einigen zuvor erwähnten Gebieten. Die Bildung von Arbeitsgruppen, die sich mit der Möglichkeit der doppelten oder gemischten Souveränität von Territorien befassen, ließe eine Herausforderung an die Forschung und an die politische Kultur entstehen. Dies wäre zukunftsträchtig und würde sich nicht – wie sonst immer – auf Nostalgie und kleinräumige Identität beschränken.

Anstatt also zu verlangen, dass Südtirol in der österreichischen Verfassung genannt wird (denn wie halten wir es dann mit dem Pariser Vertrag, da doch durch diesen die internationale Verankerung gegeben ist), wäre es besser, ein neues Modell von Institutionen zu entwerfen. Diese müssen nicht unbedingt besonders und außergewöhnlich, sondern allumfassend sein. Damit soll auch keine Art von historisch-archäologischem Park bewahrt werden, sondern besagte Institutionen sollen auf eine Zukunft der Flexibilität, des Reichtums und der Innovation abzielen, kurzum: Gefragt sind politische Ideen, die die Fantasie anspornen, eine Qualität, die etwas untergeht inmitten all unserer Tugenden (Effizienz, Gewandtheit, Korrektheit, Hingabe am das Land und die Arbeit), ein Vermögen, das es uns zwar erlaubt hat, die Krise leichter zu überstehen als andere Regionen, das vielleicht aber auch verhindert, dass wir eine Zukunft entwerfen können, die nicht repetitiv ist.

An diesem Punkt muss, zurückkehrend zum „Neuner-Jahr“, erwähnt werden, dass im Jahr 1909 Josef Mayr Nusser geboren wurde, der beispielhafte Südtiroler Nazigegner, der kurz vor Ende des Zweiten Weltkriegs in die Vernichtungslager geschickt wurde, um dort zu sterben – an ihn müssen wir uns erinnern, oder auch an Friedl Volgger, der aus dem Vernichtungslager zurückgekehrt ist, und an jene Menschen deutscher oder italienischer Muttersprache, die das Konzentrationslager in Bozen durchlaufen haben. Jene Südtiroler ohne Geschichte, deren Leben Poldi Steurer, Martha Verdorfer und Walter Pichler unter dem eindrücklichen Titel „Verfolgt, verfemt, vergessen“ untersucht haben: Wie schön wäre es, wenn auf dieses allgemeine Vergessen endlich eine friedliche Erinnerung folgen könnte.

Abstracts

L ann 9 danter cunservé y fé zeche
de nuef

A scumencé dal 2009, n ann 9, studieia Lidia Menapace Brisca n curt n valguna costantes dla storia de Sudtirol, for o suvënz spartida danter cunservé y fé zeche de nuef y ëila vëija tla tradizion dl marciadé y dl baraté n aspet mpurtant per ti jì ancontra al daunì de chësta tiera, adateda per passajes, barac y dialogs. Ëila cunsieia de ti jì permez al daunì de chësc tòch de storia europea, da n pont d’ududa daviert y nia aldò de coordinates proietedes scialdi su sé nstës y che vën for inò dant, che ie liedes a de mëndra ntraunides y pruspetives mé dl raion ntëur via. L daunì de Sudtirol se damanda de ti jì permez ala ntraunides, ënghe la plu dramatiches y duiëuses tla perspetiva de fé pert dla gran storia dla resistënza dl’Europa, y nia mé de n bon blòt pitl ncësa ulache n se n sta bën.

The year between preservation and innovation

Taking 2009 – a “9” year – as starting point, Lida Menapace Brisca has been broadly examining­ some constants in the history of South Tyrol, which is almost always torn between­ preservation and innovation. She sees an important thread in the region’s tradition of mercantilism and trade that could help this land, so well suited to be a place of passage, exchange and dialogue, confront its future. Her advice is to face the future of this piece of European history from an open point of view instead of from self-referential and repetitive details that are tied to minor events and local perspectives. The future of South Tyrol depends on its ability to confront its more tragic and painful events with awareness that it is part of a greater history: from the Resistance to the unification of Europe­ – instead of seeing itself as just a pleasant, beautiful, prosperous little homeland.