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Alessandra Russo

L’Unione Europea di fronte alla guerra

The European Union in the face of war

Abstract This brief tries to outline the challenges the war in Ukraine pose to the European Union and re-definition of a European security order. For years, the Arab Springs, the migration crisis and the focus on the Mediterranean confined the EU’s Eastern neighborhood to a second-order priority. On the one hand, in 2014, the EU undertook crisis management actions in Ukraine; on the other, that same conflict has mostly been forgotten, made invisible or ­almost “declassified” to hybrid warfare. Since the last year, we have been all immersed in a comprehensive discourse about the return of conventional war – i.e., inter-state armed ­conflict – on European soil, as well as the return of geopolitics in the foreign and security ­policy-making of the EU and its member states. This narrative urges us to find new paradigms for interpreting the EU’s overall political project – definitively overcoming the paradigm of “transformative power of Europe”.

1. Introduzione

La nota che segue prova a delineare le sfide poste all’Unione Europea dalla guerra in Ucraina. Il vicinato orientale era stato ridimensionato ad una priorità secondaria dopo le primavere arabe, la crisi migratoria e l’attenzione posta sul Mediterraneo. Nel 2014 l’UE ha intrapreso delle azioni di gestione della crisi in Ucraina; tuttavia quello stesso conflitto è stato perlopiù dimenticato, reso invisibile o quasi “derubricato” a guerra ibrida. La narrazione sul ritorno della guerra convenzionale in ­Europa e della geopolitica nei processi decisionali e di calcolo strategico ci chiama a trovare nuovi paradigmi per interpretare l’Unione Europea – superando definitivamente quello incentrato sul concetto di “trasformative power of Europe”.

La guerra in Ucraina ha mutato radicalmente le forme del conflitto armato e della violenza politica, le politiche di sicurezza europea e ancora più complessivamente i principi di coesistenza/convivenza internazionale: in altre parole, ha innescato profondi processi di “ri-significazione” delle idee di multilateralismo, solidarietà, resilienza e della controversa dialettica tra pace e giustizia a livello internazionale e globale.

Il dibattito politico, pubblico e mediatico che percepiamo come a noi più vicino ha spesso veicolato un comune sentire di eccezionalità degli eventi: infatti, nel corso del 2022 si è andata formando, e non solo in Italia, una narrazione imperniata sul ritorno della guerra convenzionale in Europa e della geopolitica nei processi decisionali e di calcolo strategico. La letalità e la distruttività dell’offensiva militare russa in territorio ucraino non è in discussione; eppure, non possiamo prescindere dall’inquadramento della guerra in un contesto di più ampie turbolenze che hanno riconfigurato il vicinato orientale dell’Unione Europea ed i rapporti tra Mosca e Bruxelles (ma anche tra Federazione Russia e Stati membri dell’UE) negli ultimi otto anni: otto anni in cui i momenti escalativi si sono alternati a lunghe fasi di “invisibilizzazione” del conflitto agli occhi degli osservatori esterni; otto anni di migrazioni forzate (1 milione e mezzo di sfollati dal 2014 al 2022) e vittime anche civili (si sti­mano 14000), di iniziative diplomatiche e di interventi da parte di una pluralità di attori internazionali, in primis l’Unione Europea. Ampliando ulteriormente lo sguardo, nel tempo e nello spazio, si tratta di una regione in cui tutta una serie di conflitti e fonti di instabilità e fragilità politica emergono e riemergono in forme diverse: Nagorno-Karabakh e più ampiamente le tensioni tra Armenia ed Azerbaijan; gli interrogativi che tornano sulla Transnistria ed in generale sui separatismi nell’area; i problemi di successione e di tenuta dei regimi, primo fra tutti proprio quello russo – fino agli scontri tra Kirghizistan e Tajikistan e alle proteste in Kazakhstan.

Ciò che la guerra in Ucraina ha tuttavia reso definitivamente esplicito è efficacemente sintetizzato nella parole di Gwendolyne Sasse, punto di riferimento per lo studio dell’Europa orientale: “security perceptions are not the same as actual security threats but, ultimately, perceptions can suffice to inform policy and mobilise elites and society” (Sasse 2023, 1). Tali considerazioni non riguardano solo la strategia russa verso il cosiddetto “vicinato conteso” (Delcour 2017), ma anche il (ri)posizionamento dell’UE verso i propri vicini ad Est. Prima del 2022, da Bruxelles si intuiva una certa reticenza, riluttanza o quantomeno cautela a ri-orientare il proprio approccio verso il vicinato orientale anche in termini di interdipendenza di sicurezza; nell’ultimo anno, invece, il nesso tra sicurezza europea e resilienza del vicinato orientale è emerso come inevitabile e prioritario nella strategia dell’UE (Meister et al. 2023, 9). Riflesso di questa potenziale virata di approccio è l’invito rivolto dalla Commissione Europea (invito accompagnato dalla disponibilità di risorse) al mondo della ricerca, mobilitato per supportare il consolidamento degli strumenti di azione esterna, di vicinato e di allargamento e di strategie di resilienza contro minacce militari ed ambizioni geopolitiche di attori che rappresentano la contestazione all’ordine liberale internazionale – un inquadramento che è sembrato inedito a molti dei destinatari di questo “appello”.

2. Il Vicinato Orientale dopo il 2014

La Politica Europea di Vicinato nasce come strumento volto a promuovere la stabilizzazione e la trasformazione di un eterogeneo gruppo di Paesi dell’Europa orientale, Caucaso settentrionale e della sponda meridionale del Mediterraneo; eppure, nel giro di un decennio (2004-2014) i due settori del vicinato sono stati investiti da trasformazioni talmente profonde che i Paesi coinvolti da “cerchio di amici” sono stati ridefiniti un “cerchio di fuoco” per l’UE (Economist 2014).

Se ci si focalizza sul vicinato orientale, un primo aggiustamento era già stato intrapreso con il lancio del Partenariato Orientale nel 2009; successivamente, un più comprensivo momento di revisione delle politiche di vicinato tout court era stato intrapreso nel 2011 dalle primavere arabe (con l’introduzione della formula premiale “more for more”). In parallelo, da Bruxelles veniva ribadito un impegno ad adottare e consolidare una prospettiva “bottom-up”, guardando alle esigenze, aspettative e preferenze specifiche di ogni singolo Paese terzo (European Commission and High Representative 2011).

Fino al 2014, tuttavia, nella politica di vicinato non aveva trovato spazio una consapevole problematizzazione dei principi di co-esistenza e possibile competizione con altri attori nello stesso ambito regionale – ognuno con propri interessi, agende di politica estera ed immaginari geopolitici: in primis, la Federazione Russa, che continuava a guardare al vicinato condiviso come “estero vicino” (Rieker/Gjerde 2016). La crisi politica e di sicurezza detonata in Ucraina nel 2014, con la successiva annessione della Crimea e l’escalation militare nelle province orientali nel Paese (ciò che per i successivi otto anni sarebbe stata chiamata, talvolta in maniera fuorviante, la guerra ibrida del Donbass) ha reso inevitabile un secondo momento, più profondo, di ripensamento della politica di vicinato che ha incrinato il concetto stesso di potere trasformativo della governance esterna dell’Unione Europea, smorzandone la portata integrativa e spostando l’attenzione verso obbiettivi di stabilizzazione, compimento delle riforme interne e consolidamento delle capacità istituzionali (Batora/Rieker 2016; Batora/Rieker 2018).

Ciò che invece il conflitto in Ucraina nel 2014 ha solo parzialmente ed estemporaneamente attivato è una riflessione strategica a livello europeo e dei suoi Stati membri sull’attorialità dell’Unione Europea nella gestione delle crisi che si dispiegano alle periferie del proprio perimetro di sicurezza: in altre parole, sui dispositivi istituzionali e politici a disposizione per rispondere ad un conflitto, e più in generale, sul significato stesso di sicurezza europea.

Da un lato, la Politica Europea di Vicinato è stata riesaminata nel 2015 e proprio il testo della revisione sottolinea la disponibilità da parte dell’UE di offrire “ways to strengthen the resilience of the EU’s partners in the face of external pressures and their ability to make their own sovereign choices” (European Commission and HR/VP 2015, 4). Nello stesso documento si fa inoltre riferimento proprio ad una dimensione di sicurezza: “[t]he new focus on security will open up a wide range of new areas of cooperation under ENP. Cooperation could include security sector reform, border protection, tackling terrorism and radicalisation, and crisis management” (laddove una declinazione militare di sicurezza resta assolutamente marginale e nel quadro della componente di security sector reform).

Dall’altro, anche dopo il 2014 e probabilmente fino ad oggi, l’UE sembra aver continuato ad investire significative risorse nella costruzione di una “security capacity” – una impalcatura istituzionale a supporto di politiche di sicurezza – senza distillare fino in fondo l’essenza della sicurezza europea: sicurezza per chi, da cosa, dispiegando quali mezzi a quali finalità? Un’architettura messa a punto prima del compimento di un dibattito sulla strategia ed un dibattito sulla strategia innestato perlopiù sul concatenarsi di programmi operativi, esecutivi e sull’implementazione di misure “tecniche”. In sintesi, “the development of EU security strategies and priorities emerged by stealth, rather than by design” (Schroeder 2009, 487-488). Questo vulnus ha caratterizzato l’intera traiettoria che storicamente ha portato a costruire l’architettura di sicurezza europea; ma si è riproposto sia nel 2014 che nel 2022.

3. La Risposta dell’Unione Europea alla Guerra in Ucraina (2014)

Già nel marzo 2014 la Commissione Europea elencava in un documento transitorio le principali componenti del pacchetto di aiuti a cui si impegnava: questi includevano risorse dal budget stesso dell’Unione Europea, dalla Banca europea per gli investimenti, dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e ne mobilitavano di ulteriori tramite il Fondo Investimenti per la Politica di Vicinato e lo Strumento per la Stabilità e per la Pace. Si aggiungeva, inoltre, l’intenzione di creare una piattaforma per il coordinamento tra i donors; la disponibilità ad applicare in via provvisoria, dopo la firma dell’Accordo di Associazione, l’accordo di libero scambio (Deep and Comprehensive Free Trade Agreement) e di velocizzare il processo di liberalizzazione dei visti; ed infine, l’offerta di assistenza tecnica per l’avanzamento della riforma costituzionale e del settore giudiziario e per la predisposizione delle elezioni politiche (European Commission 2014).

Se questo primo documento certamente segnalava il future coinvolgimento europeo, nei mesi successivi il ruolo dell’UE si è andato prefigurando anche nella sua componente più politica e diventava multi-dimensionale. La crisi ucraina ha infatti rappresentato il banco di prova per alcune revisioni introdotte rispetto alla gestione delle crisi (EEAS 2013a; 2013b). Fra queste, la formulazione di un documento (Political Framework for a Crisis Approach, PFCA) da parte delle figure apicali del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, che avrebbe dovuto definire le coordinate di intervento dell’UE, a seconda del contesto, della definizione stessa delle sue criticità, ma anche degli interessi e della disponibilità e dispiegabilità di strumenti di azione. Nel caso della crisi ucraina, questo documento risultò essere più un esercizio di decostruzione di operazioni e schemi di intervento già pronti, che un supporto per la pianificazione e la programmazione strategica di ciò che da Bruxelles si aveva la capacità, l’intenzione e la possibilità di fare (Koenig 2015). Il documento, sottoposto al Comitato Politico e di Sicurezza nel maggio 2014, fu reso parzialmente pubblico solo nove mesi dopo: questo definiva quella ucraina come una “humanitarian crisis, a security crisis and a human rights crisis” (Ivashchenko-Stadnik et al, 2017). La seconda declinazione della crisi, che potenzialmente apriva ad una missione di supporto alla riforma del settore della sicurezza nel quadro della Politica di Sicurezza e di Difesa Comune, fu esplicitata da un secondo documento, distribuito a giugno e che ancora esitava a spogliare dalle ambivalenze la definizione stessa della crisi ucraina: si rimandava infatti alle criticità della “situazione” politica e di sicurezza – una situazione in cui si sarebbe inserita la missione europea: consultiva, con compiti non esecutivi, per la riforma del settore della sicurezza civile. Questi due documenti chiave si andavano delineando quando, negli stessi mesi, una missione di esperti e funzionari visitava il Paese, non sempre valorizzando le possibili sinergie con la delegazione dell’UE a Kyiv; e formulando delle raccomandazioni che tuttavia talvolta non riflettevano la necessità di ricomporre interessi nazionali e visioni divergenti tra gli Stati membri.

Nei mesi successivi alla elaborazione di questi due documenti chiave, la risposta dell’UE alla crisi in ucraina si è snodata lungo tre direttrici: la prima incentrata sul sostegno al Paese sul piano umanitario e finanziario e sull’assistenza tecnica nell’implementazione delle riforme; la seconda relativa alle cosiddette misure restrittive, ossia le sanzioni; e la terza riguardante l’impegno sul piano politico, diplomatico ed il tentativo di apertura di una pluralità di tavoli negoziali a geometria variabile e dagli esiti alterni.

Ognuna di queste direttrici ha, negli anni, mostrato delle debolezze: è lampante il caso del fragile consenso sulle sanzioni, che pure inizialmente era stato interpretato come una significativa testimonianza di unità a livello europeo. Se è vero che la posizione dell’Unione Europea nei confronti della Federazione Russia è plurale, anche a costo di sembrare incoerente, e che all’interno delle istituzioni europei e degli Stati membri convivono sensibilità ed agende diverse; come è altrettanto vero che questa riflette anche dinamiche contingenti inclusi i cicli elettorali, nel medio-lungo periodo le logiche nazionali sembrano aver disinnescato il potenziale deterrente di questo strumento, spesso aggirato agendo tra le maglie dei suoi dispositivi normativi, regolatori ed attuativi (come per esempio nel caso del settore armiero in virtù della possibilità di dare seguito ad accordi siglati prima del 2014 anche se la con­segna sarebbe avvenuta ad embargo vigente).

Nonostante una ricerca (a cui chi scrive ha preso parte) mostri come la prima ­direttrice sia quella più visibile ed apprezzata presso gli attori locali1, anche questa è caratterizzata da elementi problematici che derivano da uno scarso coordinamento intra- e inter-istituzionale, con ricadute sulla definizione efficiente dei compiti e dei mandati – specialmente, ma non solo, per chi opera “sul terreno”. Un esempio è quello della incerta divisione del lavoro tra EUAM ed EUBAM, la missione dell’Unione Europea di assistenza alla gestione del confine tra Ucraina e Moldova, attiva dal 2005 (Loschi/Russo 2021); o quello della sovrapposizione poco funzionale tra Servizio Europeo di Azione Esterna, Delegazione dell’UE a Kyiv ed il “Gruppo di ­Sostegno per l’Ucraina”, istituito nel 2014, che fa capo alla Commissione Europea e che coadiuva le autorità ucraine a realizzare le riforme previste dall’Accordo di Associa­zione e dall’area di libero scambio. La stessa ricerca identifica, infine, un motivo di diminuita credibilità dell’Unione Europea rispetto ai propri interlocutori (in questo caso ucraini) nella sua difficoltà di progettare interventi che siano specifici rispetto al contesto ed alla complessa natura del conflitto (e quindi di elaborare una definizione del conflitto che ne restituisca tutti gli elementi di complessità). Questo ultimo aspetto è un controverso elemento di dibattito, nella letteratura sul peacebuilding e in particolare sul “local turn” nelle attività intraprese dall’Unione Europea al riguardo (Russo/Zambelli forthcoming); a tal proposito, la stessa Unione Europea ha riconosciuto la propria limitata capacità di operare pienamente secondo il principio della “local ownership” (co-partecipazione dei beneficiaries e degli stakeholders locali in tutte le fasi di progettazione di un’azione di gestione della crisi, dalla valutazione delle necessità ex ante alla pianificazione e al monitoraggio ex post [European Union 2016]).

4. La Risposta dell’Unione Europea alla Guerra in Ucraina (2022)

All’indomani del lancio dell’offensiva militare russa in territorio ucraino, la mobi­litazione immediata dei vertici dell’Unione Europea e di molti dei leader politici dei suoi Stati membri, ha facilitato il formarsi di un’aspettativa che si è ben presto ­trasformata in previsione: la guerra avrebbe, secondo molti osservatori, compattato l’Unione Europea, rilanciando il progetto stesso di Europa, così come la coesione tra gli Stati membri, soprattutto rispetto alla possibilità di trovare un minimo comune denominatore sui principi che ne guidano l’azione esterna. A distanza di un anno, di tale previsioni andrebbero analizzate le luci e le potenziali ombre, o meglio, i fattori che potrebbero portare tale consenso sulla questione ucraina ad incrinarsi. In effetti, un’unità di intenti è stata trovata, per esempio, nella promulgazione della Direttiva sulla Protezione Temporanea da parte della Commissione Europea ed nell’approvazione di un piano in dieci punti da parte del Consiglio, per la gestione del flusso di rifugiati ucraini (che nel primo anno di guerra sono circa 8 milioni)2. A queste prime misure ha fatto seguito, tra le altre, lo sviluppo di un piano di azione per prevenire lo sfruttamento dei rifugiati ucraini da parte di reti criminali, e allo stesso tempo che individui che possono costituire un rischio per i cittadini europei beneficino del regime di protezione temporanea.

Considerazioni simili possono essere fatte sulla questione dell’allargamento che porta sul tavolo il tema della riforma interna dell’Unione Europea. I Paesi del ­Partenariato Orientale hanno a più riprese espresso la propria vocazione euro-atlantica e l’ambizione allo stato di “candidati” alla membership nell’UE. Dopo un iniziale slancio verso Ucraina, Moldova e, in misura più limitata, Georgia, tale traiettoria sembra aver subito una battuta d’arresto: alcuni Stati membri infatti si sono mostrati riluttanti a fornire una valutazione intermedia dei passi intrapresi rispetto all’implementazione delle riforme richieste dal processo di “adesione graduale”– esitazione che è stata interpretata nel quadro di un più ampio rallentamento del processo di allargamento.

Un ulteriore ambito di convergenza non privo di incertezze, nel medio-lungo periodo, è quello relativo all’adozione di cosiddette “misure restrittive” (sanzioni) che l’Unione Europea ha posto in essere nei confronti di Russia (e Bielorussia) già prima del 2022: per quanto riguarda la Russia, successivamente all’annessione della ­Crimea, e poi all’abbattimento di un volo che sorvolava lo spazio aereo ucraino da parte di un missile terra-aria (che secondo le autorità giudiziarie olandesi era di fabbricazione russa ed in uso ai separatisti delle province orientali); e per quanto riguarda la Bielorussa, come reazione alla violazione dei diritti umani nel Paese ed in particolare al dirottamento, nel 2021, del volo passeggeri internazionale di linea e al successivo arresto di un attivista oppositore del regime. Dal 2015, in particolare, il Consiglio Europeo ha vincolato l’esaurimento delle sanzioni alla piena implementazione degli Accordi di Minsk; e contro ogni previsione, negli anni a venire, le sanzioni sono “sopravvissute” alla diversità delle agende nazionali degli Stati Membri rispetto ai rapporti con Mosca (Dempsey 2014; Siddi 2017), e periodicamente rinnovate (Portela et al. 2020). La persistenza delle sanzioni non ha impedito l’emergere, tra gli Stati membri e all’interno di questi, di posizioni di scetticismo nei confronti di tali misure restrittive, ed il riconoscimento che l’implementazione, affidandosi a meccanismi di attuazione nazionali, non è sempre stata uniforme a livello europeo: in altre parole, casi di elusione, aggiramento dei dispositivi normativi e legali ed ­altri espedienti hanno indebolito gli effetti delle sanzioni. Nel 2022, tuttavia, l’UE si è dotata di strumenti di monitoraggio della reale attua­zione di quanto previsto in materia di sanzioni: per esempio, introducendo uno strumento di segnalazione anonima delle violazioni – Sanctions Whistleblower Tool (https://eusanctions.integrityline.com/setup); istituendo la Freeze and Seize Task Force (in cui rappresentanti della Commissione Europea, Europol ed Eurojust, insieme alle autorità nazionali competenti, collaborano per rendere efficienti le procedure di congelamento e sequestro dei beni investiti dalle misure restrittive); ed infine, promuovendo la criminalizzazione delle violazioni delle misure restrittive, quindi l’armonizzazione della definizione di cosa costituisca una violazione delle misure restrittive e della natura delle sanzioni che dovrebbero essere applicate in caso di violazioni. Dopo il 2022, quindi, ciò che è possibile osservare è quantomeno il tentativo di una omogenea esecuzione delle sanzioni a livello europeo; ed inoltre, al di là del perimetro d’azione dell’UE, il riconoscimento di una sorta di “leadership” a livello globale dato dall’allineamento multilaterale di un significativo numero di Paesi terzi (Cardwell/Moret 2023). D’altra parte, le divergenze di posizione sono state “esternalizzate”: se nel contesto della gestione della crisi in Ucraina del 2014 tendevano ad indebolire la coesione e la coerenza interna dell’approccio dell’UE verso la Russia, nell’ultimo anno catalizzano elementi di contestazione e resistenza da parte del cosiddetto “Global South” nei confronti di norme e pratiche sulla sicurezza internazionale a trazione occidentale (Ash et al. 2023).

In ultimo, e tuttavia centrale sia nel dibattito sulla guerra in Ucraina che nella riflessione sull’attorialità internazionale dell’UE, vi è la questione dell’assistenza militare prestata all’Ucraina: ciò significa trasferimenti di armi, sia attraverso lo Strumento Europeo per la Pace (3.6 miliardi di Euro di cui 3.1 miliardi in “lethal equipment”) che in via bilaterale (circa 8 miliardi di Euro); ma anche addestramento, nel quadro della Missione di Assistenza Militare dell’Unione Europea (EUMAM) che ha il mandato di fornire formazione specializzata a un massimo di 15000 membri delle forze armate ucraine in diverse località nel territorio degli Stati membri dell’UE. Tutto ciò porta a riconsiderare l’identità dell’UE quale potenza civile e normativa (che era già stata messa in discussione dall’inaugurazione della “Commissione Geopolitica” nel 2019), e sembra validare le ipotesi rispetto a processi di militarizzazione pre-esistenti e che riguardano l’espansione del budget europeo dedicato alla difesa e alla sicurezza, e all’emergere di un complesso militare-industriale propriamente europeo (Jones 2017; Hoijtink/Muehlenhoff 2020; Jones et al. 2022). Dal 2017, il Fondo Europeo per la Difesa e la Cooperazione Strutturata Permanente ­(PESCO) sono stati istituiti a supporto di progetti sia industriali che di ricerca e sviluppo congiunti nel campo della difesa; dal 2021 la Commissione Europea si è dotata di una Direzione Generale Industria della Difesa e Spazio (DEFIS) per promuovere la base industriale e tecnologica della difesa europea; mentre il già citato Strumento Europeo per la Pace è stato istituito per finanziare interventi operativi in Paesi terzi con implicazioni militari, di sicurezza o difesa. In riferimento al vicinato orientale, è interessante ricordare che dal 2015, l’Ucraina partecipa a selezionati programmi dell’Agenzia di Difesa Europea, dal 2020 ai progetti della Cooperazione Strutturata Permanente; eppure, il Partenariato Orientale, che in origine non si è ­dotato di una componente di sicurezza, non ha neppure in seguito sviluppato una riflessione a tutto tondo sul tema, a partire dai conflitti prolungati che punteggiano la regione (German/Tyushka 2022).

Tutto ciò pare replicare, in un contesto ben più drammatico, l’analisi di Schroeder (2009) sull’assenza di una strategia nello sviluppo delle strategie di sicurezza dell’Unio­ne Europea, che si dota di capacità istituzionali senza articolare il nesso funzionale tra strumento e obiettivo, e relegandole a questioni tecniche con scarsa esposizione al dibattito pubblico. Nella consapevolezza che la secretazione e classificazione delle fonti documentali e dei dati, la loro confidenzialità ed opacità sono tutti elementi costitutivi degli studi militari e sulla sicurezza (De Goede et al. 2019), chi prova a studiare la guerra in Ucraina nella sua complessità non può esimersi da una riflessione sui trasferimenti di armi che riguardi anche la loro trasparenza, tracciabilità e “documentabilità” e che quindi guardi anche ai possibili scenari post-conflitto, agli effetti della circolazione delle armi sul territorio europeo e alle condizioni che renderanno credibili, legittimi ed efficaci i programmi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione degli ex combattenti.

5. Considerazioni conclusive

Nelle poche pagine sopra si è cercato di guardare alla complessità della guerra in corso attraverso le lenti di una comparazione diacronica e con un focus specifico sul ruolo dell’Unione Europea nel vicinato orientale. Se nell’anno appena trascorso l’attenzione di molti studiosi è stata rivolta alla questione della tenuta del consenso europeo rispetto alla guerra in Ucraina, nel corso del 2023 possibili riflessioni saranno sul come non ripetere vecchi errori e come affrontare nuove sfide.

Per quanto riguarda il primo punto, l’attivismo europeo in Ucraina ripropone la questione del coordinamento degli attori sul campo, al fine di evitare sovrapposizioni disfunzionali: se questa è emersa nella prima fase del conflitto, potrebbe risultare ancora più problematica ora e nel prossimo futuro. Per esempio, nel medio periodo è da precisare la relazione tra EUMAM, EUBAM ed EUAM, quest’ultima oltretutto potenziata per quanto riguarda le attività di indagine e perseguimento dei crimini internazionali.

Per quanto riguarda il secondo punto, con l’auspicabile cessazione dei combattimenti si apre il dossier della ricostruzione e della possibilità che questo segua logiche geopolitiche di spartizione tra donors: la prova, per l’Unione Europea ma non solo, sarà quella di rendere concreto ed operativo il principio della “local ownership”, facilitando anche il monitoraggio della gestione delle risorse internazionali che fluiranno nel Paese.

Note

1 Progetto EUNPACK (A conflict-sensitive unpacking of the EU comprehensive approach to conflict and crises mechanism), finanziato tramite il Programma europeo Horizon 2020 (grant agreement no. 693337).

2 Si stima invece che la totalità delle persone che hanno varcato il confine ucraino in uscita dal Paese dal 24 febbraio 2022 superi i 18 milioni; e che di contro, il numero di persone che è entrata o rientrata nel Paese negli ultimi 12 mesi sia più di 10 milioni.

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