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Ilaria Riccioni

Tra alienazione e partecipazione:
presupposti per la cittadinanza attiva in
una provincia autonoma plurilingue
e multiculturale

… che la conoscenza del passato sia

desiderata in tutti i tempi

solo per servire il futuro ed il presente…

“Sull’utilità e il danno della storia per la vita”

Friedrich Nietzsche

1. La relazione

La crescita di una comunità e del suo senso di appartenenza fonda le radici nelle vicissitudini storiche di una società, nella presenza di una continuità o meno delle sue tradizioni culturali ma anche nel processo di elaborazione che queste realtà attraversano nel corso del tempo diventando oggetto di trasmissione orale dalle vecchie alle nuove generazioni. Il senso di appartenenza non può che essere riferito ad un “vissuto”, così come il senso di comunità si radica sia nel vissuto degli individui che nella storia. Il vissuto di una comunità si osserva nelle forme che le relazioni tra individui assumono nel tempo, nella capacità di resistere in modo continuativo e trasformarsi in modo creativo in relazione ai mutamenti sociali, economici, culturali e politici. In questo senso la relazione tra individui assume un ruolo fondamentale per l’osservazione della vita di una comunità o di una società. La relazione sociale è per Georg Simmel la forma stessa della società: a seconda delle dinamiche di reciprocità e influenza che le relazioni assumono, in base all’ampiezza del gruppo di appartenenza e alla prossimità degli individui, si sviluppano relazioni più o meno vincolanti, con la creazione di gruppi all’interno di uno stesso gruppo più ampio. Tenuto conto del grado di vicinanza di queste relazioni, esse si traducono in pensiero collettivo, attività, opinioni, appartenenza, qualità, valori condivisi; in tal modo vengono a costituire quel complesso agglomerato di interdipendenze e interazioni tra struttura sociale da un lato e relazione sociale tra individui dall’altro, andando a costituire l’insieme della società: “La società non è un essere completamente conchiuso in sé, un’unità assoluta […]. Rispetto alle interazioni reali delle parti essa è solo secondaria, solo un risultato, tanto dal punto di vista materiale che da quello della nostra riflessione” (Simmel 1982, 18). Si delinea quindi un concetto di società “formale”, dialettico, che non si ferma alla struttura istituzionale come dato di fatto di un sistema, bensì insinua che la dialettica profonda che intercorre tra le stesse istituzioni, la loro struttura e la relazione sociale, intesa come interazione ma anche come creazione di consuetudini, valori, credenze, sia il processo stesso di costruzione della società, pertanto contribuisca a darne l’impronta e il carattere. Contrariamente al concetto di struttura e sovrastruttura, in Simmel troviamo un’attenzione più marcata alla mobilità delle relazioni, più aderente alla situazione tipica della modernità. Continua Simmel: “Non c’è un’unità della società dal cui carattere unitario deriverebbero qualità, relazioni, trasformazioni delle parti, ma è dato trovare relazioni ed attività di elementi, e solo su questo fondamento è possibile esprimere l’unità” (Simmel 1982, 18). L’unità di una società è, dunque, il “risultato” della sua mobilità interna e dell’interazione tra le diverse unità presenti al suo interno. Più avanti nello stesso saggio, Simmel introduce il concetto di “differenziazione sociale”: “… l’uomo è un essere differenziale […]. Il fondamento comune sul quale si costruisce tutto ciò che è individuale è qualcosa di ovvio, e non può richiedere quindi una particolare attenzione, che viene semmai interamente consumata dalle differenze individuali. Infatti, tutti gli interessi pratici, tutte le determinazioni della nostra collocazione nel mondo, tutte le utilizzazioni di altri uomini si fondano su queste differenze tra uomo e uomo, mentre il terreno comune nel quale si svolgono tutti questi processi è un fattore costante che la nostra coscienza può trascurare, perché tocca allo stesso tempo tutte le differenze: e solo queste sono importanti” (Simmel 1982, 24). La differenziazione è dunque, secondo l’analisi di Simmel, l’elemento sul quale si gioca la coesione sociale e sulla quale si forma la possibilità di interazione. Ciò che di comune esiste tra gli individui che condividono un medesimo spazio territoriale viene dato per scontato e “non ha un valore di consapevolezza proprio perché nessuno ne è in possesso in misura diversa da un altro” (Simmel 1982, 24). In sostanza, sembra dirci Simmel, l’unità di una società è il “risultato” dell’interazione tra le diversità che la costituiscono. Indicatori delle relazioni sono l’interdipendenza tra gli individui, i vincoli che il gruppo pone al cambiamento dell’individuo in quanto membro del gruppo, le relazioni e le interdipendenze tra i gruppi che costituiscono una società­ (Simmel 2006). Gruppi che tra di loro si individuano, ancora una volta, attraverso la differenziazione e non la comunanza. La relazione tra individui, dal Novecento in poi, subisce cambiamenti radicali a causa di varie differenziazioni fondamentali tra cui anche la condotta di vita nelle città, che sposta l’attenzione sulla popolosità degli aggregati urbani rispetto alle realtà rurali, più controllabili e comunitarie. Un ulteriore elemento di cambiamento fondamentale è la progressiva irruzione nel quotidiano dell’uso della tecnica e della tecnologia, che tende ad innescare un mutamento profondo della relazione, sino ad arrivare alla moderna società del consumo che riduce il rapporto interumano a scambio di merce. Simmel già intravede l’emergere di questo nuovo tipo umano moderno, ne delinea i tratti e soprattutto tende a fare un’analisi dell’individualismo che non demonizza la nuova tendenza: pur evidenziandone i limiti, ne mette in luce anche le potenziali forze liberatrici e di autorealizzazione che può esercitare sull’individuo del nuovo mondo industrializzato. In questo senso, l’analisi simmeliana secondo la quale la differenziazione sociale è la potenziale via di uscita da un processo di massificazione indistinta dell’individuo e del suo pensiero, dunque anche del suo agire sociale, è forse, più che un’analisi, l’auspicio ad uno sviluppo delle potenzialità dell’individuo come crocevia del sociale consapevole e non massificato. L’individuo moderno sembra oscillare tra l’alienazione sociale marxiana, frutto della divisione del lavoro industriale, e la concezione durkheimiana di corporativismo sociale che avrebbe dovuto, idealmente, risolvere la sua esistenza sociale nella solidarietà organica e nella dedizione totale alle istituzioni corporative capaci, secondo Durkheim, di sostituire il bisogno primario della famiglia con l’appartenenza ad una “comunità” professionale che sarebbe stata in grado di soddisfare i bisogni di realizzazione e di affettività dell’uomo moderno (Durkheim 1999).

2. Alienazione e tipologie di alienazione sociale

La convivenza sociale, però, presenta la sua complessità ben oltre le analisi simmeliane. Se si può osservare quanto la dimensione corporativa sia un “intollerabile vincolo alle energie degli individui” (Simmel 2001, 49) anche la progressiva affermazione dell’individualismo come forma della libertà e uguaglianza naturale degli individui non è priva di certa critica e problematicità. Per Simmel l’uguaglianza tra individui significa innanzitutto uguale possibilità di accedere e realizzare la propria “specificità”. Ancora una volta, la differenziazione viene indicata come la prima possibilità che l’individuo ha di diventare individuo e uscire dalla massa, dunque di distinguere le singole specificità che lo rendono prezioso alla comunità, attraverso le interdipendenze delle diversità. In questo senso, l’individuo non viene concepito come individuo chiuso in se stesso, monade leibniziana, bensì elemento parte di un tutto che solo attraverso la sua diversità si rende visibile e potenzialmente interdipendente con il sistema sociale più ampio che lo comprende. L’alienazione può verificarsi, in questo senso, solo se e quando l’individuo non arrivi a sviluppare la sua piena individualità, sinonimo di specificità e autorealizzazione come parte di un tutto, dunque quando sia facilmente oggettualizzato in virtù della sua non definizione, della sua appartenenza alla massa indistinta che riduce potenzialmente la vita umana ad oggetto, dunque mercificato e impersonale.

Il concetto di alienazione è un concetto storicamente situato e per certi versi fondamentale negli studi sociologici. Le prime teorizzazioni le dobbiamo a Ferguson, il proto-sociologo della Scuola scozzese che nel ’700 teorizzò il concetto di “società civile” intesa come rete relazionale tra cittadini oltre e preesistente alle logiche dello Stato e dunque anche agli interessi economici, dividendo nettamente le due realtà dello “Stato” e della “Società civile” che il diritto naturale aveva sovrapposto (Ferrarotti 2003, 25-27). Il concetto di alienazione assume rilevanza in Ferguson in quanto evidenzia l’estraneità dell’individuo alle condizioni imposte dalla società industriale: il progresso tecnico ed economico produce, in maniera inversamente proporzionale, un progressivo degrado umano dovuto alla riduzione di possibilità dello sviluppo delle qualità dell’individuo a favore della sua specializzazione tecnica (Ferrarotti 2003, 26).

Per Rousseau il problema è un altro: l’individuo “raffinato” e costretto a lavorare nell’industria perde la rozzezza tipica del selvaggio, ma non arriva a vivere che in maniera esteriorizzata, nell’opinione altrui, perdendo così la capacità di riflessione e di opinione di sé. L’alienazione in questo senso si manifesta nell’incapacità di osservare se stessi, nell’incapacità di vivere se non nell’opinione degli altri, perdendo così qualsiasi autonomia. L’alienazione può essere sintetizzata come estraniamento generalizzato: da se stessi, dal contesto di appartenenza, dalla propria vita come frutto di un obbligo e non di una scelta, dai propri sentimenti e affetti.

L’alienazione in senso mannheimiano si configura come irrazionalità della società di massa che ha come conseguenza la “democratizzazione negativa”. Il problema, dunque, si sposta dalla società civile alle logiche di costruzione della realtà politica: “In una società in cui le masse tendono a dominare, le irrazionalità che non sono state integrate nella struttura sociale possono aprirsi la via nella vita politica. Questa situazione è pericolosa perché l’apparato selettivo della democrazia di massa apre le porte alle irrazionalità in quei punti dove è indispensabile la direzione razionale. In tal modo la democrazia produce la sua stessa antitesi e fornisce le armi ai propri nemici. Siamo qui a confronto ancora una volta con quel processo che altrove descriveremo più precisamente come “democratizzazione negativa. […] Il fatto che gli elementi irrazionali nella società di massa si aprano sempre più la via nella sfera politica può essere spiegato non psicologicamente, ma sociologicamente. […] È compito della sociologia mostrare in quali punti di una data società siano espresse queste irrazionalità e quali funzioni e forme sociali assumano” (Camporesi 1974, 151).

Il concetto di alienazione ha innumerevoli declinazioni, soprattutto in ambito filosofico; in ambito sociologico, invece, si tende a dare specificità al concetto attraverso le interdipendenze con il contesto sociale. Per Durkheim l’alienazione diventa in qualche modo “anomia”: il senso diffuso di disagio provocato da mancanza di regole chiare, tipico di momenti di crisi o di transizione dei poteri e dei valori di una società. Su un altro versante l’alienazione è un concetto che si collega direttamente, in senso simmeliano, con la capacità di interdipendenza tra le diversità in una società moderna; in senso marxiano, invece, è direttamente connessa con la capacità di una società di restituire la visione complessiva del senso del lavoro degli individui, oltre la specializzazione, per una ripresa di senso dell’azione nel contesto e per l’orientamento di un senso civico a partire dal ruolo svolto nell’ambito del lavoro. Per Durkheim l’alienazione chiama in causa il grado di coesione sociale all’interno di una società, dunque le sue regole sociali, l’adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini, la capacità di operare socialmente in un contesto di giustizia sociale, ovvero di riconoscimento consapevole dell’interdipendenza delle forze sociali in gioco, la lettura dei fenomeni come “fatti sociali”.

Il concetto di alienazione rimanda, allora, ad una estraneità, una incapacità “indotta” di entrare a far parte di una realtà. Essere “alienati” vuol dire essere estraniati, estranei, stranieri. Essere altro rispetto ad un contesto che si percepisce come centrale, centrato, appartenente e che crea barriere all’integrazione del nuovo o del diverso. Queste barriere sono ancora una volta delle regole tacite che determinano l’appartenenza o l’esclusione. Per altri versi, alienare qualcosa significa vendere, liberarsi di qualcosa. Nel caso di un individuo, l’“alienato” è colui il quale non fa parte, è altro in maniera indistinta, indeterminata, non specificata. Nel definire una realtà sociale “alienata”, si può chiamare in causa una divisione sociale, una situazione che crea distanza tra parti sociali, tra individui ma anche una condizione strutturale coercitiva sull’individuo che gli impedisce di sentirsi parte, di partecipare alla realtà condivisa in senso pieno. Può essere la manifestazione di un disagio individuale che si trasforma in alienazione ma può anche essere l’inverso, ovvero, l’essere alienati da un contesto, in sé, può dare luogo a disagio individuale che non nasce quindi dall’interno dell’individuo ma sembra essere più la causa di una condizione esterna sulla quale l’individuo stesso esercita poco o nessun potere. Infine, essere consapevoli di una “non appartenenza” ad una comunità che è prossima può diventare fonte di disagio ma non è già più in sé considerabile come “alienazione”. La consapevolezza è già il momento di riscatto dal disagio indistinto. La distinzione tra alienazione, che rimanda ad una serie di cause socialmente generate e vissute in maniera inconsapevole che creano distanza, e quella di disagio, che invece chiama in causa proprio la difficoltà individuale a vivere questa distanza e quindi ad una difficoltà sul piano psicologico, individualmente vissuta, risiede nei diversi paradigmi d’analisi: di matrice sociale il primo, dunque compito della sociologia comprenderne le cause o le dinamiche tra le parti sociali e le istituzioni, avviando un processo di smussamento delle barriere ostative all’inclusione; di matrice individuale il secondo, dunque compito della psicologia indagarne le dinamiche sui singoli, con l’obiettivo di operare un adattamento positivo dell’individuo alla situazione di fatto senza operare sulle condizioni sociali che la determinano. Spostando così il problema e la responsabilità della “soluzione”: da problema sociale, che richiederebbe una risposta della comunità e delle istituzioni, diventa problema individuale, che ridimensiona e adatta le aspettative, desideri, aspirazioni del singolo ad una situazione di fatto apparentemente immutabile.

Riprendo in questo senso una parte specifica della ricerca da me svolta sulla città di Bolzano, dove emerge una difficoltà di partecipazione sociale in senso responsabile e consapevole della cittadinanza. In questo caso è stata elaborata una riflessione proprio intorno a quello che abitualmente viene individuato come “disagio”, pur avendo chiaramente un’origine sociale e non necessariamente individuale. Si è, allora, optato per il concetto di alienazione, volutamente forte, per riportare la matrice del problema alle cause sociali che lo determinano: dalla responsabilità dei singoli individui che ne portano il peso, ma non ne sono la causa, alla responsabilità sociale e dunque collettiva che va affrontata con interventi sinergici e responsabili frutto di cooperazione tra istituzioni e cittadinanza. Riprendo di seguito quanto riportato nella ricerca.

2.1. Il caso di Bolzano. I dati empirici

“In una società che tende da una parte a creare lavoro precario e contrattualità sociali provvisorie, dall’altra a favorire la trasformazione del nucleo familiare da originario luogo di sicurezza depositario del ‘per sempre’ a centro di contraddizioni profonde innestate su rapporti potenzialmente temporanei, tra le conseguenze più evidenti emergono: la ridotta presenza di responsabilità personale nei rapporti sociali, di qualsiasi natura, e una palpabile tensione sociale che in senso psicologico viene definita come ‘insicurezza’, ma nelle sue accezioni e responsabilità non si esaurisce affatto nei termini individuali bensì richiama ad una responsabilità collettiva. In altri termini, venendo a mancare i valori di riferimento, la coesione sociale si sbriciola.

La ricerca sociale si fonda su un principio essenziale: riconoscere che i problemi dell’individuo non si esauriscono nella soluzione psicologica e nell’adattamento del singolo al sistema ma sono piuttosto la spia di quanto le logiche di funzionamento del sistema sociale riescano a mantenere come asse centrale della propria esistenza la dialettica tra l’individuo e la società. Che cosa significa? Significa che nell’affrontare e ascoltare qualsiasi percorso e processo di vita ci troviamo in uno snodo fondamentale che coinvolge sempre la persona e il contesto nel quale essa si muove. In questo senso il problema specifico individuale rimanda sempre ad una complessità sociale, un’organizzazione del sistema che riverbera direttamente le sue conseguenze sul vissuto degli individui. Il grado di integrazione dei singoli può fornire indicazioni sull’agibilità del sistema, quanto questo sia trasparente e in grado di offrire uguali opportunità al cittadino comune. Laddove si riscontra apatia, disinteresse, rifiuto, superficialità diffusa o ignoranza totale nei confronti delle istituzioni di riferimento, l’ipotesi principale alla quale fare riferimento riguarda il grado di ‘alienazione’ del cittadino nel contesto di appartenenza. Il termine ‘alienazione’ viene utilizzato in sociologia per definire una situazione sociale nella quale gli individui perdono il possesso dei termini della loro esistenza, vivono in una condizione di estraniamento che crea impasse tra la possibilità di scelta e i ristretti margini indicati dal sistema sociale e burocratico. Il concetto di ‘disagio’ in senso generico è una ‘scontentezza’ della propria situazione, una insoddisfazione. La sua connotazione, però, individua uno stato psicologico, dunque un problema soggettivo che va risolto nel caso singolo. Se il termine ‘disagio’ induce ad una concentrazione sui problemi dell’individuo, in termini sociologici o meglio, osservando la rilevanza del fenomeno su basi più ampie e collettive, si parla invece di ‘alienazione’. Laddove il termine ‘disagio’ tende a puntare il dito sul singolo che non ce l’ha fatta, relegandolo ad un rapporto di doppio vincolo con il servizio sociale che lo ‘aiuta’ ma, in alcuni casi, rischia di esercitare anche un ‘controllo’, il concetto di ‘alienazione’ rimanda invece ad una responsabilità collettiva, più ampia, che coinvolge tanto le istituzioni quanto i cittadini stessi che non riescono a rompere la barriera del rapporto con l’altro, per paura di contaminazione con un diverso generalizzato.

L’ipotesi alla quale si è fatto riferimento nella costruzione del piano della ricerca è stata, quindi, non tanto quella di concentrarsi sull’entità del ‘disagio’ così come inteso dai servizi sociali preposti agli interventi di urgenza; piuttosto ci si è chiesti quale sia il presupposto per il contesto bolzanino ad una reale possibilità di partecipazione attiva della cittadinanza. In questo senso, si è cercato di individuare gli ostacoli, le barriere, le oggettive contraddizioni del sistema ad una motivata partecipazione sociale alla realtà urbana osservando lo stato della comunità a partire dal senso di appartenenza, di radicamento e dalla coesione interna tra i cittadini.

Si è cercato, allora, di indagare, attraverso il vissuto della cittadinanza, cosa si interponga tra il cittadino e la partecipazione sociale alla città di Bolzano. Chi partecipa e chi non riesce? Perché? È questo il fattore discriminante dal quale possono con facilità prendere avvio situazioni di disagio leggero, ma la cui trasformazione in disadattamento e potenziale utenza dei servizi può divenire prassi. In sostanza si è cercato di indagare non tanto il ‘disagio’ che ha già bisogno di una emergenza, ma si è cercato di capire, piuttosto, fino a che punto il tessuto sociale abbia risorse interne per operare in senso preventivo, arginare le situazioni a rischio, creare alternative ai sistemi di vizio del contesto che possono poi generare una caduta nell’emergenza” (Riccioni 2012, 44-46). Questo il quadro complessivo della riflessione che viene completata e spiegata dall’interazione con le riflessioni teoriche dei sociologi classici. Il concetto di “alienazione” riscontrato e ipotizzato nel contesto bolzanino riporta esattamente alle questioni fondamentali: appartenenza, diversità, interdipendenza, responsabilità.

Il grado di coesione sociale di una comunità è dato dal grado di interazione tra gli individui e i diversi gruppi che lo costituiscono: qual è il grado di interazione sociale in una convivenza dove, in presenza di due o più gruppi etnico-linguistici ufficialmente riconosciuti, la cittadinanza percepisce e vive di fatto una divisione istituzionale? Quale può essere l’interazione tra gruppi che vengono divisi istituzionalmente dalle scuole primarie pur vivendo nella stessa città? Per la città di Bolzano e per gli agglomerati urbani misti altoatesini la realtà si ripete, dati della ricerca alla mano: le realtà diverse in questo territorio tendono a creare mondi paralleli, il cui primo elemento critico che emerge è il grado di coesione o alienazione della cittadinanza. A fronte di ciò, però, la convivenza è un dato di fatto, dunque anche l’interdipendenza tra gruppi ha una sua realtà forse non del tutto affiorata in modo socialmente consapevole. Un ulteriore fattore di distinzione che spesso è stato considerato da ricerche fatte sul territorio riguarda la stratificazione sociale: i mondi paralleli che sembrano determinati dall’appartenenza etnica, fino a che punto non sono il “normale” distacco che sussiste tra distinzioni di ceto e dunque di abitudini di vita, classe di reddito, istruzione? È proprio vero che anche a parità di ceto sociale esiste la distinzione etnica? E ancora, fino a che punto l’appartenenza etnica non è diventata sinonimo di appartenenza sociale nel senso di “classe sociale”? Queste domande possono guidare l’osservazione verso una ulteriore distinzione, anche se i dati cosiddetti sensibili su queste informazioni non sono facilmente reperibili e spesso parziali. Ad ogni modo, anche la classica distinzione dogmatica in classi sociali non è un approccio necessariamente valido all’osservazione del fenomeno della convivenza: ci sono individui che trascendono l’appartenenza etnica, così come individui che trascendono la propria appartenenza ad una classe sociale, e queste realtà intermedie possono essere colte solo con strumenti non dogmatici di organizzazione della conoscenza della realtà sociale. Se si accetta la definizione dogmatica del concetto di “appartenenza” il sistema stesso può apparire come un dato immodificabile, perdendo quelle informazioni che, invece, il vissuto fornisce in forme ibride, miste, pregne delle contraddizioni del reale che sono all’origine del mutamento e della mobilità sociale. Dalla ricerca sulla città di Bolzano emerge una predilezione diffusa della cittadinanza a parlare della convivenza in termini di “mondi paralleli”, “mondi divisi” (Riccioni 2012), che si conoscono e frequentano poco, che interagiscono per le operazioni di quotidiana routine ma che non creano diversità in dialogo, bensì realtà separate. Tutto ciò, però, sembra essere molto più il risultato di un modo di vedere orientato dal pregiudizio che non riesce a riconoscere il mutamento effettivo che avviene, ed è avvenuto già, all’interno delle dinamiche di convivenza. I “due mondi” in questione, oltre che “paralleli”, sono tra di loro “interdipendenti”: operano sullo stesso territorio ma come separati in casa, soprattutto perché stentano a prendere consapevolezza di questa preziosa e spesso virtuosa, sebbene sofferta, interdipendenza. Senza la consapevolezza, senza la possibilità di arricchirsi della relazione tra diversità in senso esplicito, la via dello sviluppo è bloccata dalle forze di negazione dell’altro; inoltre, prende corpo una realtà priva dell’elaborazione di appartenenza, di coesione, in quanto i gruppi presenti sul territorio non costituiscono un’unità sociale in senso simmeliano ma rimangono, nell’immaginario collettivo, allo stato di gruppi distinti e non interagenti. Ciò è possibile proprio in virtù di quel dato dogmatico di appartenenza sopracitato che non ha alcuna consistenza quando si dispiega l’effettiva realtà del vissuto. In questo senso, lo stesso concetto di appartenenza sembra verbalizzabile solo attraverso etichette che non rispecchiano già più le esigenze di identità in quanto processo ed è per questo che assume infine i contorni del dato immodificabile. In altre parole: si stenta a dare spazio alla cosiddetta “terza cultura”, in grado di fondare le nuove consuetudini dalla presa di coscienza dell’interdipendenza tra soggetti che operano su uno stesso territorio, perché si fa fatica, istituzionalmente, a riconoscere, dare dignità e verbalizzare in modo nuovo la stessa realtà di fatto. In questo senso il “modello altoatesino” di convivenza è, da un punto di vista sociologico-istituzionale, un “modello di divisione”. Quale che fosse l’obiettivo sembra essere stato raggiunto, con buona pace delle crisi in arrivo, da un punto di vista economico-politico forse, ma non da un punto di vista sociale.

Se il “modello altoatesino” chiama in causa e tutela le diversità, non ne facilita in nessun modo la conoscenza reciproca, la frequentazione anche casuale, tende a non riconoscere istituzionalmente i naturali movimenti sociali che vengono a crearsi in qualsiasi agglomerato urbano, dunque la necessità di un terreno di incontro che dia luogo, oltre alle rispettive culture di origine, alla cultura acquisita come momento collettivo di ripensamento della convivenza come fatto quotidiano e istituzionale. La formazione del nuovo, che è spesso il risultato delle interazioni spontanee, casuali, va riconosciuta anche nel suo farsi, non solo a processo concluso. Di casuale in Alto Adige sembra essere rimasta solo, proprio, la relazione all’altro che, da tipica tradizione montana, tende a considerare lo straniero solo come alterità di passaggio che non resta e, dunque, sembra non interrogare la propria identità (Riccioni 2009, 5-29). L’apertura è dunque limitata ad un’immagine mentale del bisogno, che rimane sorda alla capacità di creare consuetudine, reciprocità, novità condivisa.

Sarebbe auspicabile, quindi, che le difficoltà del vivere comune diventassero il materiale per un processo di presa di coscienza, da parte delle istituzioni, per fare in modo di favorire la trasformazione della percezione di separazione in momenti di convivenza consapevole sia pure tra le difficoltà e incomprensioni. La convivenza multiculturale in Alto Adige è un dato di fatto, i tempi sono ora maturi affinché, dall’analisi sulla criticità del territorio, si lasci spazio all’applicazione pratica della convivenza anche come accettazione consapevole, come costruzione sociale della convivenza, e non più solo come sistema istituzionale, imposto dall’alto, ma come momento di cooperazione tra società civile e forze politiche, economiche, culturali e amministrative. Per fare questo, il primo passo è la presa di coscienza del grado di interazione inevitabile tra le realtà e di quanto l’accettazione dell’altro, qualsiasi forma assuma questa alterità, sia fondamentale e irrinunciabile per la costruzione della propria stessa identità. L’identità non può svilupparsi e vivere senza l’accettazione dell’altro. L’inevitabile interazione tra culture diverse, qualora non venga riconosciuta come apporto positivo, può dare luogo a scontri, ma solo la consapevolezza di una convivenza, di fatto già reale, cambia l’ordine del problema. Perché “pensare” la convivenza quando di fatto se ne vive la realtà quotidiana? Da un punto di vista istituzionale gestire un territorio multiculturale e plurilingue significa operare innanzitutto nel senso di creare le basi per una parità di fatto: l’eguale dignità etnica, linguistica, culturale è il presupposto per una convivenza consapevole delle diverse culture che si accettano nella diversità ma convergono in favore di un vantaggio collettivo o bene comune. La co-tradizione culturale è il naturale sviluppo di questo stato di fatto. Nessuna cultura si può chiudere in se stessa senza inaridirsi, dunque la convivenza tra culture è di fatto un processo di costruzione verso co-tradizioni culturali (cfr. Ferrarotti 2003). La mancanza di co-tradizioni culturali al contrario è, o sarebbe, l’amaro risultato di una occasione perduta, frutto di un processo costante e reiterato di negazione dell’altro che, di fatto, esprime la negazione di se stessi e della costruzione della propria stessa identità.

3. La partecipazione

Una delle problematiche emergenti dalla ricerca sulla città di Bolzano riguarda proprio la partecipazione cittadina. In questo senso, va specificato, con il termine partecipazione non si intende il comportamento elettorale che viene quantificato alle urne attraverso il voto elettorale bensì la capacità della cittadinanza di farsi parte attiva e di prendere parte al processo di costruzione della democrazia.

Il concetto di partecipazione alla vita sociale della città è spesso la cartina di tornasole delle politiche del territorio, della fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni e sul tipo di rapporto che la politica ha saputo intrattenere con i propri elettori. Anche questa è una relazione che svela la natura delle parti che la compongono.

Da un punto di vista statistico, l’affluenza alle urne nella città di Bolzano registra una sostanziale partecipazione cittadina.

La partecipazione alle elezioni europee del 2009 nel comune di Bolzano (64,68 per cento) rispecchia la media nazionale (66,5 per cento)1 ed è più alta della media regionale (60,1 per cento)2. La partecipazione al voto delle elezioni provinciali nel comune di Bolzano del 26.10.2008 è stata del 73,17 per cento, in calo rispetto al 2003 (76,8 per cento) e minore dell’affluenza alle urne a livello provinciale (80,1 per cento). Per quanto riguarda la partecipazione al voto alle elezioni politiche per la Camera dei deputati del 13-14.04.2008 è stata del 83,71 per cento, maggiore di tre punti della media nazionale (80,5 per cento).

Da un punto di vista dell’esercizio del diritto di voto, la partecipazione sembra essere quantomeno nella media nazionale, da un punto di vista puramente istituzionale, dunque, il cittadino “bolzanino” ha un comportamento mediamente positivo e partecipativo.

Ma la partecipazione è un concetto strettamente vincolato alla conoscenza e al bisogno della realtà nella quale si vive ed opera, dunque va oltre i doveri istituzionali e, in un momento di relativa debolezza istituzionale, può estendere la sua realtà ad aspetti sociali più sentiti e vicini alla comunità di appartenenza. Nella ricerca sulla città di Bolzano avevo accennato ad una potenziale tipologia del cittadino sulla base di criteri di motivazione alla partecipazione ripartita secondo le caratteristiche:

1. Attivo (responsabile, informato, partecipante, promotore);

2. Attivo al bisogno, cerca punti di aggregazione ma non ne è necessariamente promotore;

3. Disinteressato, cosmopolita, indifferente, individualista;

4. Apatico, emarginato, rinunciatario.

All’interno di queste tipologie troviamo poi in maniera trasversale l’immigrato che, per visibilità o per sopravvivenza, passa dall’uno all’altro a seconda delle opportunità di questi modi di agire, spesso costituendo delle associazioni di immigrati, altre volte creando una rete religiosa, altre volte di tipo sociale o assistenziale (Riccioni 2012, 164-165).

4. Aspetti problematici e mimetici dell’uso della partecipazione. ­Partecipazione attiva e partecipazione conformista

La partecipazione, quindi, può essere di diversi tipi: una partecipazione attiva, consapevole che contribuisce alla costruzione del sociale; e una partecipazione passiva, conformista, che si limita a “presenziare” ma non si attiva nel senso completo del termine.

La differenza che scaturisce da questi due atteggiamenti distinti può riguardare in diversa misura il senso di responsabilità. Mentre la partecipazione conformista tende a seguire la tendenza collettiva ma non si espone e non è chiamata pertanto ad una responsabilizzazione rispetto alle proprie iniziative, semplicemente perché non ne prende, la partecipazione attiva, invece, tende a farsi corresponsabile del vivere comune attraverso azioni pubbliche, incisive, che richiedono una risposta dalle istituzioni e come tali chiamano a prese di responsabilità collettive. Questa dialettica tra fare collettivo e decisioni istituzionali è il percorso della costruzione della cittadinanza attiva che, proprio in quanto tale, non si può più nascondere dietro la non responsabilità di ciò che accade. In una parola, la cittadinanza attiva richiede conoscenza, attivazione e soprattutto incarna la responsabilizzazione del cittadino rispetto al proprio territorio, ambiente, qualità della vita, sicurezza, pulizia, ecc.

Il concetto di responsabilità, inteso letteralmente come “risposta” alle esigenze della collettività e della condivisione, rappresenta il rovesciamento del rapporto cittadino-istituzioni. Non più un cittadino che attende le azioni, un cittadino che propone la propria voce, le proprie vie di risoluzione collettivamente negoziate per riappropriarsi della cittadinanza come diritto e dovere e non come parola svuotata di senso.

La questione della partecipazione attiva della popolazione alla vita politica e alla costruzione collettiva della cittadinanza incontra diversi nodi critici, non sempre messi in evidenza con debita chiarezza. La partecipazione nella società di massa si rende particolarmente difficoltosa in quanto prevede un’estensione ampia che erode e frantuma il potere in senso verticistico. La tempestività nelle decisioni politiche è spesso ciò che le rende efficaci e i tempi della democrazia sono sempre tempi lenti, farraginosi, con strutture che non facilitano né l’effettivo confronto, né la possibilità di prendere la decisione migliore nel miglior tempo. Tra partecipazione e negoziazione si rischia di non avere mai una decisione. Un eccesso di democrazia dal basso, quindi, rischia purtroppo di dare origine ad un potere inerme, un potere che non riesce a prendere decisioni, un potere incapace di essere tempestivo e mirato. A quali condizioni, dunque, si può pensare un processo decisionale democratico e partecipato, efficace sia da un punto di vista della tempestività sia della partecipazione? Se la partecipazione si dà come presupposto per lo sviluppo di una società contemporanea, come si coniuga questa possibilità di partecipazione con la realtà stringente dei tempi burocratici, delle decisioni importanti, delicate e, spesso, tenute segrete ai più? Una partecipazione attiva, per essere tale, ha bisogno di conoscenza: come estendere le conoscenze effettive e fondamentali alla più ampia società di massa?

5. Il servizio sociale e la sua funzione di accompagnamento alla ­partecipazione attiva: un’opportunità mancata?

Quale sia il modo affinché una comunità possa attivare la motivazione alla partecipazione responsabile della propria cittadinanza, implica una riflessione complessa sulle istituzioni e sul rapporto tra cittadini e istituzioni (Riccioni 2012). Sicuramente si è in presenza di un processo sociale che va costruito nel tempo e con la progressiva consapevolezza collettiva delle istituzioni, della società civile tout court o di quelle istituzioni di mediazione che operano da “cerniera” tra il tessuto cittadino e le istituzioni, come ad esempio il servizio sociale o il mondo dell’associazionismo. Il servizio sociale può fornire ampi spazi di conoscenza del territorio soprattutto in relazione a quelle che sono le problematiche e le emergenze che maggiormente contribuiscono a costruire il quadro sociale stesso di una realtà urbana o di un territorio; l’associazionismo o le strutture private di sussidiarietà, per altri versi, sono invece il luogo dove la relazione tra cittadino e servizio si dispiega in maniera più attenta, dove ci sono meno vincoli istituzionali e maggiore facilità di accesso al rapporto personalizzato dell’utenza. In questo senso, il servizio al cittadino personalizzato delle associazioni tende ad innescare quel rapporto di fiducia, appartenenza e stima che può dare luogo ad una realtà comunitaria identitaria forte da promuovere naturalmente una partecipazione alla collettività e un processo di costruzione dei valori per la coesione sociale.

Note

1 Cfr. Fonti: Elezioni europee 2009, Istituto Cattaneo di Bologna, www.cattaneo.org

2 Cfr. Fonti: Elezioni europee 2009, Istituto Cattaneo di Bologna, www.cattaneo.org

Riferimenti bibliografici

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Simmel, Georg (2001). Forme dell’individualismo, Roma: Armando

Simmel, Georg (2006). Individuo e gruppo, Roma: Armando

Abstracts

Zum Konzept der Entfremdung in ­einem multikulturellen Kontext

Die Sozialwissenschaften gründen auf der Annahme, dass die Probleme des Individuums sich nicht alleine in psychologischen Bezügen oder der individuellen gesellschaftlichen Anpassungsfähigkeit erschließen, sondern vielmehr nachvollziehbar machen, wie sehr die Funktionsmechanismen des sozialen Systems auf das dialektische Verhältnis zwischen Individuum und Gesellschaft als Substrat der eigenen Existenz bauen.

Will man den Partizipationsgrad der BürgerInnen am ­öffentlichen Leben in einer Stadt erfassen, in der man verbreitet Apathie, Desinteresse, Ablehnung oder gar absoluter Ignoranz gegenüber öffentlichen Institutionen bege­gnet, dann könnte der Schlüssel zur Bewertung der Motive dieser sozialen Verhaltensmuster im Grad der Entfremdung der BürgerInnen liegen. Der Begriff „Entfremdung“ findet in der Soziologie Verwendung, um soziale Zustände zu beschreiben, in denen Individuen die Bedingungen ihrer Existenz verlieren und in einem Zustand fehlender Übereinstimmung ihrer Handlungsmöglichkeiten und den engen, vom sozialen und bürokratischen System vorgegebenen Rahmenbedingungen leben.

Le conzet de alienaziun te n contest multicultural

Les sciënzes soziales basëia sü prinzips sön le fat che i problems dl individuum ne ­s’ademplësc nia ma tles relaziuns psicologiches o tla capazité d’adatamënt soziala individuala, mo ai é plü co ater la spia de tan che les logiches de funzionamënt dl sistem sozial é bunes de mantignì sciöche sostrat zentral de süa esistënza la dialetica danter individuum y sozieté.

Sc’an ô abiné le degré de partezipaziun dles zitadines y di zitadins ala vita publica te na cité, olach’an incunta tres deplü apatia, dejinterès, refodanza o ćinamai na ignoranza ­assoluta ti confrunć dles istituziuns publiches, ilò podess la tle da valuté les gaujes de chësc model de comportamënt sozial ester da ciafè tl degré dla „alienaziun“ dles zitadines y di zitadins. Le conzet „alienaziun“ vëgn adorè tla soziologia por descrì situaziuns soziales olache l’individuum perd les condiziuns de süa esistënza y vir te na situaziun olach’al manćia na armonia de sües poscibilitês d’aziun y les condiziuns de cornisc dades dant dal sistem burocratich strënt y sozial.

On the concept of alienation
in a multicultural context

The social sciences are based upon a fundamental assumption: that the problems of the individual do not end only in psychological solutions or in the adjustment of the individual to the system but, in reality, are an indi­cation of to what extent the functioning of the social system manages to maintain the debate between the individual and society as an imaginary central axis of its existence.

If one wants to grasp the degree to which citizens participate in the public life of a city, where one encounters widespread apathy, indifference, rejection and even absolute ignorance regarding public institutions, the key may lie in assessing the motives of social behaviour patterns in the citizens’ degree of alienation. The term ­“alienation” is used in sociology to describe social conditions in which individuals lose the prerequisites for existence and live in a state where there is a lack of relation­ between their courses of action and the rigid basic­ conditions specified by the social and bureaucratic system.