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Marco Mondini

Armi e eroi.

Culture di guerra e miti marziali nella nazionalizzazione italiana

1. Allegorie delle nazioni e immagini dell’uomo in Europa

I miti guerrieri sono un fattore imprescindibile del discorso nazionale elaborato dalla cultura dell’Europa occidentale contemporanea. Le narrazioni patriottiche del XIX secolo, in cui si celebra il passato della comunità nazionale o se ne invoca la rinascita, sono popolate da eroi combattenti che difendono la comunità dall’aggressore o la liberano dall’oppressore. Arminio per i tedeschi e Vercingetorige per i francesi, condottieri della resistenza alla conquista straniera; Guglielmo Tell per gli svizzeri, Ettore Fieramosca a Barletta o Francesco Ferrucci a Firenze, campioni della libertà, i protagonisti della produzione letteraria, iconografica e melodrammatica che struttura l’immagine della nazione e alimenta la partecipazione emotiva del pubblico alle sue vicende, sono, con poche eccezioni, uomini di guerra, e le virtù marziali sono le prime e più indispensabili qualità degli attori che si propongono la rinascita (o il riscatto, o la liberazione) della patria, sia essa la Germania, l’Italia, la Francia o la Svizzera (Banti 2005). Gli eroi combattenti sono modelli esemplari, tipi umani che, non solo devono ispirare tutti coloro che sono impegnati in prima persona nella lotta per liberare o vendicare la comunità nazionale, ma anche fungere da paradigma etico per le generazioni successive: rappresentano un legame diretto con “l’età dell’oro” da cui la comunità è decaduta, giungendo ad asservirsi allo straniero, o da cui si sta allontanando, votata ad un declino che, se non interrotto da azioni e comportamenti valorosi, porterà inevitabilmente con sé corruzione, sfacelo, fine dell’indipendenza e della libertà (Smith 1998). L’eroe guerriero è summa degli attributi etici del degno figlio della madre patria, per la quale dimostra un amore così grande da giungere all’estremo sacrificio pur di donarle dignità e libertà, esprimendo così le migliori qualità virili. La lotta per la comunità nazionale è infatti, con poche eccezioni legittime, appannaggio del vero uomo (cioè del maschio), e chi a questa lotta si sottrae o, peggio ancora, si oppone, non è uomo nel senso più alto del termine (Dauphin/Farge 1997; Bertaud 2011). Dalla lotta è esclusa legittimamente solo la donna, cui viene riservato il ruolo topico della madre/sposa/figlia che esorta alla lotta, saluta chi parte per il campo di battaglia, attende o ristora l’uomo tornato dalla guerra – ammesso che in guerra egli si sia comportato con onore. Il maschio che non prende le armi (per vigliaccheria o perché traditore) è un essere indegno, moralmente e sessualmente. In tale schema archetipico, la guerra funge da spazio rituale per l’accesso alla comunità virile e la dimostrazione dell’identità mascolina (Ehrenreich 1998; Van Creveld 2007).

La validità di questi tòpoi ha forse il maggior riscontro proprio nei testi del nazionalismo europeo diffusi attraverso il XIX e il XX secolo, ampiamente percorsi da temi quali l’estetizzazione della morte come apice dell’amor di patria e il martirio/sacrificio per la difesa della comunità o come “santa” aggressione per proclamare il proprio diritto all’esistenza, un sostrato ideale che tornerà ossessivamente durante la mobilitazione della cultura di guerra novecentesca. Tratto comune e quasi ossessivo di questi tropi è la militarizzazione della maschilità, un elemento chiave che connota il campo culturale europeo dopo la Rivoluzione francese. Il rovesciamento dell’ancien régime, il collasso del monopolio principesco della violenza legittima e il varo della coscrizione universale come cardine della partecipazione alla dimensione pubblica stravolgono le coordinate dell’appartenenza politica (e conseguentemente dell’identità virile). Dopo il 1789 le armi diventano, da mestiere di pochi, dovere di tutti, una qualità che distingue (e d’ora in avanti distinguerà sempre) l’uomo dal bambino, dalla donna, dal vecchio, dall’inabile (Rauch 2000). Si tratta di una scansione rilevante nella storia europea. La Rivoluzione, con la pratica della “nazione in armi” e la costante insistenza sull’obbligo della difesa della patria come prima virtù civica, rifonda velocemente un paradigma concettuale per cui alla pratica guerresca corrisponde la compiuta dimensione dell’essere uomo: da un lato la cittadinanza politica e dall’altra, va da sé, l’identità virile (Hippler 2006). Il culto dell’educazione marziale diviene un momento di passaggio e un obbligo collettivo e universale, al di là delle molte contraddizioni e resistenze opposte dalla borghesia francese, come, da allora in avanti, da tutte le popolazioni sottoposte all’obbligo della coscrizione (Crépin 2009). La levée en masse, pur con tutti i limiti di un’immagine ampiamente mitica, avrebbe, da quel momento in avanti, ridisegnato i confini della cittadinanza e dell’identità di genere, indicando nella “prova militare” il momento liminare per eccellenza e nel maschio adulto, consacrato al diritto-dovere di portare le armi, l’uomo nuovo rivoluzionario, il citoyen nel senso del pieno godimento dei diritti politici, secondo uno schema retorico che si sarebbe consolidato progressivamente attraverso tutto il secolo successivo (Forrest 2003). Un avvenimento traumatico nella storia europea, le cui conseguenze militari e sociali sono state nel corso del tempo molto ben analizzate ma di cui è soprattutto importante sottolinearne la dirompente portata ideologica (Frevert 1997).

Non si trattò di una dinamica progressiva e lineare. Anche se l’esempio della leva di massa e della “nazione in armi” aveva teoricamente fatto proseliti, l’obbligo di tutti gli individui maschi maggiorenni al servizio militare fu praticato, almeno fino al 1870, con molta discrezione dai diversi governi europei. In Francia come nel Regno di Sardegna (e nel primo decennio dell’Italia unita) il modello di organizzazione delle forze armate fu l’esercito di “caserma”, con una ferma limitata ad una percentuale piccola della popolazione maschile avente (teorico) obbligo e l’esclusione, attraverso una rete di privilegi e di meccanismi a pagamento di affrancazione, delle classi dominanti (Gooch 1982). In altri stati, come in Gran Bretagna, l’idea di un esercito basato sulla coscrizione obbligatoria non si affermò mai. Ciò nonostante, durante tutto l’Ottocento la familiarità degli uomini con l’utilizzo delle armi, bianche ma soprattutto da fuoco, crebbe a dismisura.

2. Una nazione nata dalle armi: il Risorgimento italiano

“Una d’arme, di lingua, d’altare / Di memorie, di sangue e di cor. […] Forti, armati de’ propri dolori, / I tuoi figli son sorti a pugnar. […] Per l’Italia si pugna, vincete! / Il suo fato sui brandi vi sta.”

Scrivendo Marzo 1821, forse la più celebre delle sue liriche (alla pari con Il Cinque maggio), Alessandro Manzoni aveva dato un contributo fondamentale alla definizione dell’idea di Italia nella cultura patriottica e alla strutturazione di quel “canone” letterario risorgimentale mediante il quale, nel corso dell’Ottocento, si sono costruite mitologie, simbologie e immagini della nazione (Banti 2000). Marzo 1821 diventò infatti uno dei testi chiave di riferimento dell’immaginario otto­centesco e la sua definizione di nazione italiana quale comunità unita in primo luogo dalle “armi” il più fortunato leitmotiv del Risorgimento. Comunità di discendenza, identificata in primo luogo dunque dal sangue e dalla genealogia, la nazione italiana era unita dal passato comune e dalla comune appartenenza religiosa; ma a generarla, a riscattarla, a difenderla dovevano essere in primo luogo le gesta di una comunità di combattenti (Banti 2011).

Marzo 1821 non fu un caso isolato, per quanto straordinario sia stato poi il suo successo. Se si volge lo sguardo agli altri letterati che si sono dedicati nel corso del XIX secolo a dare forma con le loro opere all’idea di nazione italiana, si scoprirà che l’accento posto sulle “armi” non è una prerogativa manzoniana ma che, al contrario, sottende la gran parte delle narrazioni patriottiche impegnate a scoprire, immaginare, evocare, esaltare la comune patria italiana (Banti 2010). All’armi! All’armi! esorta Giovanni Berchet in una sua lirica del 1831, invocando i “figli d’Italia” affinché accorrano al richiamo della guerra, uniti “dall’Alpi allo Stretto”, contro l’oppressore (il “Tedesco”), mentre in Clarina (1822) incita “all’arme!” i fratelli italiani, tutti uniti in una sola bandiera per combattere i barbari e riscattare infine l’Italia dal servaggio e nel più celebre Il giuramento di Pontida (1829) fa sognare all’esule patriota la riscossa dei Lombardi contro l’imperatore Federico: “Su, lombardi, puntate la spada: […] Presto, all’armi! Chi ha un ferro l’affili…”. Dai libretti delle opere di Giuseppe Verdi ai romanzi storici di Massimo D’Azeglio, simili invocazioni alle armi, al riscatto dalle umiliazioni e dalla condizione servile subite dalla nazione attraverso il ferro e il fuoco della battaglia, ricorrono costantemente, quasi ossessivamente, nei testi in circolazione nell’Ottocento italiano. Ettore Fieramosca, Niccolò de’ Lapi, Francesco Ferrucci, sono protagonisti per eccellenza nella galleria degli eroi a cui richiamarsi; “figure” nel senso attribuito al termine da Auerbach, vale a dire personaggi reali in sé ma anche simboli, profezia di qualcosa che deve ancora compiersi (Auerbach 1956). Campioni della patria (e della razza), i guerrieri che affollano la costellazione narrativa patriottica dell’Ottocento sono gli ultimi “fra i grandi Italiani” (come Guerrazzi apostrofa Ferrucci morente durante la caduta di Firenze), figli di un’epoca di grandezza e di scelte coraggiose (Guerrazzi 1882)1. Singoli valorosi, ma anche collettività bellicose, come i grandi gruppi corali protagonisti delle opere di Verdi: “Sì… Guerra! Guerra! / Guerra! guerra! s’impugni la spada, / Affrettiamoci, empiamo le schiere!”, canta il coro de I Lombardi alla crociata (1843), in una grandiosa metafora dell’azione patriottica magistralmente messa in scena dal librettista Temistocle Solera.2 Più in generale, la figura dell’eroe guerriero rappresenta un elemento imprescindibile del discorso nazionale e il valore militare è una caratteristica essenziale per coloro che vogliono far rinascere, liberandola, l’infelice nazione italiana. Da un attento osservatore del significato europeo della rivoluzione francese, come il conte Paolo Greppi, a Vincenzo Cuoco, inventore-scopritore di archetipi sulle virtù del cittadino-soldato – per non citare che due tra i più fortunati pubblicisti dell’epoca – la debolezza militare dell’Italia è percepita con angoscia ed esibita come il primo e più importante male che affligge i popoli della penisola. Il problema delle armi non è inteso, però, come mera questione di organizzazione politica: un esercito nazionale deve essere infatti prima di tutto occasione di riscatto per un nuovo tipo di italiano. Così, in testi che spaziano dagli scritti giovanili di Cesare Balbo agli appelli del generale napoletano Guglielmo Pepe, si conia lo stampo di un modello di eroismo romantico e patriottico allo stesso tempo, intriso di reminiscenze classiche della grandezza romana, di rimpianti sull’ignavia contemporanea delle stirpi italiche, di richiami al civismo del cittadino che combatte non per sé ma per la patria, la difesa e la salvaguardia delle sue libertà (Bollati 1983, 34-79). Al bisogno di eroi e di grandi glorie guerriere, fa da contraltare però il più pervicace degli antimiti, noto già ben prima del XVIII secolo, quello dell’“italiano imbelle” e della penisola come terra di essere, infidi, deboli e oziosi (Patriarca 2010, 3-37). In uno dei testi più autorevoli del primo romanticismo, Corinna o l’Italia, Madame de Staël non risparmia i giudizi netti sugli abitanti della penisola definiti indolenti ed effeminati, mentre una delle opere sulla storia d’Italia più fortunate del XIX secolo, la celeberrima Storia delle Repubbliche italiane (1807- 1818) del ginevrino Sismondi, affermava che il declino politico dal Medioevo in avanti era da attribuirsi alla degenerazione morale degli italiani (Lyttelton 2001). Ambedue questi cliché, legati al presupposto processo di svirilizzazione (emasculation) degli italiani, avrebbero avuto in seguito un’influenza determinante sugli intellettuali, sui cantori romantici delle glorie italiche ma anche sugli attori della scena politica del patriottismo ottocentesco, rendendo l’antimito dell’italiano degenerato, privo di virtù militari e neghittoso uno degli stereotipi più ossessivi e contro cui più insistentemente battersi. Ugo Foscolo – che scrivendo il carme Dei Sepolcri nel 1807 non aveva potuto evocare tra le “urne dei forti”, che devono ispirare i presenti alle “egregie cose”, alcuna gloria guerriera e dopo aver assistito al fallimento dei moti del 1820 -1821 – si lamenterà dell’impossibilità di resuscitare quella “divina generazione” che aveva imbracciato le armi nelle fila delle armate napoleoniche, unica testimonianza del valore guerriero italiano; non sarebbe stato l’unico a denunciare in quegli anni l’assenza di eroi disposti al martirio per la maggior gloria della patria (Balzani 2008). E non sono solo i poeti a dolersi della scarsa fama bellicosa dell’Italia. Tra i più influenti speaker della causa nazionale, Giuseppe Mazzini sarà anche tra i più roventi e passionali avvocati dell’onore marziale italiano, vituperato da secoli di malignità, sospetti (ma anche debolezza, ignavia, comportamento neghittoso delle classi dirigenti), una nomea di viltà che offusca qualsiasi futuro di una patria italiana e che solo con il ricorso alle armi per affermare le proprie ragioni e il proprio coraggio potrà riscattare:

Perché, è forza dirlo, noi viviamo disonorati: disonorati, o giovani, in faccia a noi stessi, in faccia all’Austria, in faccia all’Europa. Nessun popolo in Europa, della Polonia in fuori, soffre gli oltraggi che noi soffriamo: nessun popolo sopporta che una gente straniera, inferiore di numero, di intelletto, di civiltà, rubi, saccheggi, arda, manometta ferocemente a capriccio un terreno non suo […]. E nessun popolo, […] nessun popolo più di noi ha millantato odio al barbaro, valore italiano, potenza di desiderio e furore di indipendenza. […] Voi potete sacrificare per alcuni anni la libertà, la vittoria d’una idea; ma non per un giorno l’onore. Un popolo non deve, non può rassegnarsi ad essere creduto dagli stranieri millantatore e codardo” (Mazzini 1976, 346-348).

La guerra non è solo, dunque, lo strumento per liberarsi dell’oppressione straniera e per raggiungere i fini pratici del programma patriottico, indipendenza e unità della penisola; è anche (e forse soprattutto) un’azione necessaria per riconquistare dignità alla nazione e dimostrare quelle qualità guerriere, valentia, coraggio che sole possono indicare la virilità degli italiani, un necessario atto di fondazione di una nuova Italia, guidata alla sua rigenerazione da una stirpe di eroi (Banti/Mondini 2002; Riall 2007). Pochi anni più tardi, un altro opinion maker particolarmente apprezzato tra i democratici risorgimentali, Giuseppe Montanelli, darà ancora più vigore alla necessità di smentire l’antimito degli italiani “malfidi e codardi”. Troppe volte, scriverà nel 1855 nel secondo volume delle sue Memorie, è stato udito chiamare l’Italia “terra di morti” (una infelice ma famosa formula del poeta e politico francese Lamartine) e “espressione geografica” (la celeberrima etichetta è del ministro austriaco Metternich). A queste ingiurie non si può rispondere con i bei canti dei poeti, né con le belle opere d’arte che rafforzano solamente l’impressione di un popolo ozioso e privo di spina dorsale:

Correre alle armi, qualunque avesse a riuscire fortuna di zuffa; correre alle armi, perché il mondo smettesse di confondere i contemporanei dei Bandiera cogli Scipioni di Arcadia; […] correre alle armi, perché se non politicamente, questa volta moralmente almeno rispettata in Europa sorgesse la gran madre latina, fu istinto magnanimo, e non di Lombardia, non di Venezia soltanto, ma di nazione italiana” (Montanelli 1855, 245-246).

All’alba delle campagne per l’indipendenza, il conflitto armato assume all’interno della retorica patriottica un significato che trascende (e di molto) le sue finalità politiche e che travalica anche lo spazio occupato dal “militarismo romantico” europeo. Alle armi non si associa solo l’esito della causa patriottica, tant’è che, in assenza di una guerra aperta, i veri patrioti possono anche ripiegare sull’impegno nelle contese private. Non è un caso dunque se nell’Italia centro settentrionale del “decennio di preparazione” fioriscano così numerosi i duelli a fondo politico che vedono giovani riottosi della borghesia o anche dell’aristocrazia lombarda e veneta sfidare ufficiali e funzionari imperiali, sublimando così l’ansia della lotta di liberazione e affidando all’uso della sciabola contro lo straniero la rivendicazione della virilità e del coraggio degli italiani oppressi (Hughes 2007, 30-43). Alla guerra, santa crociata per liberarsi del “barbaro”, si affida, in una somma straordinaria e opprimente di significati simbolici, la legittimità della rinascita nazionale, il diritto all’esistenza degli italiani come stirpe rigenerata e la prova, per la nuova Italia “immaginata” dai patrioti, di poter riscattare la propria decadenza e rinverdire le “itale glorie” dell’“età dell’oro”, forgiandosi ad immagine della comunità ideale degli eroi antichi (Irace 2003). Tuttavia, la diffusione di questa formazione discorsiva, ricca di fascino ed evocazione, non è esente da fratture e da contraddizioni. In primo luogo, perché i retori – e insieme gli attori che incarnano il programma naziona­le patriottico – non concordano sui progetti di reificazione del programma medesimo. La dualità (intrinseca e mai realmente superata) del Risorgimento tra attivismo radicale e democratico e protagonismo politico sabaudo raggiunge il suo acme nel dibattito teoretico sulla “nazione armata” e, ancor di più, nell’utilizzo mitopoietico delle campagne per l’indipendenza. Lo stesso enunciato “nazione armata” tradisce le ambiguità di fondo e le aporie del conflitto tra i due modelli politico-militari ma anche l’egemonia, tarda e mai del tutto efficace, della dirigenza sarda nel gestire l’immagine dell’epopea risorgimentale. Incubata in ambito democratico, il lemma di “nazione armata” rimandava ad una galassia concettuale intrisa di idealità rivoluzionarie ma anche di reminiscenze classicistiche, tipiche del sostrato culturale che aveva accompagnato l’esperienza giacobina nella penisola: non più il monopolio della violenza affidato al monarca ma liberamente gestito da tutto il popolo maschile adulto su base volontaria ed elettiva nella creazione delle gerarchie, garanzia di libertà ma anche di educazione della comunità attraverso l’universalizzazione di una pedagogia virile fatta di addestramento alle armi e di amalgama del corpo nazionale (Della Peruta 1982). Ma il modello della “nazione armata” che avrebbe avuto più tardi (nominalmente) successo in Italia derivava in realtà dalla versione prussiana addomesticata e trasformata in militarizzazione degli obblighi civici, che manteneva inalterato il potere evocativo del termine (Volk in Waffen) risemantizzandolo in una versione autoritaria e monarchica. Tramontata la fase eroica del Risorgimento e avviato a formazione il nuovo Esercito Italiano, di “nazione armata” si sarebbe continuato a parlare per riferirsi ad un organismo in grado di reclutare e riunire (almeno teoricamente) tutti i sudditi del nuovo regno. Lontano dalle convinzioni che avevano animato anni prima gli scritti militari di Carlo Pisacane o di Carlo Cattaneo, la nazione alle armi sarebbe stata il luogo privilegiato di una pedagogia disciplinante nazionale-monarchica, in cui alla preparazione del buon soldato, addestrato a difendere la nuova patria, faceva pendant la formazione del “buon italiano”, leale ai suoi superiori, devoto, fedele alla monarchia e al re, “buon padre”, primo soldato del regno e comandante delle forze armate (Conti 2011). Alla sconfitta delle idealità democratiche nell’organizzazione militare dello stato unitario, rapidamente affermata con la liquidazione dell’eredità garibaldina dell’esercito meridionale, fece tuttavia riscontro il fallimento del tentativo di alimentare un mito marziale sabaudo abbastanza pervasivo da poter concorrere con il culto eroico e guerriero di Garibaldi. “Gran re”, “re galantuomo”, monarca costituzionale alla guida del Piemonte “provincia guerriera” e delle sue leali armate (di mestiere), Vittorio Emanuele II fu senz’altro l’oggetto di una insistita operazione mitopoietica che avrebbe dovuto alimentarne in Savoia un’immagine popolare di esponente della gloriosa dinastia di eroi in armi a cui si doveva la costruzione unitaria. Il tòpos del monarca come primo soldato del regno, protagonista delle grandi battaglie in cui si era conquistato con il sangue il diritto alla libertà e all’unità della penisola, divenne, soprattutto a partire dagli anni settanta dell’Ottocento, il centro focale della rappresentazione storica risorgimentale. Parte integrante di questa rappresentazione era una letteratura agiografica, in cui il primo re d’Italia era l’ultimo di una galleria di eroi – fatta risalire fino al capostipite Umberto Biancamano – animata dall’indomito spirito battagliero, il cui destino patriottico doveva avverarsi con le gesta di Carlo Alberto e dello stesso Vittorio Emanuele II (Levra 1992, 173-297). Il sacrificio del primo dopo la disfatta della “brumal Novara”, il valore del figlio sul campo di Santa Lucia, Goito, San Martino e Solferino, furono i tasselli di un grandioso affresco epico, marziale e dinastico allo stesso tempo. Ma, nonostante questa epopea guerriera e cavalleresca fosse sostenuta sia da un’intensa produzione di opere destinate a reinventare la tradizione delle glorie militari del vecchio Piemonte, sia da una diffusa organizzazione museale finalizzata a rideclinare in senso nazionale i fasti guerrieri della casata, a supporto dell’immagine di un re-soldato votato alla causa dell’Italia unita (Tobia 1991; Baioni 1994), l’immagine della tradizione militare sabauda e dell’eroismo dei re non riuscì mai ad alimentare un vero mito guerriero popolare e diffuso. Da un lato, infatti, questa operazione si dovette scontrare con i disastrosi risultati ottenuti sul campo dalle armi regie e dalla incapacità di superare gli echi negativi che le sconfitte ebbero (ben più nel campo dei simboli e delle immagini che in quello dei risultati politici). Dall’altro, la letteratura encomiastica sabaudista dovette fare i conti, in posizione assolutamente perdente, con il contemporaneo affermarsi in maniera ben più virulenta e lineare del culto di Garibaldi, forse l’unico mito guerriero popolare e destinato a duraturo successo del Risorgimento (Riall 2007). Non casualmente, i due testi destinati a più lunga fortuna dell’intera lirica militar-patriottica italiana, se non altro per la popolarità del refrain e il riutilizzo in epoche successive, sarebbero stati La Spigolatrice di Sapri (“Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti!”) e l’Inno a Garibaldi (“Si scopron le tombe, si levano i morti, / i martiri nostri son tutti risorti. […] Va’ fuori d’Italia! Va’ fuori, stranier!”), non propriamente delle odi all’epopea guerriera dei Savoia.

3. Armi ed eroi mancati: l’Italia liberale

Fu una vasta produzione quella che, soprattutto nell’ultimo quarto del secolo, si preoccupò di fornire ai giovani cittadini modelli virtuosi che coincidevano con figure virili e disciplinate al servizio della patria in armi e disposte al sacrificio “in nome del re e dell’Italia”: l’esercito divenne il modello di “scuola della nazione”, un laboratorio di formazione morale e civica del nuovo italiano (Rigotti 1985). Basti pensare al testo più famoso e senza dubbio più pervasivo, quel Cuore dell’ex capitano De Amicis, foriero di fortunate scene collettive e individuali di eroismo militare su cui rifondare una pedagogia dell’Italia unita e da cui trarre gli esempi per l’educazione degli italiani (Pecout 2001). Ma la credibilità di questo paradigma pedagogico e guerriero era messa profondamente in crisi da una sequenza di disfatte che – anche e forse soprattutto per reazione alle glorie garibaldine – avevano radicalmente minato la capacità dell’esercito di proporsi quale “alfiere della nazione e palladio delle glorie patrie”. Paradigma di un antimito particolarmente pervicace, che avrebbe accompagnato tutto il processo di deprecazione dei fallimentari risul­tati dell’epopea risorgimentale, fu il riflesso delle disfatte di Custoza e Lissa nel 1866, percepite immediatamente come prova delle tare di una nazione incompiuta e destinate ad alimentare un complesso di inferiorità dai complicati (ma innegabili) sbocchi. “La guerra è cessata”, scriverà nel settembre di quell’anno un influente opinion maker dell’epoca come Pasquale Villari sulle pagine de “Il Politecnico”, in un duro j’accuse destinato ad immediato successo: “Questa guerra ci ha fatto perdere molte illusioni, ci ha tolto quella fiducia infinita che avevamo in noi stessi. […] Ci è impossibile pensare di noi quello che avevamo pensato finora” (Villari 1868).

L’ipoteca lasciata dalla sconfitta sulla credibilità del neonato regno si propose da subito come efficace pratica discorsiva, tanto da poter essere chiamata in causa tra le radici di quel magmatico complesso di insoddisfazioni e frustrazioni da cui emersero, ad un tempo, la comunità immaginata dell’antiparlamentarismo, del nazionalismo più aggressivo e, in ultima istanza, dell’antigiolittismo. La guerra, in fondo, non era stata invocata nelle stesse aule parlamentari, per citare le parole di Francesco Crispi, come il battesimo del sangue di una comunità che non aveva ancora dimostrato il proprio diritto all’esistenza? (Crispi 1890, 525-526). Di fronte a questa attesa della prova, il rovescio non poteva che “inoculare il disonore” nell’intera nazione, come avrebbe scritto Carducci (1920, 152). L’antimito del Risorgimento “passivo”, “fatto da altri”, come conseguenza del carattere imbelle degli italiani, trovò la sua culla in un habitus sorprendentemente diffuso tra gli intellettuali, tanto da introdurre una frattura non indifferente nell’insieme della pedagogia nazionale, spostata verso un orizzonte sempre più critico, rassegnato al fallimento di una nuova grande Italia (De Giorgio 1998). A venir meno con Custoza e Lissa era, insomma, la fiducia nei cardini della retorica risorgimentale eroica, tra cui, va sottolineato, la convinzione di un esercito “più disciplinato e morale di tutte le istituzioni”, per usare ancora le parole di Villari, cui poter affidare il compito di fungere da “scuola della nazione”, plasmando la comunità dei coscritti e facendone un popolo, secondo una formula tanto vaga e proteiforme quanto pervasiva (Mondini 2001). In questo senso, Custoza e Lissa sono all’incrocio di un complesso di dinamiche disgreganti per il delicato processo di nation building, tra cui in primo luogo proprio la crisi di status cui va incontro l’esercito regio, altrimenti proposto come attore fondante dell’identità nazionale e destinato viceversa a vivere il tramonto dell’era dorata del proprio prestigio. Umiliato dalla sconfitta e ridotto ad oggetto di disprezzo, ricorderà Armando Guarnieri anni dopo nelle sue memorie, l’esercito veniva additato a campione non più delle virtù ma dei vizi e delle deficienze della nazione: “Disarmo, disarmo si gridava ovunque […] e questo grido era l’inevitabile contraccolpo di Custoza e Lissa” (Guarnieri 1868, 104). Lissa e Custoza si collocarono all’origine di una galleria di cattivi luoghi della memoria, che attraverso Adua arriverà fino a Caporetto (e forse fino all’8 settembre): “sconfitte obbrobriose”, mai rielaborate mitopoieticamente come “disfatte gloriose”, e destinate a sostenere quella pratica discorsiva ampiamente diffusa per cui “gli italiani non si battono” (Guarnieri 1997; Belardelli 1999). Fu un trauma mai superato né sublimato secondo il codice della resistenza eroica, della revanche o della pugnalata alla schiena, una pratica di superamento e riabilitazione della sconfitta che, in diversi contesti spazio-temporali, dal Sud degli Stati Uniti distrutto dalla guerra civile alla Francia di Sedan, ha permesso sovente di legare a disastri militari momenti fondanti dell’orgoglio nazionale (Schivelbusch 2006).

Eppure, in altre occasioni, episodi tecnicamente disastrosi sul campo di battaglia erano stati trasformati dalla retorica patriottica risorgimentale in modelli di virtù guerriera del popolo, tanto da sovvertire iconologicamente il senso della sconfitta. La battaglia di Curtatone e Montanara fu un esempio paradigmatico del riutilizzo riuscito del codice di “giornata infausta ma gloriosa” per metabolizzare il complessivo insuccesso della prima guerra di indipendenza (Tarozzi 2004; Gavelli/Sangiorgio 2004). E, d’altro canto, proprio la capacità di resuscitare dalla lunga teoria di sconfitte della storia moderna degli stati italiani singoli episodi di valore fu all’origine del ruolo da protagonista detenuto dai segni della memoria guerriera, degli eroi e delle armi delle campagne di indipendenza, nell’itinerario spirituale proposto nei decenni successivi dai musei del Risorgimento, templi laici della nuova patria in cui le nuove generazioni, cresciute già all’ombra del tricolore, avrebbero dovuto abbeverarsi alla fonte dello spirito di sacrificio e del coraggio dei padri fondatori (Baioni 1994, 51).

Tuttavia, nel caso delle sconfitte del 1866 il processo collettivo di rimembranza non portò alla sublimazione dei nomi di Lissa e Custoza. Questo fallimento non ebbe molto a che vedere con le dimensioni della sconfitta in sé. Al contrario, proprio la buona tenuta complessiva delle truppe italiane, avvalorata da molti osservatori, a fronte del panico che aveva preso gli alti comandi alla prima notizia di ripiegamento, poté essere facilmente utilizzata come fonte per un’epica consolatoria del “bravo soldato” italiano. Gli “episodi di strenuo valore”, l’eroismo delle truppe a fronte di una sequenza di incomprensioni e di equivoci, parteciparono a quelle metonimie memoriali che avrebbero potuto dar luogo ad una rivisitazione in chiave gloriosa di Custoza. Così, ad esempio, si poté ricostruire la vicenda del “quadrato di Villafranca”, la resistenza disperata del 49° reggimento al comando del principe Umberto a cui De Amicis darà fama nelle fortunate pagine di Cuore: un episodio che in sé racchiudeva non solo l’immagine delle virtù marziali del popolo ma l’epica guerriera di casa Savoia, tentando di trasformare il principe in uno degli eroi armati del Risorgimento (De Amicis 1996, 261-266). Tuttavia, il successo della risposta deamicisiana alla crisi del 1866 era destinato ad essere solo parziale. Da un lato, infatti, la narrativa eroica di De Amicis si scontrò con la precoce veicolazione di un messaggio antimilitarista nella scrittura di Iginio Ugo Tarchetti (1867). Dall’altra, la stessa letteratura encomiastica non era priva di incongruenze, quasi a testimoniare la difficoltà di una compiuta cosmesi ideologico-narrativa. Il popolo che incitava i soldati italiani che passano il confine con il Veneto era lo stesso che li dileggiava all’indomani del 24 giugno: “Ma bene! Ma bravi! O che metteva conto di far tanto chiasso per far poi coteste figure?” (De Amicis 1866)

Vi sono pochi dubbi sul fatto che la sconfitta (la “terribile lezione” come la definirà Bettino Ricasoli) abbia giocato un ruolo decisivo in questa fase. Custoza e Lissa rappresentano le rivelazioni della fragilità dei sogni grandiosi della nazione e la portata del trauma si deduce bene forse proprio dal tentativo di rimuoverne il ricordo. Da un’analisi dei cataloghi delle biblioteche italiane si può infatti dedurre che la quantità di testi (memoriali, poetici, musicali, funebri) dedicati a Custoza rappresenta un insieme straordinariamente piccolo, soprattutto se paragonato all’alluvione di memoria scritta originata, ad esempio, dalla giornata di Curtatone e Montanara (Tobia 1991; Tobia 2008; Arisi Rota 2009). Escludendo le analisi tecniche sulla battaglia, non sono più di una trentina gli opuscoli, le elegie, gli spartiti, i volumi celebrativi dedicati ai caduti individuali o ai reparti combattenti a Custoza nel 1866, mentre per il ricordo di Lissa solo undici testi possono essere ad oggi registrati, a fronte di oltre centotrenta opere di varia natura dedicate ai volontari e ai regolari “eroi” del 1848 (Catalogo delle Biblioteche 1993 - 2004). Specchio di questa assenza di retorica commemorativa fu il sostanziale fallimento del progetto di un Ossario a Custoza come luogo di memoria epica, consacrato al ricordo del sacrificio dei “figli della nazione” immolatisi nelle due battaglie perdute ma destinate, nelle intenzioni dei promotori, a rifulgere di luce gloriosa in quanto perpetua testimonianza della capacità degli italiani di versare il proprio sangue come fratelli sul campo dell’onore (L’Ossario di Custoza 1879; Nervi 1867). Inaugurato il 24 giugno 1879, dopo quattro anni di raccolte fondi e di valutazione di diversi progetti architettonici, l’Ossario, realizzato dall’architetto veronese Giacomo Franco, rappresentava una commistione tra il gusto neo-goticheggiante dell’autore e l’essenzialità dell’obelisco funerario di 38 metri che sovrasta la cappella votiva e l’ossario vero e proprio, dove i resti dei caduti vennero disposti in vista (Archivio di Stato di Verona 1875–1879). Benché inaugurato con una solenne cerimonia dal monarca e frutto di uno sforzo congiunto tra la Chiesa locale e i comitati civici del capoluogo e fosse stato, nell’immediato, oggetto della pubblicistica di occasione, il monumento di Custoza scomparve quasi subito dai circuiti delle pratiche commemorative, disertato dai riti patriottici ed emarginato, di fatto, nel discorso pubblico. “L’illustrazione italiana”, uno dei periodici più attenti all’erezione di nuovi luoghi del culto patriottico, riservò all’Ossario poche righe cariche di ironia sulle autorità scarsamente rappresentative, relegando la notizia nelle spigolature periferiche (L’illustrazione italiana, 06.07.1879). Caso emblematico di non luogo del ricordo, il monumento a Custoza fallì indubbiamente per la mancata volontà delle agenzie istituzionali di insistere sulla rivisitazione del senso e sul riutilizzo positivo del 1866. Le narrazioni che avrebbero dovuto suggerire il senso del sacrificio eroico, contribuendo a farlo entrare nel corale processo di rimembranza dell’ultima guerra del Risorgimento, caddero così nell’oblio, esempio evidente di come l’utilizzo del passato sia efficace solo se sostenuto costantemente da attori forti che lo organizzino e lo rendano presente nei circuiti comunicativi del quotidiano (Assmann 2002).

A smentire la fragilità dell’epos marziale non avrebbe certo contribuito, negli anni che seguirono, l’avventura coloniale in Africa orientale. Messo in moto fondamentalmente (e avventatamente) da considerazioni di prestigio nel momento culminante dello scramble for Africa, sostenuto dalle ambizioni allo status di potenza, il primo tentativo dell’Italia di vestire i panni imperiali si alimentò ampiamente di un ben radicato ricatto patriottico, soprattutto dopo la sconfitta di Dogali (1887), uno shock che ebbe larga parte nell’impegnare all’interno del paese risorse culturali e calcoli politici sufficienti a mobilitare una costosa e rischiosa campagna militare (Labanca 1993).

Il massacro dei 500 soldati della colonna De Cristoforis ad opera dell’esercito etiopico, uno tra i più gravi rovesci fin lì subiti da reparti regolari bianchi ad opera di combattenti neri, innescò in effetti un primo e precoce senso di umiliazione verso l’onore nazionale che andava rapidamente vendicato, a riprova che “il valore italiano non è ancor morto”, per usare le parole con cui un abile retore politico come Crispi nel febbraio 1887 avrebbe lanciato, di fatto, la sua politica estera, indicando contemporaneamente una via di fuga all’elaborazione letteraria del colonialismo italiano (Adorni 1997). La necessità di rilanciare l’immagine del valore italiano, il timore di un’ennesima ferita all’immagine internazionale del paese, l’ansia della “prova militare” che riscattasse i pervicaci antimiti, concorsero fortemente a mobilitare un consenso diffuso all’avventurismo coloniale cui, alla vigilia della sconfitta di Adua, partecipavano anche segmenti della stampa e intellettuali che fino a poco prima avevano militato sul fronte anticrispino (emblematico il caso di Carducci). Se dobbiamo dare retta ad alcune testimonianze contemporanee, vennero coinvolti persino strati della popolazione poco avvezzi alla lettura della stampa ma affascinati dalla dimensione esotica dell’epopea africana e attirati dalla capillare diffusione del racconto per immagini attraverso le riviste illustrate (Laforgia 1996). Il processo di mitopoiesi si sarebbe progressivamente rafforzato con la precoce canonizzazione di una galleria (peraltro non molto affollata) di campioni coloniali; come sarebbe accaduto a Pietro Toselli, caduto all’Amba Alagi, o per Giuseppe Galliano più comunemente noto come il “leone di Macallè” nell’encomiastica di età fascista, acclamato protagonista sulla stampa nazionale di vari scontri con gli abissini tra 1893 e 1896, la cui scomparsa nel culmine della battaglia ad Adua ne avrebbe consacrato la figura di martire glorioso della nazione in armi. Questa ben avviata rivitalizzazione dell’epica guerriera nazionale, che aveva toccato apparentemente momenti di notevole efficacia, non resse tuttavia al disastro conclusivo di Adua. L’elaborazione del ricordo della sconfitta fu fallimentare, e, nonostante i tentativi di declinare la disfatta secondo i crismi tradizionali della giornata “sfortunata ma gloriosa”, anche il 1896 entrò nella (lunga) galleria dei luoghi dell’infausta memoria bellica unitaria (Labanca 1997, 397-416). Disfatta obbrobriosa, incubo destinato a pesare sulle coscienze, certamente non sconfitta gloriosa da poter celebrare (se non in casi isolati), grumo di rancori e di tensioni che squassarono la classe dirigente, con la caduta dell’apparentemente inossidabile Crispi e l’opinione pubblica con le dimostrazioni contro la guerra e al grido di “viva Menelik” destinate a restare nel ricordo di molti quale convincente prova della pericolosità delle folle antipatriottiche, la prima guerra d’Africa fu altresì letta da molti intellettuali come un tornante decisivo per la riscoperta della nazione (Pescosolido 1973). Secondo Enrico Corradini, la notizia del disastro ad Adua avrebbe avuto la capacità di convertire molti letterati alla politica, spingendoli ad abbandonare i sogni della “pura letteratura”, come avrebbe scritto sulle pagine de “Il Marzocco” pochi giorni dopo la notizia del disastro. Per lui, personalmente, fu l’inizio di un percorso ideologico che lo avrebbe portato a divenire, da giovane esponente del mondo letterario fiorentino, autore di primo piano del nazionalismo, una scansione celebrata ancora nel 1911, in pieno entusiasmo da revanche nazionalista per la conquista della Libia, con la pubblicazione de La guerra lontana, ambientato proprio durante la guerra italo-abissina. Giovanni Pascoli avrebbe dedicato ai fatti africani due componimenti, l’inno Alle batterie siciliane, in occasione della consacrazione di un monumento ai caduti della “batteria Masotto” a Messina nel 1899, e l’ode A Ciapin, ispirata da un ricordo di Giuseppe Galliano, l’“eroe che tace ma vive”; due tra le liriche più chiaramente pubbliche e marziali del “vate nazionale”, che ne segnarono la riscoperta dei valori nazionali (Laforgia 1996).

Giovanni Papini, altro futuro gran nome dell’intellettualità nazionalista all’epoca adolescente, ricorderà molti anni dopo il trauma collettivo al grido degli strilloni che annunciavano “la grande sconfitta” e l’impressione di una popolazione che pareva “una sterminata famiglia percossa dalla sventura” (Papini 1948). Un giovane Giovanni Gentile, studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa, serberà con commozione per lunghi anni la sensazione del dolore per l’“onta patita” dovuta alla disfatta italiana in Africa (Turi 2006, 41). Non è ovviamente necessario ritenere che quest’offesa bruciasse allo stesso modo a tutti gli abitanti della penisola, tra i quali si contavano molte migliaia di dimostranti che avevano invaso le piazze per gridare la propria rabbia contro lo spreco di vite dei coscritti in Africa e contro la megalomania coloniale. Tuttavia, la percezione (quasi l’ossessione) dell’onta da lavare, di un incubo sinistro che schiacciava “una generazione intiera”, come ne avrebbe scritto l’influente giornalista del bel mondo Edoardo Scarfoglio, di una nazione “scesa di qualche gradino nella stima del mondo”, secondo la definizione del più volte ministro ed esponente di spicco della Destra storica Sidney Sonnino, continuava a rappresentare il più pervasivo (ed inquietante) refrain della cultura nazionale (Baioni 1988; Zunino 1995, 99). Per usare le parole di Alfredo Oriani (un altro cantore delle tare della nazione particolarmente di moda in quegli anni), l’Italia non aveva ancora espiato il proprio peccato originale, quello di aver vissuto la propria rivoluzione senza meriti, per virtù e vittorie altrui; una passività che ne aveva decretato inesorabilmente la decadenza morale.

Il secolo degli eroi in armi si chiudeva per gli italiani con l’ansiosa attesa di un riscatto, di una prova del sangue e del fuoco che avrebbe alimentato la mobilitazione della cultura nazionalista in occasione della conquista della Libia e, ancor più, dell’ingresso nella Grande Guerra.

Note

1 L’assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873) venne pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1836 sotto falso nome, poi introdotto clandestinamente in Italia dove conobbe un successo strepitoso. Mi servo dell’edizione Garbini, Milano 1882, con illustrazioni di Q. Cenni.

2 Temistocle Solera (1815 -1878), poeta e romanziere, scrisse i libretti di alcune delle più famose opere verdiane, tra cui il Nabucco e, appunto, I Lombardi alla prima crociata.

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Abstracts

Waffen und Helden:
Kriegskulturen und Kriegsmythen
der italienischen Nationsbildung

Kriegsmythen sind konstitutive Elemente der nationalen Diskurse des 19. und 20. Jahrhunderts. So auch im Fall Italiens, in dem Kriegsheld und Krieg elementare Bausteine des nationalen Diskurses darstellten. Es handelt sich hierbei um ein hegemoniales begriffliches Modell, das im Europa der Nationalismen typisch war und das die Konstruktion der nationalen Gemeinschaft als genuin konfliktiven Prozess verstand: Man definierte sich als „italienisch“ in Abgrenzung zu „österreichisch“; die Befreiung von der Unterdrückung durch „fremde“ Völker konnte demnach nur gewaltsam erreicht werden. Diese kriegerische Identität, die die Vorstellung der Wieder­auf­erstehung und der Zentralität der Nation mit sich führte, bedingte in Italien den Bedarf an Helden, denen das Schicksal einer dekadenten und unterworfenen Halbinsel anvertraut werden musste. Die Anziehungskraft dieser martialischen Rhetorik, mithin die Glorifizierung der kriegerischen Tugenden als wichtigste Eigenschaften eines vorbildlichen und mannhaften italienischen Bürgers, hielt trotz des Ersten und vor allem trotz der traumatischen Erfahrungen des Zweiten Weltkrieges auch im 20. Jahrhundert an.

Ermes y eroi: cultures y mić de vera tla
nazionalisaziun taliana

I mić de vera é elemënć costitutifs di discursc nazionai dl XIX y XX secul. Insciö inće tl caje dla Talia, olache l’eroe de vera y la vera rapresentâ i elemënć de basa dl discurs nazional. Ara se trata chilò de n model egemonial conzetual, tipich tl’Europa di naziona­lisms y che aratâ la costruziun dla comunité nazionala ma n prozès conflitual: an se ­definî „talian“ por se desfarenzié dal „austriach“; la liberaziun dala sotmisciun ai popui „foresć“ podô porchël ma gnì arjunta cun la forza. Chësta identité de vera, che ti jô do al’idea de ressoreziun y de zentralité dla naziun, à condizionè tla Talia le bojëgn d’avëi eroi, a chi ch’an messâ ti surandè le destin de na penisola decadënta y sotmetüda. La forza ­d’atraziun de chësta retorica marziala, adöm cun la glorificaziun di talënć belics sciöche carateristiches plü importantes de n zitadin talian ejemplar y mascolin, s’â mantignì inće tl XX secul, inće sc’an â vit la pröma gran vera y dantadöt les esperiënzes traumatiches dla secunda vera dl monn.

Weapons and Heroes:
War cultures and militaristic myths
about Italian nation building

War myths were constitutive elements of national discourse in the nineteenth and twentieth centuries. This was likewise the case in Italy: wars and war heroes constituted basic building blocks of the national discourse. Military courage – the foremost quality of our ancestors – was the main feature distinguishing those who wanted to revive their nation by freeing it. It involved a hegemonic conceptual model that was typical for the Europe of nationalism that understood the construction of a national community only through a hostile process: one was defined as “Italian” as opposed to “Austrian” so liberation from the oppression of “alien” peoples could therefore only be achieved by force. This warlike identity, which carried with it the notions of resurrection and the centrality of nations, reintroduced in Italy the need for heroes, to whom the fate of a decadent and conquered peninsula had to be entrusted. The appeal of this martial rhetoric and the consequent glorifying of martial virtues as the most important characteristics of a model, manly Italian citizen persisted into the twentieth century in spite of World War I and, most importantly, despite the traumatic experiences of World War II.