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Forum

Il disagio degli italiani secondo il parere
dei partiti, dei sindacati e degli operatori economici

Antonio Frena: segretario politico del Partito democratico dell’Alto Adige/
Demokratische Partei Südtirol

Il disagio degli italiani affonda le sue radici nella mancanza di condivisione politico-decisionale.

Riccardo Dello Sbarba: consigliere provinciale del Gruppo verde –
Grüne ­Fraktion – Grupa vërda

Italiani, il “gruppo impossibile”.

Elena Artioli: consigliere provinciale e segretario politico della Lega nord

La soluzione è culturale prima che politica.

Mauro Minniti: consigliere provinciale de La Destra (ex Popolo della libertà)

Gli italiani si sentono secondi.

Alessandro Urzì: consigliere provinciale de L’Alto Adige nel cuore (ex Futuro e Libertà – Zukunft und Freiheit – Dagnì y liberté)

Ininfluenza è la parola chiave.

Michele Buonerba: segretario generale della Confederazione Italiana Sindacato Lavoratori Cisl/Südtiroler Gewerkschaftsbund SGB

Il disagio sociale degli italiani non può essere considerato un sentimento di gruppo.

Lorenzo Sola: segretario generale della Confederazione Generale Italiana del Lavoro Cgil/Allgemeiner Gewerkschaftsbund AGB

A volte non è sufficiente solo correggere gli errori del passato.

Toni Serafini: segretario generale dell’Unione Italiana del Lavoro Uil/Südtiroler Gewerkschaftskammer SGK

Disagio degli italiani: dall’autonomia etnica, all’autonomia di territorio.

Ivan Bozzi: presidente dell’Unione Settori Economici Provincia di Bolzano Useb

Plurilinguismo: un valore aggiunto per tutti noi.

Prefazione

Anche questo forum, come i singoli contributi pubblicati in questo annuario, si occupa del disagio degli italiani in Alto Adige. Sono stati invitati a parteciparvi tutti quei partiti rappresentati in Consiglio provinciale che hanno anche una componente italiana, come ad esempio i Verdi.

Due partiti non hanno risposto al nostro invito: Unitalia – Movimento iniziativa sociale ed il Popolo delle libertà – Berlusconi per l’Alto Adige. Due esponenti politici, Mauro Minniti ed Alessandro Urzì, hanno consegnato i loro contributi quando erano ancora i rappresentanti delle fazioni indicate tra parentesi ma nel frattempo si sono presentati alle elezioni politiche del febbraio 2013 costituendosi in nuove fazioni.

A questo forum sono stati invitati anche i sindacati (ad eccezione del sindacato etnico Asgb/Autonomer Südtiroler Gewerkschaftsbund) così come una serie di operatori economici.

Tra questi solamente l’Useb (Unione Settori Economici Provincia di Bolzano) ha risposto al nostro invito.

Ai singoli partecipanti non è stata fornita nessuna lista di domande da seguire, cosicché ognuno ha potuto stabilire in maniera completamente autonoma il contenuto del proprio intervento. In questo modo le diverse posizioni politiche dei singoli partiti e delle singole associazioni, in merito al disagio degli italiani, hanno potuto trovare espressione in maniera non filtrata e non veicolata. In parte tali opinioni coincidono, in parte lasciano trapelare delle forti differenziazioni. Proprio i diversi punti di vista mettono in risalto un quadro vivace della realtà sociale, di come questa venga percepita ed interpretata e di quali alternative vengano offerte per agevolare il superamento del disagio degli italiani.

Antonio Frena

Partito democratico Alto Adige – Demokratische Partei Südtirol

Il disagio degli italiani affonda le sue radici nella mancanza di ­condivisione politico-decisionale.

Il disagio degli italiani dell’Alto Adige è sempre stato un tema caro al conservatorismo italiano in provincia di Bolzano. La definizione stessa del concetto, abusato ma impalpabile e indistinto nel suo significato, è tuttavia ben chiara a chi sostiene l’esistenza di gravi difficoltà del gruppo linguistico italiano nel rapportarsi con la vita quotidiana in una terra splendida ma di complessa interpretazione.

Mentre il disagio tout court è una condizione sgradevole per i motivi più disparati (morali economici, di salute) il disagio sociale – e cioè l’accezione più completa e corretta per chi usa e abusa del famigerato concetto – si riferisce proprio a quella supposta condizione di emarginazione e di privazione economica e morale sofferta da alcuni gruppi collocati all’interno di una società ben caratterizzata.

La tentazione di interpretare il disagio degli italiani solo come semplice demagogia di una parte politica, quella che notoriamente più cavalca revanscismo e tensioni tra opposti nazionalismi, è forte. Soprattutto per una forza progressista come il Partito democratico che ha fatto della pacifica convivenza, della diffusione del plurilinguismo, dell’uguaglianza e della giustizia sociale i cardini del suo agire politico per contrastare il fenomeno. Tuttavia sarebbe limitativo e probabilmente non coglierebbe l’essenza del problema.

Il vorticoso e vigoroso progresso economico, che ha interessato gli ultimi trenta, quarant’anni, ha profondamente trasformato questa terra nella sua strutturazione sociale, modificando alle fondamenta una realtà che era sostanzialmente contadina nelle periferie di madrelingua tedesca ed operaio-artigiana nelle maggiori urbanizzazioni di madrelingua italiana. Un progresso economico che ha chiesto in cambio una sostanziale modifica delle proprie abitudini di vita: il benessere in cambio dell’anima. Un cambio che ha trasformato i contadini in operatori del turismo, gli operai in addetti del terziario, molti altri in lavoratori del pubblico impiego. Contemporaneamente al benessere aumentava anche la capacità di autogovernarsi, la famosa autonomia di questa terra cresceva, diventava adulta, si faceva severa e rigorosa. Oppressiva? Chissà. Non dimentichiamoci che anche la perfezione amministrativa lascia sul campo degli scontenti, dei moderni dropout.

Questi esclusi, o perlomeno con la percezione di essere tali, esistono, innegabilmente e costituiscono il bug di un sistema peraltro assai efficiente. Come sempre accade nei malfunzionamenti le cause sono però multifattoriali. Non sbaglia infatti chi sottolinea la scarsa duttilità linguistica degli italiani che, poco inclini ad apprendere qualunque altra lingua che non sia la loro, rifiutano anche pervicacemente lo sforzo necessario a parificare la propria capacità relazionale (e politica) imparando il tedesco. Ma questo non può bastare come giustificazione. E non basta nemmeno l’obsoleta filosofia del “questa è Italia” per cui dovrebbero essere gli altri a doversi adattare. Certamente invece pesano i motivi economici con le differenze sociali che via via si acuiscono e lasciano indietro molti cittadini, in una terra dove la percezione del successo economico è straordinariamente evidente a chi ci vive. E spesso appartiene solo ad una parte, la stessa che nell’immaginario comune gestisce il potere con la forza dei numeri ed influenza la distribuzione della ricchezza.

A molti potrà sembrare invero un paradosso, ma possedere la maggioranza assoluta in un regime democratico può corrispondere in tutto e per tutto a creare un governo autoritario. Ed è questa la vera e forte sensazione di disagio: l’assenza di condivisione politica, l’estraneità alle scelte, la sensazione ansiosa di non contare nulla. Anche quando, ed è il secondo paradosso, il governo prodotto da questa maggioranza assoluta corrisponda ad un modello di società ben funzionante ed ammirato: purtroppo quella sgradevole e nitida sensazione di non aver contribuito col proprio apporto alla causa comune non se ne andrà mai. Il disagio degli italiani affonda le sue radici quindi proprio nella mancanza di condivisione politico-decisionale sui destini della propria terra e può essere interpretato quindi come deficit di partecipazione, come orgoglio ferito da subalternità consapevole.

Ma non tutto è perduto. Se i rimedi non li trovano le persone, la chiave per aprire al cambiamento può arrivare ancora una volta dalle turbolente trasformazioni della società. Il voto – cardine del processo politico democratico – sta cambiando, non è più unanime. I cittadini stanno cambiando: l’autosufficienza politica diviene un rimpianto del passato, bisogna finalmente aiutarsi a vicenda. Gli antichi assolutismi franano sotto i colpi di un pluralismo che abbatte il monolite: la condivisione è di fronte a tutti noi e bisogna saperla cogliere, restituendo ad ognuno la possibilità di entrare da protagonista nel processo decisionale. Unirsi sui bisogni reali permetterà finalmente ai partiti politici di perseguire il bene comune, il bene di tutti. Per seppellire finalmente il disagio di alcuni, per temperare lo strapotere di altri, per guarire dalla crisi di disistima che perseguita il gruppo italiano, per spiegare che non esistono inviolabili santuari del potere. Facendo, semplicemente e concretamente, democrazia nell’interesse di tutti.

Riccardo Dello Sbarba

Verdi Grüne Vërc

Italiani, il “gruppo impossibile”.

Mi resta difficile dire qualcosa sul “gruppo italiano in Sudtirolo”: sono infatti convinto che un “gruppo italiano in Sudtirolo” non esista.

Se se ne parla è solo per imitazione del “gruppo tedesco e ladino in Sudtirolo”. Quella del “gruppo italiano in Sudtirolo” è un’esistenza riflessa, dedotta – per dirla con Hegel – “dall’altro da sé” ma non “consistente per sé”. Una forma eterodeterminata di autocoscienza, un’esistenza di seconda mano, un vestito usato dal qualcun altro che invano si cerca di adattare e che alla fine resta lì come un rimpianto, una nostalgia, un senso di colpa, un errore.

Che il “gruppo italiano in Sudtirolo” non esista me lo conferma anche il fatto che ogni tentativo – di destra, di sinistra o di centro – di creare un partito che lo “raccolga” (altra imitazione del modello sudtirolese) è inesorabilmente fallito. Oggi le otto persone dichiarate di lingua italiana nel Consiglio provinciale sono distribuite in sette diversi partiti. Meno “gruppo italiano” di così!

Gli italiani del Sudtirolo non fanno gruppo. Per molte ragioni. Sono una popolazione di recente immigrazione, urbana, presente nelle professioni e nel lavoro dipendente ma non nell’agricoltura e nel turismo, non proprietaria di beni identitari (come la terra o gli immobili storici). Vengono da ogni parte d’Italia e i loro ricordi si riferiscono ad un altrove regionale quasi sempre a sud di Salorno. Non hanno un dialetto che li distingua omogeneizzandoli ma utilizzano anche tra loro un italiano standard con vago accento del nord est che non dà alcun senso di comunità.

Si tratta di una popolazione che in una sua notevole parte non ha mai cessato di muoversi, di spostarsi, di arrivare e di partire.

Ecco qualche dato dell’Istituto provinciale di statistica. Tra il 1975 e il 1994 le persone che dall’Italia sono immigrate in Sudtirolo sono state ben 34.000, mentre a emigrare verso l’Italia sono stati in 43.000. Ciò significa un ricambio di oltre un terzo della popolazione italiana in venti anni, una media di quasi 4.000 persone ogni anno che con mobili e bagagli passano il confine di Salorno, da e verso sud. Una mobilità eccezionale, che continua – pur un po’ rallentata – tuttora.

Vediamo ancora i luoghi di nascita. Nel 1981 dichiaravano di essere nati in altre regioni italiane 67.000 cittadini residenti in Sudtirolo, cioè il 54 per cento della popolazione italiana di allora. Nel 1991, dieci anni dopo, erano 58.000, il 50 per cento degli italiani dichiarati. Nel 2010 erano 51.000 su 118.000, pari al 44 per cento, cui però intanto si sono aggiunte altre 44.000 persone provenienti da paesi esteri (in particolare 21.000 da paesi europei non Ue e 14.000 da altri continenti) che in grande maggioranza ai censimenti si dichiarano “italiane”, che frequentano in larghissima parte scuole di lingua italiana, che vivono nelle città – 14.000 solo a Bolzano – dove vive anche il 90 per cento della popolazione italiana, con cui si mescolano e si confondono, accentuandone lo stato d’animo della mobilità che in certi quartieri popolari diventa anche senso di precarietà. Dunque nel gruppo che al censimento si dichiara “italiano” ci sono sempre più numerosi marocchini, cinesi, nigeriani, senegalesi, bosniaci, albanesi, kosovari e così via.

Per queste ragioni, dunque, ritengo che il “gruppo italiano in Sudtirolo” non esista e per questo da quando vivo in Sudtirolo (e sono 25 anni) non mi sono mai messo a “fare l’italiano”. Al contrario. Ho sempre frequentato gruppi misti. Mi sono sempre affidato al giudizio delle persone di altre lingue, culture, provenienze ed esperienze. Ho adottato persone nella mia dimensione italiana e mi sono lasciato adottare nella loro cultura ed esperienza tedesca e ladina e negli anni più recenti albanese, senegalese, cinese, nordafricana e così via.

Non mi sono trovato male. Ho attraversato – sentendomi a casa – tutti i luoghi di questa terra e davanti a me si sono aperte tutte le porte; ho imparato le lingue ma soprattutto ho ammesso e chiesto aiuto quando da solo non ci arrivavo.

Un “gruppo politico misto”, quello dei Verdi, mi ha portato prima a sedere in Consiglio provinciale e poi, lì, a ricoprire la carica di presidente dell’assemblea. Ho guidato delegazioni in tanti Länder austriaci e tedeschi; di alcuni conosco bene non solo i luoghi ma le persone, le mentalità, i mondi, le varianti linguistiche. Mi sono seduto nelle sale del parlamento di Berlino e di Vienna e sono sempre stato rispettato ed ascoltato. Mi sento a casa da Berlino a Palermo (anche senza Brenner Basis Tunnel) e non mi sembra poco. Non mi sono mai sentito “spaesato” (efficace definizione di Lucio Giudiceandrea) ma sicuro di me stesso e anche ben protetto da questa rete interetnica di rapporti e connessioni.

Non ho mai pensato a fare una politica “per gli italiani” ma per tutte le persone di questa provincia che amano l’ambiente, la democrazia, la trasparenza, la giustizia sociale ed hanno in odio le ingiustizie, la prepotenza, lo sfruttamento irresponsabile delle risorse, lo sperpero del paesaggio, il furto di futuro.

Se dovessi dare un consiglio a una persona di lingua italiana che vive (o viene) in Sudtirolo, le direi: sii sicuro di te stesso e proprio per questo mescolati il più possibile con gli altri. Non chiuderti, non essere invidioso, liberati dai pregiudizi, confrontati, abbi fiducia nel prossimo. Stai sicuro che – in barba a quello che dicono politici e giornali – una grossa parte delle persone di lingua tedesca e ladina di questa terra ama il mondo italiano, è felice di viverci a contatto e non vorrebbero mai rinunciare alla tua presenza qui. Sforzati di comprendere i dolori inflitti in passato alle persone di questa terra e sii orgoglioso di vivere in una piccola provincia per la quale due stati – Italia ed Austria – si sentono alla pari corresponsabili. Che la vicenda altoatesina abbia una dimensione internazionale non ti diminuisce, ma ti dà valore. Sei già un cittadino dell’Europa come dovrebbe essere. E se – come me – non accetti la ferrea “logica di gruppo”, sappi che il cambiamento comincia da ciascuno di noi e dunque, tu per primo, rompi gli argini e attraversa i confini. Con questo il mio discorso sugli italiani potrebbe finire qui.

Invece – purtroppo! – non può finire. Poiché, se da un lato la popolazione italiana non è un gruppo e non può fare gruppo, dall’altro è continuamente invitata a diventarlo e questo confonde e “spaesa” anche i singoli e indebolisce la loro ricerca di una piena e sana cittadinanza interetnica.

Ad ogni occasione si sente ripetere: senza i “tre gruppi linguistici” non funziona l’autonomia, almeno quella codificata nelle più importanti norme statutarie che riconoscono diritti alle persone solo in quanto appartenenti a uno dei tre gruppi linguistici ufficiali. Non è solo questione di norme, di censimento o proporzionale. La “logica di gruppo” orienta moltissimi ambiti di vita: la politica (i partiti etnici, la composizione etnica dei consigli e delle giunte, la spartizione etnica dei posti di sottogoverno), la cultura (tranne la musica), l’informazione (i giornali megafoni dei gruppi linguistici), la scuola (separata per lingue) e perfino diverse strutture del tempo libero e dello sport.

Così la convivenza vive in questa asimmetria: di fronte a una popolazione sudtirolese stabile e omogenea, che ha conquistato l’autonomia “facendo gruppo”, c’è questo mondo italiano mobilissimo e plurale che “gruppo” non è mai diventato. E c’è un sistema dell’autonomia che, nato all’origine per restituire alla popolazione sudtirolese i propri diritti, si è fondato sul presupposto della stabilità e omogeneità delle popolazioni che qui vivono.

È un fatto: la continuità di residenza, il radicamento, la costanza, la compattezza, la proprietà sono i presupposti di tutte le colonne portanti dell’autonomia e della ripartizione delle risorse. E gli italiani, sotto queste colonne, fanno fatica a starci. Per questo abbiamo un’autonomia a due velocità, con gli italiani sempre un po’ più indietro, sempre un po’ più in là, sempre un po’ smarriti.

Negli ultimi 40 anni si è cercato di “forzare” in vari modi la popolazione italiana dentro la logica di gruppo e questo tentativo è fallito sempre, erodendo – come effetto collaterale – la fiducia in se stesso del mondo italiano che si è sentito l’anello mancante di un mondo sudtirolese altrimenti perfetto. Nella frustrazione, chi poteva, per salvarsi, ha cercato di “aggregarsi” al mondo tedesco, gli altri si sono chiusi nella rassegnazione o nella rabbia.

E il gioco, se stesse alle dinamiche interne al mondo italiano, potrebbe ripetersi all’infinito. Se non fosse che – fuori dal mondo italiano – qualcosa sta cambiando. La novità degli ultimi cinque anni è che anche il mondo tedesco e ladino pare pian piano voler uscire dalla logica di gruppo. Si fa strada la voglia di pluralismo, di differenza. L’obbligo alla compattezza – per molti motivi – sta diventando meno importante del desiderio di libertà. E allora forse anche per gli italiani del Sudtirolo può cominciare un’altra storia. Quella di liberare progressivamente l’autonomia dalla logica dei gruppi, riformandola. Sarebbe la famosa “terza fase dell’autonomia” che attende di partire dal lontano 1992, l’anno della “quietanza liberatoria”, quando tutto sembrava poter cambiare e invece tutto è rimasto fermo.

La legislatura 2013 - 2018, grazie a diversi fattori che sembrano convergere e tutti virtuosi, potrebbe diventare “costituente” di una nuova “costituzione sudtirolese” che superi le asimmetrie della convivenza e restituisca pari opportunità sia alle persone mobili che a quelle stanziali. Un’autonomia più plurilingue, più solidale, più aperta, più ecologica, più responsabile verso il pianeta, più accogliente verso il prossimo. Che liberi le culture e le lingue, superando la logica dei rapporti di forza (Proporz) e rafforzando la condivisione, dando sempre meno peso ai gruppi e sempre più ai diritti e ai talenti delle persone. Un’autonomia non delle diplomazie partitiche e segrete sull’asse verticale Roma-Bolzano ma un’autonomia dei cittadini e delle cittadine stipulata sull’orizzontalità democratica del territorio.

Al posto delle identità separate e in competizione, potrebbe così – per chi lo desideri – diventare accessibile anche una identità unitaria fondata sull’orgoglio di vivere in una terra plurilingue e di partecipare a un grande laboratorio interculturale: una cittadinanza sudtirolese indivisa.

Se questa identità indivisa, plurale, libera e pacificata diventa possibile e istituzionalmente accreditata, allora credo che in essa possa riconoscersi gran parte degli italiani che vive in Sudtirolo.

Elena Artioli

Lega nord

La soluzione è culturale prima che politica.

Il disagio degli italiani? Non parlano tedesco e si sentono a disagio nel relazionarsi con la popolazione di lingua tedesca. Un limite linguistico che chiamano disagio. La situazione altoatesina è tutto, fuorché semplice. Barriere etnico-linguistiche, scuole divise fin dall’asilo e posti di lavoro assegnati per fedeltà al partito o appartenenza linguistica; altro che merito.

Un territorio monolingue, ove ognuno conosce solo la propria lingua è un territorio socialmente diviso. Un territorio ove la popolazione abbia la comprensione almeno passiva della lingua dell’altro è un territorio dove il maggior dialogo prende il posto del conflitto. Su un terreno plurilingue, come ad esempio quello creato per gli studenti della Libera Università di Bolzano, si sviluppa una società sinergica, capace di ricercare e innovare rapidamente. Quest’ultima è la strada da percorrere.

Se parliamo di disagio, dopo tutti questi anni di conflitto tra italiani e tedeschi, è però difficile chiederne il significato ad una mistilingue. Qui il conflitto c’è, chiamiamolo pure disagio, ed è quello di doversi sentire più vicino al padre che alla madre, o viceversa. È un obbligo istituzionale. In Alto Adige devi dichiararti dell’uno o dell’altro gruppo linguistico. Le cosiddette gabbie etniche provocano il conflitto e rischiano di trasformare l’autonomia da prezioso strumento amministrativo a pericoloso e antidemocratico strumento “bellico”, atto solo a costituire una realtà etnico-linguistica omogenea. Non sono solo gli italiani a sentirsi sempre più deboli. Quando si parla di posizioni preminenti, di potere, anche i ladini sono messi da parte, se non omologati al sistema dell’unico partito al potere. Capitolo a parte, anche per i numeri in crescente aumento, meriterebbe il “quarto” gruppo linguistico composto dai mistilingue.

Il “sistema Sudtirolo” ha bisogno di costruire una nuova popolazione culturalmente responsabile, capace di superare la barriera linguistica e approfondire la storia di questa terra. I recenti tentativi di creare una storia comune, attraverso la pubblicazione di un libro, sono meritevoli ma fino ad oggi impraticabili e senza efficacia. Solo per i giovanissimi italiani si sono aperte strade finora insperate. Le scuole tentano le prime sperimentazioni, quasi vietate, evocando quelle catacombali tedesche al tempo del fascismo. Oggi siamo in una fase in cui il conflitto o disagio degli italiani si sta trasformando per molti pensionati in qualcosa di indifferente, mentre per i giovani nella mancata opportunità di uno sbocco lavorativo o di una carriera ai massimi vertici. La scuola gioca un ruolo decisivo, ancor più della politica; una politica che manca del senso profondo di una cultura plurilingue e che non riesce a dare risposte a cittadini sempre più responsabili. A partire dai molti ragazzi che frequentano i licei e decidono di affrontare sperimentazioni di scambio che la politica non premia, rendendo anzi più difficile il loro percorso di studi. La soluzione è nelle scuole miste, come ho sempre sostenuto. L’istituzione di scuole miste deve avvenire, però, nel rispetto di chi preferisca scegliere per i propri figli un insegnamento completamente monolingue. È nella differenziazione dell’offerta, nell’abbattere certi codici di divieto che si aprono nuove strade per un’offerta plurale e plurilingue. Nel ricondursi alla politica, i cittadini responsabili e di buona volontà subiscono atti vessatori da chi tenta di minare le aperture al mondo dell’altro.

Un altro aspetto della questione scolastica è la piena autonomia. Non possiamo permetterci insegnanti di italiano nelle scuole tedesche che non conoscano bene la nostra realtà e non sappiano il tedesco. Così come un insegnante di tedesco deve avere piena conoscenza della cultura per la quale ha ricevuto la cattedra. Questo vale anche per le supplenze. Meglio favorire lo scambio di docenti tra le scuole sudtirolesi dei diversi gruppi linguistici. Preferire chi abbia piena conoscenza del territorio, prevedendo sì una progressiva integrazione dei nuovi insegnanti che possono provenire da fuori provincia, ma rendono per loro obbligatorio un passaggio formativo presso la nostra università. Oggi viviamo in un mondo produttivo sempre più iperspecializzato e la stessa formazione scolastica richiede insegnanti con maggiori competenze specifiche.

Torniamo al disagio degli italiani, parola che non mi piace più e di cui si continua a dover scrivere ancora nel 2012.

Esiste un conflitto tra italiani e tedeschi? In parte sì. Basti notare quello calcistico. Italia-Germania divide ancora ma dati i risultati pare essere l’unico disagio superato dagli italiani.

Io, personalmente, ho sempre tifato per l’Italia e non l’ho mai negato. Calcisticamente ho fatto una scelta per la squadra paterna; ma non sono disposta a farlo per dichiararmi italiana e basta. Anzi, potrei definirmi sudtirolese di madrelingua DOC, appartenendo mia madre ad una tradizionale famiglia sudtirolese di lingua tedesca.

La soluzione è culturale prima che politica. Certa politica sudtirolese sta procedendo nel senso contrario ai processi di cambiamento che investono anche il nostro territorio. Preferisce adattarsi alla pancia dei cittadini (e gli conviene ancora dal punto di vista elettorale) piuttosto che osare una rivoluzione culturale in senso europeista e federalista. Sarebbe necessario che la politica si riappropriasse del pensiero politico dei Salvemini, dei Dahrendorf e forse, ma in questo periodo pare sia una figura molto inflazionata e peraltro sempre mal vista dalla popolazione sudtirolese, della figura di De Gasperi. Statista capace di offrire un’autonomia e un’Europa in cui ritrovarci insieme.

La più grande sfida è l’Europa. Nell’arco di 10-15 anni lo sviluppo geopolitico intorno a noi porterà ogni cittadino ad avere un passaporto europeo, probabilmente emesso in una città amministrativa locale europea. Credo che il destino della città di Bolzano sia quello di capitale burocratica (una piccola Bonn) dell’Euregio prima e di una macroregione alpina europea poi. Allora il conflitto tra italiani e tedeschi sarà annullato dal ruolo di entrambi, caratterizzante il territorio ponte tra sud e nord, tra le popolazioni italofone e germanofone.

Per allora servirebbe aver già fatto un primo passo importante: il riconoscimento dell’autonomia da parte di tutti gli italiani residenti in Alto Adige. Per comprenderne il valore basta l’esempio del terremoto in Friuli. La gestione della ricostruzione fu un successo unico al mondo, irripetibile. Due furono i fattori determinanti: i friuliani e l’autonomia speciale.

I politici italiani continuano a cercare un riferimento ai partiti nazionali, incapaci ormai anche di difendere la pancia e il cuore degli altoatesini, ancora legati da un forte sentimento per il tricolore. Sentimento regolarmente tradito con le concessioni dei partiti romani alla Svp.

Inutile tradire gli italiani, meglio far comprendere loro il vantaggio dell’autonomia, bene comune per tutti i gruppi linguistici e creare formazioni politiche locali, puntando sulla buona amministrazione dell’autonomia. Solo così potremmo guardare all’Europa e al suo sviluppo in senso federalista.

In Italia, per ogni cosa si nominano commissioni d’inchiesta, si fanno reportage giornalistici e televisivi, si chiede il parere dei telespettatori mediante il televoto, si guardano i sondaggi, si chiamano a pontificare – pagati e strapagati col pubblico denaro – i più svariati esperti o sedicenti tali: e tutto rimane esattamente come prima. Gli ospedali o gli stadi lasciati a metà vanno in rovina e nessuno ne risponde; le attrezzature sanitarie o quelle sportive, già pronte, marciscono in qualche magazzino. La responsabilità è sempre di qualcun altro. Nelle scuole i genitori devono pagare la carta igienica per i loro figli, nelle questure i poliziotti devono pagare di tasca propria le risme per le fotocopie, nei tribunali gli incartamenti marciscono e i musei restano chiusi per mancanza di personale: in un Paese come l’Italia, dove il patrimonio storico-artistico dovrebbe essere valorizzato come il petrolio e dove la disoccupazione fa ogni giorno passi da gigante.

Allora quale può essere il disagio degli italiani dell’Alto Adige? Sentirsi italiani come sopra, o volersi sentire un po’ più europei, magari passando proprio per l’approfondimento di quella cultura sudtirolese che fa da ponte tra le due sponde del Brennero? Di quella cultura che ha subito l’invasione tedesca prima e quella italiana poi. Una sorta di terra di mezzo in cui sentirsi a proprio agio, a casa propria, abbandonando i vecchi cliché italioti e, partendo dal plurilinguismo, dove giocarsi tutte le carte per meritare i posti apicali che spettano a chi sa fare bene e meglio di qualche fedelissimo iscritto al partito di raccolta o blindato da vecchie logiche di sbarramenti etnico-linguistici.

Mauro Minniti

La Destra

Gli italiani si sentono secondi.

L’evoluzione che le vicende altoatesine hanno avuto negli anni – dall’annessione di questa terra allo Stato italiano (per quanto ciò abbia creato una ferita nella popolazione di lingua tedesca non ancora completamente risanata per taluni) all’accordo De Gasperi-Gruber, dallo statuto di autonomia (recentemente definito dal Presidente Luis Durnwalder “non l’ultimo dei mali”, per sottolineare la consapevolezza della validità di questo strumento) alla quietanza liberatoria – ha certamente portato l’Alto Adige ad una crescita sotto varie forme: civile, culturale, sociale e perfino politica. L’autonomia di cui gode l’Alto Adige, infatti, oltre ai rapporti interni che ha saputo seminare pur fra mille difficoltà, non è mistero che ancora oggi venga seguita con interesse da molti osservatori nazionali e stranieri, così come invidiata pure da realtà statali che si trovano a vivere esperienze analoghe alla nostra, ossia di realtà linguistiche diverse conviventi sul medesimo territorio. Non a caso, in più occasioni in molti si sono affrettati ad affermare che la soluzione politica, individuata dall’Italia e dalla Provincia di Bolzano in ordine ai provvedimenti da prendere per una pacifica e serena convivenza (che taluni ancora definiscono essenzialmente solo una coabitazione), possa fare scuola nel mondo intero.

Ovviamente, per quanto l’autonomia sia ormai un bene prezioso e da difendere – ancor più in questa stagione in cui proprio le autonomie nazionali vengono prese di mira per i privilegi che godono e per le cattive gestioni che talune di esse offrono, tendendo così a dare un quadro complessivo negativo, tanto da chiederne l’abolizione – anche l’autonomia altoatesina può essere in continua evoluzione e quindi in continuo miglioramento, adeguandosi ai tempi ed alle necessità della popolazione. In passato, l’ex assessore provinciale Viola aveva coniato allo scopo il concetto di “autonomia dinamica”, letto (anche comprensibilmente, per certi versi) come preoccupante accelerazione nell’ottenimento di competenze piuttosto che come rafforzamento e riequilibrio di quanto conquistato, ridistribuito più equamente alle varie comunità linguistiche. Se il dinamismo evocato si dovesse riferire a questo ultimo aspetto in particolare, piuttosto che al primo, è ovvio che la politica debba svolgere chiaramente il suo ruolo.

Il gruppo italiano infatti ha spesso sofferto, in passato di più ma ancora oggi avver­tendone alcune lacune basilari, a causa di taluni effetti sia della norma statutaria scritta, sia di quella applicata relativa all’autonomia altoatesina. Si pensi alla materia del bilinguismo ed a come, per molti anni, essa sia stata letta, nella sua rigidissima applicazione, come impedimento professionale per molti altoatesini di lingua italiana; ma si rifletta anche sull’applicazione inflessibile che avvenne in passato della proporzionale etnica nei posti di lavoro stessi, o nell’assegnazione degli alloggi relativi all’edilizia sociale, nella ripartizione dei fondi nell’edilizia come nell’economia. Tutto ciò, soprattutto dagli anni settanta fino ai primi anni novanta ha portato gran parte della comunità italiana a diffidare della stessa autonomia ritenendo che, se essa nasceva a suo tempo per tutelare i gruppi linguistici tedesco e ladino riequilibrando comprensibilmente e giustamente con le opportunità loro offerte anche i diritti, non avrebbe comunque dovuto penalizzare il gruppo italiano, che in realtà tale si sentiva e non sempre a torto. La sensazione di essere conside­rati “cittadini di serie B”, non costitutiva così solo uno slogan partitico ma una percezione concreta, accompagnando la comunità italiana per molti anni, tanto che ancora oggi si avverte l’impressione di essere posizionati un passo indietro nel cammino dell’autonomia altoatesina. Non si è più cittadini di serie B, ma ci si sente­ secondi a qualcun altro; secondi nei consigli di amministrazione, ovvero nei posti apicali che portano i nominati a decidere sugli interventi (pure economici) di natura generale, secondi nell’occupazione dei posti di lavoro dell’amministrazione pubblica poiché i bandi sono spesso riservati al gruppo tedesco, secondi nell’assegnazione degli alloggi popolari, per quella percezione che si ha di vedersi sempre scavalcati. Una impressione, insomma, che da qui si è estesa perfino nelle scelte che riguardano l’autonomia, così come ci si sente secondi anche in qualità di attori della storia altoatesina, come se in fondo di questa terra ci si dovesse sentire intrusi e non cittadini a pieno titolo e a tutti gli effetti, come in realtà si è. Gli altoatesini di lingua italiana, infatti, non devono più ritenersi e non sono più, in sostanza, solo discendenti di immigrati veneti, trentini e di altre realtà provinciali italiane giunte in questa terra per lavorare e contribuire alla sua crescita. Le nuove generazioni, ormai, sono figlie a pieno titolo, non solo per nascita, dell’Alto Adige ed ereditano dai loro padri, costruendola in prima persona a loro volta, la storia della provincia di Bolzano, come hanno fatto in precedenza i loro genitori e nonni.

Insomma, si deve avere la convinzione di abbattere la sensazione di ricoprire un ruolo marginale se non addirittura accessorio che nutrono molti altoatesini di lingua italiana, poiché ciò origina quel fenomeno che viene definito il disagio degli italiani, il senso cioè di vivere ormai da decenni una impari opportunità. Furono alcune estremizzazioni nell’applicazione del pacchetto avvenute in particolar modo negli anni ottanta a fare emergere a suo tempo questa situazione.

Oggi, anche se le difficoltà per il gruppo italiano di accedere ad un posto di lavoro per certi versi si sono addirittura acuite, poiché si fa sempre più fatica anche a trovare un impiego privato – anche se la proporzionale viene ancora vista da molti come un impedimento, piuttosto che come norma di tutela occupazionale anche per la comunità italiana – paradossalmente il disagio è meno avvertito, seppur permane presente. Con molta probabilità le difficoltà economiche che hanno colpito molte famiglie hanno fatto passare in secondo piano il malessere così detto etnico, non paragonabile a quello sociale, che quando colpisce un elemento in famiglia ha risonanza su tutti i componenti del nucleo, diversamente dal primo che è molto intimo. Questo non significa, comunque, che la percezione di una situazione di svantaggio non debba cercare delle soluzioni atte a stabilizzare un più bilanciato andamento dell’autonomia. Proprio modificando l’applicazione della proporzionale, per esempio, possono venir lanciati segnali di una volontà chiara, volta a ribadire la necessità di regole più eque. Non è, infatti, di per sé contestabile il principio di uno dei paletti dell’autonomia – seppur qualche politico magari più attento a raccogliere voti nel proprio interesse piuttosto che a quello reale della comunità linguistica di riferimento preferisca utilizzare spot autoreferenziali in materia – quanto semmai proprio la sua attuazione. Una proporzionale applicata in senso orizzontale anziché verticale, ovvero distribuita sul numero complessivo di enti pubblici coinvolti nella distribuzione dei ruoli amministrativi e direttivi e non sulla singola entità, porterebbe ad una maggiore presenza nei quadri apicali proprio della comunità italiana, laddove essa è assente. Basti pensare, per esempio, al numero dei segretari comunali appartenenti al gruppo linguistico italiano, infinitamente inferiore a quello che potrebbe essere se quel ruolo venisse assegnato considerando tutti i 116 comuni piuttosto che ogni singola realtà municipale. Ma è ovvio che non è necessario modificare solo l’utilizzo di questo strumento, poiché esso è solo uno degli aspetti. Occorre creare condizioni generali grazie alle quali il soggetto di madrelingua italiana non si senta svantaggiato ma posto al pari delle altre comunità.

Alla base c’è anche la necessità che la comunità italiana si senta (e non solo sia) a casa propria. Di qui anche l’importanza di comprendere, laddove questa sensazione manchi, e di rivendicare con maggiore intensità una presenza in Alto Adige fatta di lavoro e professionalità che hanno portato, compartecipando allo scopo, ad una crescita ed allo sviluppo di questa terra. Insomma, occorre pure che la comunità di lingua italiana abbia piena consapevolezza di essere stata protagonista di un’epoca che ha portato, fra tante difficoltà, alla stagione di serenità civile e di rispetto reciproco vissuto da questa terra. Ed è anche sulla base di questo fondamento che è necessario arrivare alla costruzione di una storia comune in provincia di Bolzano e che la politica debba lavorare per contribuire ad evitare l’insorgenza di quel male nascosto chiamato disagio.

Alessandro Urzì

L’Alto Adige nel cuore

Ininfluenza è la parola chiave.

Il disagio degli italiani dell’Alto Adige non è la descrizione pura e semplice di una condizione oggettiva ma la raccolta di un complesso di emozioni, sentimenti, percezioni e esperienze del quotidiano.

Esso è legato all’idea che la comunità ha di sé, in buona sostanza alla qualità dell’autostima, come conseguenza di una serie di fattori che incidono sulla vita di tutti i giorni e sulla proiezione di se stessi e della propria comunità nel futuro. Esso è legato inevitabilmente anche alla percezione (reale) di una perdita di “posizioni” sociali (ma anche di privilegi) che in passato facevano della comunità italiana un corpo solido nella struttura della società altoatesina, con riferimenti altrettanto solidi, che progressivamente si sono, in ampia parte, erosi e dissolti.

Non è un caso che il disagio cominci ad affermarsi quando cominciano a svanire le certezze del passato. Con l’introduzione della proporzionale sono scomparse le grandi praterie dell’impiego pubblico nelle quali trovavano naturale collocazione gli italiani. Parallelamente non si è avvertito un allargamento di prospettive o un maggiore credito nel settore privato: turismo e agricoltura, i grandi potentati economici tradizionalmente “di lingua tedesca” sono rimasti tali. La restrizione degli spazi, il cominciare a fare i conti con una concorrenza imposta (per legge come è accaduto con la proporzionale) e con la logica delle quote, ha da un lato emancipato la comunità italiana rendendola consapevole della graduale scomparsa dei privilegi storici che le aveva consegnato l’epoca precedente, dall’altro ha trasmesso però una certa idea di dovere pagare per colpe non proprie.

Il disagio nasce come forma di reazione ad un cambiamento imposto e eccessivamente rapido, ma poi si sviluppa e prende coscienza di sé parallelamente all’instaurarsi di un regime politico e “etnico” (dal 1972 in solide mani “tedesche”) sempre meno obbligato a dovere corrispondere alla logica dell’intesa e dell’accordo.

Autosufficiente, si potrebbe dire: è l’instaurarsi dell’autonomia “etnica” in cui governa de facto un solo partito di maggioranza assoluta a quasi tutti i livelli che è anche partito “etnico” e si propone esplicitamente di “ribaltare” le situazioni del passato. È la scomparsa del concetto di autonomia territoriale in cui al contrario i diversi gruppi linguistici avrebbero dovuto pariteticamente contribuire al benessere collettivo ed al governo del territorio.

Con il completarsi del passaggio delle funzioni amministrative e legislative in quasi ogni ambito della vita sociale, sia da parte dello Stato che della Regione, il processo si è completato e la percezione dell’ininfluenza politica, economica, sociale del gruppo italiano è divenuta completa.

Il disagio si è alimentato di questa condizione di “galleggiamento” perenne. Tanto da trasformarsi in consapevolezza della trasformazione della comunità di lingua italiana in una vera e propria “minoranza” territoriale, benché priva di riconoscimento e garanzie.

La piena rivendicazione di autosufficienza “etnica” della Svp, al di là di comportamenti virtuosi di singoli, ha prodotto una fortissima ricaduta emozionale sulla comunità di lingua italiana che ha avvertito, in una sua ampia parte, questa transizione come una perdita di prestigio sociale e di ruolo nel sistema dell’autonomia. Il caso della toponomastica è esemplare; con una comunità italiana schierata nella sua più ampia parte a difesa del bilinguismo, indicato dai padri dell’autonomia come un compromesso fra la rivendicazione dell’Italia repubblicana all’esercizio della propria lingua nella denominazione dei luoghi pubblici e il diritto ineludibile delle minoranze di lingua tedesca e ladina a vedere sancito il recupero ufficiale anche delle proprie identità originali. Quindi una comunità italiana fedele allo spirito dello statuto (bilinguismo) ed una Svp (non solo, per la verità) che smessi i panni di più fedele interprete dello statuto abbia inteso indicare una nuova soglia, più estrema, che passa attraverso la restrizione del principio del bilinguismo (un attentato allo statuto) per una parte di denominazioni che saranno i consigli comprensoriali a indicare. Consigli comprensoriali nei quali la minoranza italiana è totalmente ininfluente (2 rappresentanti su 34 in val Pusteria, 1 su 17 in val Venosta…).

Ininfluenza è la parola chiave: questo è il termometro del disagio.

Ad alimentare il sentimento di ininfluenza è spesso la propensione di settori della comunità italiana ad assumere atteggiamenti che i detrattori definiscono rinunciatari, volti non all’incontro fra i desiderata dei diversi gruppi, ma a compromessi definiti “al ribasso”, che si risolvono nella “riduzione del danno” (nemmeno sempre) piuttosto che all’affermazione di un diritto. Ad aggravare la percezione di ininfluenza la presa d’atto della cooptazione dei partner italiani di governo della Svp, che li rende evidentemente esposti ad un potere di “liquidazione” in ogni momento, come è accaduto proprio sulla questione della toponomastica. Il Pd, partner italiano in Giunta provinciale, aveva assunto una intesa con tutte le altre componenti di lingua italiana del Consiglio su un principio considerato assoluto (l’autonomia di decisione dei gruppi linguistici sulle denominazioni di luogo nella propria lingua) ma la stretta della Svp ha indotto il debolissimo alleato a rinunciare ad esercitare il proprio ruolo, pena la messa in discussione della coalizione.

È la mancanza di potere contrattuale che esalta le insicurezze e potenzia le ansie di una intera comunità esposta per il futuro a ciò che non può essere previsto, ad ogni “capriccio” o “sopruso” da parte di una sola parte politica e corpo linguistico.

Le forme del disagio sono ormai le medesime da decenni, fotografate perfettamente nell’indagine del Censis del 1997 (Identità e mobilità dei gruppi linguistici dell’Alto Adige) mai più replicata, con la medesima precisione, benché richiesto insistentemente.

Ne emergeva, come emerge oggi, sul piano delle percezioni quotidiane, un disagio sottile, fatto di piccole e grandi mortificazioni.

Ovviamente hanno sempre giocato grandi ruoli fattori tradizionali del territorio: il gruppo linguistico tedesco “proprietario” del territorio e dell’impresa economica trainante e una minoranza in costante rincorsa.

Un sistema che ha saputo consolidarsi negli ultimi decenni attraverso la creazione di una “casta” amministrativa e sociale, emanazione diretta e fiduciaria di un solo partito e di un solo gruppo linguistico e che ha alimentato la sensazione della minoranza italiana di essere eternamente esclusa e ancora una volta ininfluente.

Rispetto a l’indagine del Censis oggi qualcosa è cambiato; c’è la crisi e non c’è più fiducia nell’idea salvifica di “Roma”, del ministro o deputato di turno che arriva e ristabilisce un equilibrio ritenuto violato. Anche e soprattutto perché il sistema dell’autonomia è ormai pressoché perfetto e orientato all’autosufficienza economica legata in primis alla grande partita, vinta anche questa, della gestione delle risorse legate all’energia elettrica.

Per mantenere queste posizioni di assoluta autoreferenzialità si alimenta ciclicamente il dibattito pubblico con “la paura”. Un giorno la paura dell’Europa, un giorno la paura “delle destre”, rimaste le voci critiche del sistema – benché con una autorevolezza ed una maturità impensabile nel passato – o la paura dei monumenti cosiddetti “fascisti”, o ancora la paura della toponomastica italiana, oggi la paura di Monti. Il richiamo alla paura per serrare le fila e compattare anche gli indecisi nella difesa del forte.

Vie di uscite ce ne sono poche, in assenza di una crescita culturale di un sistema politico che non può fondarsi in eterno sulle paure.

La via ardua e lunga passa attraverso la normalizzazione delle relazioni, attraverso un sistema libero di informazione capace di introdurre il virus del pluralismo. L’informazione di lingua tedesca spesso offre una visione caricaturale del gruppo italiano e delle sue espressioni politiche. Quando non ignora, semplicemente.

Ciò alimenta soprattutto nelle zone più periferiche della provincia, dove si è perduto il contatto naturale fra cittadini dei diversi gruppi linguistici, semplicemente perché gli italiani si sono estinti o si sono assimilati, il sentimento di bastare a se stessi, di non considerare troppo importante quello che si agita nel gruppo italiano perché esso è un oggetto il più delle volte misterioso e lontano. Ciò come conseguenza di un sistema della separatezza che lo statuto ha realizzato, a cominciare dalla scuola. E che ha reso le esigenze, le propensioni, le naturali vocazioni, i sentimenti dell’altro qualcosa di estraneo.

È questo sentimento di estraneità che deve essere combattuto. Perché ciò abbatte le paure e apre la coscienza ad una interazione. Che deve cominciare fra la gente, per pensare che possa un giorno contagiare la politica.

In questo alveo si inserisce il dibattito – fortissimo nel gruppo italiano, troppo debole ancora in quello tedesco – a favore di una scuola plurilingue, per intanto esercitando gli strumenti dell’autonomia che dovrebbero concedere alla scuola in lingua italiana il diritto a organizzarsi anche didatticamente al meglio per formare i giovani del futuro.

Cittadini bilingui nel futuro (autenticamente bilingui, naturalmente bilingui) saranno più forti nella competizione in quanto cittadini alla pari, con gli strumenti della competenza linguistica che in passato, quando non c’era, costituiva il più grave handicap.

Nella forte spinta verso una scuola plurilingue c’è l’idea stessa di una comunità, quella italiana, che ha saputo immaginarsi in modo nuovo, non più chiusa in difesa (un errore del passato, quando ancora lo statuto poteva essere orientato in forma diversa rispetto a quella che ha poi assunto) ma capace di sfidare le regole della separatezza. Con la lingua, lo strumento attraverso il quale si riesce ad abbattere con più forza diffidenze e differenze.

Non è un caso che la scuola plurilingue (non mascherata sotto la sigla di semplice “sperimentazione”) sia avvertita ancora dall’establishment locale come la più pericolosa delle armi di chi vuole guardare al futuro e quindi archiviare il passato, ossia il presente. Perché la scuola plurilingue è la presa d’atto che il sistema della separatezza ha creato vinti e vincitori ed oggi, rivendicando pari strumenti linguistici, spazi sempre più ampi della società rivendicano pari opportunità.

Tutto ciò conosce in ogni caso le sue positive variabili e tra le principali, le più importanti, c’è la presenza crescente nel tessuto della società di un corpo invisibile ma espressione, la più genuina, del territorio altoatesino: i figli di genitori di gruppi linguistici diversi, chiamati mistilingui, in verità plurilingui. Sono un corpo sociale capace di scardinare nel tempo un sistema fondato inderogabilmente sulla separatezza. Non a caso un corpo sociale negato, invisibile. Ma presente sempre più stabilmente nella società, capace di instillare il suo virus positivo.

La seconda variabile sono gli stranieri di seconda generazione, figli di questa terra destinati a divenirne cittadini a tutti gli effetti ma che non sono né italiani, né tedeschi, né ladini.

I padri costituenti dell’autonomia non avevano immaginato che la società potesse cambiare e che la storia, che ha imposto regole e codici pensando di potere ordinare tutto un giorno, sarebbe stata superata nei fatti da realtà nuove.

È anche a questi cittadini del domani, ma già di oggi, che affidiamo il futuro. Con il compito di riscrivere le regole della convivenza, recuperando l’idea del merito, della competenza, del coraggio e archiviando l’idea di una società in cui i cittadini siano diversi ed abbiano quote di diritto diverso in virtù della lingua dei loro genitori o di una semplice dichiarazione di appartenenza linguistica.

Michele Buonerba

Cisl/SGB

Il disagio sociale degli italiani non può essere considerato un ­sentimento di gruppo.

Il disagio è la sensazione di una mancata consonanza con l’ambiente circostante. In questo senso esso afferisce alla sfera esclusiva dell’individuo ed alle relazioni da lui allacciate durante la propria vita. Il cosiddetto disagio degli italiani, così come quello dei sudtirolesi ante secondo statuto di autonomia, non può essere pertanto considerato un sentimento di gruppo, come per lungo tempo e da più parti si è tentato di definire. Esso va eventualmente ricondotto a determinati contesti sociali nei quali i singoli individui agiscono. Per questa ragione uno stesso individuo potrebbe trovarsi, anche nella stessa giornata ed in base al proprio contesto relazionale, a vivere una condizione di disagio, così come una di appagamento. Il gruppo nella letteratura sociologica si può definire come un insieme di individui non tanto numerosi da permettere che la maggior parte di essi s’incontrino anche se saltuariamente. Nella fattispecie, per la minoranza linguistica sudtirolese, il termine più appropriato potrebbe essere quello di comunità. Attraverso questa affermazione intendiamo specificare come gli appartenenti ad una comunità agiscano reciprocamente affermandone i valori, le norme, i costumi e più in generale tutelandone gli interessi anche anteponendoli a quelli personali.

Il rapporto tra individuo e gruppo linguistico ha caratterizzato storicamente l’evoluzione delle relazioni tra le persone in Alto Adige. Fin dai mesi successivi alla seconda guerra mondiale l’offerta dell’Italia di garantire alle persone di lingua tedesca una tutela di tipo culturale furono respinte dai sudtirolesi. Le loro rivendicazioni prevedevano la protezione del territorio in quanto tedesco, in quanto legato etnicamente all’Austria e conseguentemente la fruizione di una completa autogestione che rendesse inevitabile l’arretramento della presenza italiana. Quella rivendicazione si giustificava se calata in quel contesto storico, nel quale si pensava che vi dovesse essere identità tra Stato e nazione. Per analogia, cittadinanza divenne sinonimo di nazionalità e conseguentemente una sorta di certificazione pubblica dell’appartenenza culturale dei cittadini. La statuizione definitiva dei confini all’interno dell’Europa post bellica fu ispirata da questi principi, anche se all’interno degli Stati nazione rimasero diverse minoranze linguistiche.

L’attuale assetto autonomistico altoatesino è certamente il frutto di quell’influenza culturale di tipo quantitativo che, alla stregua delle leggi della fisica, distribuisce le risorse secondo il principio della compensazione etnica, in base alla quale ogni cosa data all’uno viene tolta all’altro. In quegli anni si pensava di poter regolare i rapporti tra le persone in quanto appartenenti a comunità diverse e non in quanto individui con una propria identità. Una tale impostazione crediamo sia destinata ad essere superata dall’evoluzione delle relazioni umane che, tra le altre cose, nei tempi in cui viviamo possono essere favorite dalla tecnologia. Pare abbastanza evidente che, rispetto a quel contesto storico, le relazioni sociali tra gli individui residenti nel territorio abbiano reso progressivamente meno percepibile il confine tra le diverse comunità definite rigidamente nello statuto di autonomia. Nel corso degli ultimi due decenni, inoltre, si sono trasferite in Alto Adige alcune decine di migliaia di cittadini stranieri che, essendo indispensabili all’economia locale, paiono aver generato una certa agitazione nella classe dirigente altoatesina che, infatti, li ricorda solo quando si tratta di limitarne i diritti. Esponenti di primo piano del governo provinciale, invece di sforzarsi di comprendere il nuovo fenomeno sociale, hanno pensato bene di indirizzare i figli degli immigrati verso gli istituti di lingua tedesca nella speranza di una loro futura dichiarazione etnica sfavorevole agli italiani. Allo stesso tempo in Alto Adige le comunità, che qualcuno sognava di separare, si sono progressivamente integrate tra loro generando associazioni comuni, relazioni affettive e conseguentemente nuove generazioni di persone non facilmente catalogabili e verso le quali la classe dirigente dimostra un certo timore. La cartina di tornasole che confermerebbe questa tesi è riscontrabile nell’incredibile disinformazione che ha preceduto l’ultimo censimento etnico svoltosi nel 2011. Nonostante si trattasse della prima rilevazione anonima, nessuna pubblicazione istituzionale è stata diffusa per informare la popolazione.

Nel corso dei decenni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Alto Adige è progressivamente passato dall’essere una provincia nella quale vivono due minoranze linguistiche in uno Stato nazione, all’essere una regione interna all’Unione europea senza confini percettibili. Le uniche innovazioni reali apportate all’ordinamento provinciale, non a caso, sono avvenute solo attraverso la giurisprudenza comunitaria.

Il disagio degli italiani fu un’espressione coniata dalla destra italiana negli anni ’80 del secolo scorso e che oggi viene citata sempre meno perché pare che la nuova frontiera dello scontro sia rappresentata dai cittadini stranieri. Con quella definizione si sostenne che per gli italiani in questa terra non ci sarebbe stato futuro perché in qualsiasi ambito sarebbero stati minoranza. La destra italiana sostenne un ritorno all’orgoglio nazionale da far pesare nel rapporto tra i governi nazionale e locale. Obiettivamente, osservando gli accadimenti del recente passato, essa non aveva tutti i torti perché il sistema statutario aveva previsto la divisione etnica ma non, ovviamente, la misurazione del consenso che gli eletti avrebbero ottenuto tra le fila del loro gruppo linguistico. Negli ultimi vent’anni al governo locale sono sempre andati esponenti di partiti italiani che, nella logica della democrazia etnica, avevano perso le elezioni. Il disagio vero lo si poteva riscontrare in quei singoli politici che, dopo aver raccolto la maggioranza dei consensi, si vedevano puntualmente costretti ad una sterile opposizione. Se in Alto Adige ci fosse stata una disoccupazione elevata e una condizione di povertà diffusa, l’autonomia etnica e quantistica sarebbe stata certamente vissuta dalla popolazione in modo diverso da come è stato. La pace sociale è stata garantita dal fatto che, in fin dei conti, in questa terra si vive bene, i servizi funzionano meglio che in altre regioni d’Italia e un lavoro bene o male lo trovano quasi tutti. La destra italiana, dopo una fase nella quale ha contrastato l’autonomia in quanto tale, è passata a sostenere il sistema etnico-quantitativo rilevando i vantaggi che gli italiani avevano per la riserva di posti ad essi assegnati dalla proporzionale. Se essa avesse condotto una battaglia per la trasparenza curricolare delle posizioni apicali e quindi avesse privilegiato il principio meritocratico, avrebbe potuto mettere in maggiore difficoltà il governo provinciale e forse rendere meno spaesati i suoi elettori.

Il criterio meritocratico nella selezione del personale dell’amministrazione l’avreb­bero potuto pretendere nel tempo i diversi assessori che si sono succeduti al fianco dell’Svp sugli scranni di Palazzo Widmann. Questo non è avvenuto e, come nel resto del bel paese, si è diffusa la sensazione che per far carriera fosse preponderante più la militanza politica dell’appartenenza linguistica. Anche per questo sono iniziati a crescere i consensi verso le opposizioni nella comunità di lingua tedesca che, queste sì, potrebbero mettere a dura prova la tenuta del sistema autonomistico sudtirolese. Se l’Svp dovesse perdere ulteriori consensi, per governare sarà costretta a formare un governo di coalizione basato su convergenze prima etniche e solo successivamente politiche. Quel giorno, se mai dovesse arrivare, permetterà forse l’apertura della terza fase della storia istituzionale di questa terra. La fase nella quale, dopo un’inevitabile periodo d’instabilità, potrebbe esserci la nascita di un sentimento generalizzato di appartenenza a questo territorio in quanto tale. Ci piacerebbe che esso venisse provato anche verso quei cittadini stranieri che garantiscono la tenuta della nostra economia e che pagano agli autoctoni una parte della pensione che molti di loro non incasseranno mai. “Molte persone avrebbero accettato di buon grado il ridimensionamento del ruolo del proprio gruppo linguistico, riconoscendo che in qualche modo questo ruolo era distorto, gonfiato da circostanze particolari, se però in cambio avessero intravisto la prospettiva di una buona convivenza”. Se queste parole di Alexander Langer fossero state ascoltate con più attenzione da chi ci ha governato negli ultimi decenni, l’attuale sistema autonomistico avrebbe perso la sua sacralità per essere sostituito da un nuovo insieme di regole più adatte al cosmopolitismo del XXI secolo.

Per uno sviluppo condiviso del territorio si sarebbero dovute promuovere le relazioni tra i cittadini ad iniziare dalla prima infanzia. In questo modo si sarebbe potuto attenuare l’impatto delle barriere linguistiche prima e antropologico-culturali poi che caratterizzano le relazioni tra le persone in Alto Adige. Esse hanno minato alla radice lo sviluppo di un sentimento di appartenenza ad una Heimat comune. In questo ambito la classe dirigente locale ha, nel suo complesso, certamente fallito. Ancora oggi la maggioranza della popolazione non conosce la seconda lingua ad un buon livello e non si relaziona con persone che si esprimono con essa. Dal lato italiano per decenni è stata sottovalutata l’importanza di questo fattore. Da parte sudtirolese, al contrario, l’italiano è stato per decenni studiato bene ma, allo stesso tempo, si è obiettivamente abusato dell’uso del dialetto e ciò ha reso difficile lo sviluppo di relazioni empatiche tra le persone di lingua diversa. L’idioma di uso comune identifica una comunità e negli ambiti informali per un non sudtirolese ancora oggi è difficile inserirsi. Si tratta obiettivamente di una limitazione delle potenzialità che, se sviluppate, permetterebbero di migliorare anche la competitività economica del territorio. Diverse rilevazioni evidenziano come oggi il grado di conoscenza della seconda lingua scenda nelle aree rurali e aumenti nei centri urbani; questo comincia ora ad essere percepito come un pericolo anche dai vertici della Svp. In questo senso, le sperimentazioni iniziate da qualche anno nelle scuole italiane relativamente all’insegnamento veicolare della seconda e terza lingua, andrebbero estese ovunque possibile prevedendo anche maggiori integrazioni tra insegnanti e alunni dei diversi ordinamenti scolastici.

Siamo convinti che nessuna vera riconciliazione sarà possibile fino a quando vivremo in una democrazia definita su base etnica. Abbiamo bisogno di uno sforzo collettivo, sostenibile solo da una nuova classe dirigente, che permetta di sviluppare un nuovo comunitarismo per persone che sono nate nelle stesse sale parto.

Negli ultimi anni abbiamo notato dei progressi nella società civile. Le organizzazioni di rappresentanza d’interesse sono quasi tutte interetniche e collegate in diverse forme con le rispettive associazioni nazionali e internazionali. In passato le dinamiche politiche esogene al territorio, quasi vivessimo in una nazione indipendente, venivano percepite con scarsa attenzione anche dalla popolazione locale di madrelingua tedesca. Al contrario, per gli individui di madrelingua italiana, erano scarsamente conosciute quelle locali. Anche questo ha generato limitazioni alle relazioni empatiche tra gli individui che alcuni media hanno certamente amplificato. Temi come l’elevatissima pressione fiscale, le riforme delle pensioni, i tagli alla spesa pubblica e le liberalizzazioni impattano direttamente su tutta la popolazione residente. L’elevata capacità di spesa della Provincia ha attenuato in passato le tensioni sociali. In tempi di dimagrimento delle risorse pubbliche come quelli attuali, la forbice dei redditi tende ad allargarsi e con essa la parte degli individui che maggiormente si trova esposta al rischio di povertà. Questi fattori, in altre regioni d’Europa, hanno permesso la crescita dei movimenti nazionalisti e xenofobi. In Sudtirolo i prodromi si sono già manifestati e non vanno sottovalutati.

Fino ad oggi il partito di raccolta sudtirolese è stato in grado di gestire l’amministrazione relazionandosi esclusivamente con le associazioni di categoria organizzate al suo interno. Oggi, per difendere le nostre prerogative territoriali, servono collegamenti con le organizzazioni nazionali. In ambito politico ci ritroviamo deboli proprio per le stesse ragioni per le quali in passato eravamo forti. L’irrilevanza politica del nostro territorio nei confronti degli scenari nazionali ci ha permesso ieri di avere più di quello che avevamo sperato. Oggi che i sacrifici ci accomunano al resto del Paese, in altre regioni crescono le insofferenze verso le autonomie speciali che da più parti vengono definite anacronistiche. Quella dell’Alto Adige è probabilmente l’unica ad essere ancora attuale. La sua legittimità potrà durare nel tempo se l’autogoverno sarà condiviso dalla grande maggioranza dei cittadini che vi abitano. Per ottenere questo risultato serviranno nuove forme di concertazione sociale che mettano al centro il ruolo di tutta la società organizzata. Oggi che i confini in Europa sono un ricordo e nel vecchio continente i popoli sono soggetti ad un destino comune, l’autonomia territoriale sudtirolese, auspicata alla fine dell’ultima guerra mondiale, sarebbe bello potesse essere ripensata per favorire le relazioni tra tutti gli individui. In questo modo si favorirebbe la diffusione di quel sentimento di appartenenza comune al territorio che una parte della comunità non ha sviluppato sentendosi forse proprio per questo a disagio.

Lorenzo Sola

Cgil/AGB

A volte non è sufficiente solo correggere gli errori del passato.

Con una battuta si potrebbe dire che il disagio degli italiani, in Alto Adige, si sia fatto più democratico e non guardi in faccia nessuno: lo descriverei, infatti, più come un “malessere” trasversale a tutta la popolazione sudtirolese, sia di lingua italiana che tedesca, da cui distinguo quella di lingua ladina che, a mio avviso, negli anni ha saputo evolversi con lungimiranza indipendentemente dalle dinamiche territoriali, seppur con qualche “rendita di posizione”. Credo che, ad onor del vero, sia giusto tenere in considerazione il fatto che i ladini abbiano beneficiato di una solida situazione economica legata ai territori in cui è prevalentemente concentrata questa popolazione, della proporzionale nel settore pubblico e di qualche indubbio vantaggio che ha premiato la fedeltà alla Svp e alla Giunta provinciale.

Diversa ancora la situazione, per niente facile, di molti nuovi cittadini provenienti dal resto del mondo ma anche da territori a noi vicini, che sono ormai oltre 40.000. Mi trovo a constatare come la società, che da molti anni cresce economicamente anche grazie al contributo lavorativo degli immigrati – con saldi nettamente positivi anche per le casse pubbliche – non sia loro riconoscente, tanto da metterne in discussione i diritti inalienabili anche nella nostra provincia, dove fino ad oggi è sempre stato garantito un sostegno generalizzato un po’ a tutti i soggetti, fossero essi persone, famiglie, imprese e associazioni.

Una premessa, quella da me evidenziata, che non vuole ridurre la portata del fenomeno del disagio degli italiani, più percepito che reale, ma che vuole evidenziare come negli ultimi anni ci sia stata un’evoluzione o, a seconda delle interpretazioni, un’involuzione; se per tale si voglia indicare il fatto che il disagio si sia esteso ancor di più anziché restringersi all’interno del mondo di lingua italiana.

Non vi è dubbio che gran parte del disagio vissuto fino ad oggi, e non ancora assorbito del tutto, sia legato alle sensibilità individuali che vengono coinvolte e spesso turbate quando si toccano aspetti dell’identità, della patria, etnia, nazione, cultura, magari ancora intrisi di sfumature nazionalistiche che deturpano la trasparenza dei rapporti e gli equilibri sociali.

Ritengo che il partito di raccolta di lingua tedesca abbia contribuito, seppur con sensibili differenze al suo interno, a rendere più complicati i rapporti e il senso di fiducia reciproco tra i gruppi linguistici, dando adito e alimentando incomprensioni nella popolazione di lingua italiana.

Basti pensare al tema della proporzionale sull’assegnazione degli alloggi, al rifiuto di concedere nuove opportunità all’apprendimento della seconda lingua nelle scuole di lingua italiana e, quindi, ad una sperimentazione generalizzata, e alla proporzionale rigida nel pubblico impiego, per arrivare ai temi che personalmente e in linea con l’organizzazione sindacale che rappresento non mi appassionano, quali la toponomastica, il Monumento alla Vittoria o i monumenti agli alpini intorno ai quali si è acceso negli anni un dibattito infinito, a volte anche dai toni accesi. A tutt’oggi resta latente un’insofferenza verso la politica locale anche in presenza dei cambiamenti (positivi) radicali nella politica della Svp e della Giunta provinciale.

Il quadro che ho finora delineato non vuole minimizzare i progressi fatti nell’ambito dell’autonomia, anche se ritengo resti ancora da completare il passaggio da un’autonomia che doveva prima di tutto salvaguardare la minoranza di lingua ­tedesca ad un’autonomia di tutti, al servizio di tutti pur in un quadro di tutela delle minoranze.

Il messaggio che voglio mandare è rivolto anche alle nuove generazioni perché riconoscano come a volte non sia sufficiente solo correggere gli errori del passato, ma si debba lavorare prevenendo i contrasti e lavorando insieme per trovare soluzioni condivise.

Credo che sia questo lo spirito con il quale gran parte della classe dirigente di questa provincia stia operando, seppur non senza difficoltà. È necessario, però, che il passaggio di cui parlavo prima venga completato. L’autonomia deve diventare uno strumento di democrazia e di maggior tutela per tutti; deve consentire di superare il disagio percepito, a torto o a ragione, negli anni.

Sono convinto che la crescita di una società plurilingue, dentro lo Stato italiano ma ancor più in Europa, passi attraverso una diversa lettura del passato, non per dimenticarlo, ma per guardare avanti. È necessario riconoscere ad ognuno dei gruppi linguistici presenti, nelle decisioni che verranno prese a livello politico istituzionale, pari dignità e comprensione per la storia che ognuno si porta dietro, senza per questo rinunciare ai propri convincimenti ed a scelte anche coraggiose, purché non imposte, che il tempo, e soprattutto il cambiamento della società sudtirolese, richiederanno.

È fondamentale valorizzare le migliaia di stranieri e di mistilingue dal momento che rappresentano un reale patrimonio per il futuro di questa terra. La politica non potrà non tenerne conto e anche questo servirà, ne sono convinto, a costruire un Alto Adige-Südtirol dove il problema del disagio non sarà più di questo o di quel gruppo linguistico, ma sarà un problema marginale e di più facile soluzione.

Toni Serafini

Uil/SGK

Disagio degli italiani: dall’autonomia etnica, all’autonomia di territorio.

Ormai da molti anni, si parla di disagio degli italiani in Alto Adige – Südtirol.

Per prima cosa bisogna intendersi e definire cosa si intenda per disagio degli italiani, perché ci sono analisi diverse al riguardo e quindi altrettante proposte, rimedi e “ricette” diverse.

Per quanto riguarda il sindacato Uil-SGK, riteniamo che il disagio degli italiani non parta dalla condizione economica, ma da altro.

Diciamolo chiaramente, la situazione in Alto Adige – Südtirol è oggettivamente migliore che in altre parti d’Italia, ed anche d’Europa, e si vive meglio: un buon reddito, una buona sanità, buoni servizi sociali, un’alta occupazione sia maschile che femminile – oltre gli obiettivi di Lisbona – e quindi una bassa disoccupazione; c’è, anche rispetto al resto d’Italia, una grande quantità di alloggi sociali Ipes, ben 12.000, di cui oltre 6.000 a Bolzano.

Non è quindi lo stato materiale che è indice del disagio degli italiani.

Certo anche da noi vi sono povertà vecchie e nuove, ma che toccano tutti gli ambienti (italiani e tedeschi). A queste però arriva anche una risposta positiva dalla Provincia, abbiamo un buono stato sociale che riesce a dare una risposta concreta: gli alloggi popolari, il sussidio casa, il minimo vitale, supporto alla non autosufficienza, e così via.

Il disagio degli italiani parte secondo noi da altre cause.

Noi riteniamo che la prima sia la mancanza d’identità di molti italiani.

Ancora oggi vi sono molte associazioni d’italiani rispetto alla loro zona provenienza: calabresi, mantovani, rodigini, bellunesi, abruzzesi, e così via. Bene associarsi, bene non perdere le radici culturali e gastronomiche dei genitori e dei nonni.

Il modo in cui operano tali associazioni sembra fatto più per rinchiudersi, per guardare indietro, per fare gruppo o clan, in sintesi: per fare barriera verso l’esterno.

Cosa che riteniamo non faccia bene prima a loro stessi e poi di conseguenza all’intera società in cui vivono.

Queste associazioni dovrebbero invece creare ponti, momenti di confronto, di apertura, per guardare avanti, per costruire assieme e in maniera condivisa il futuro.

Gli italiani, tutti, dovrebbero prendere atto di essere in Alto Adige – Südtirol, un territorio con la sua storia, la sua cultura, la sua lingua, detto in sintesi: capire dove ci si trova.

Si tratta quindi di conoscere la storia di questo territorio, la sua cultura, la sua lingua, le sue tradizioni, la sua tradizione enogastronomica.

Fondamentale conoscere il territorio, l’ambiente e il paesaggio della provincia dove si vive.

Altra questione, la lingua. Troppo spesso l’approccio, da parte di molti italiani, è stato ed è: siamo in Italia e quindi si parla italiano, senza sforzarsi di capire l’altro, quello che parla tedesco (o ladino).

Certo anche da una parte di cittadini di lingua tedesca, non sempre l’approccio era ed è positivo: vedasi due esempi fondamentali come l’uso della lingua e la toponomastica.

Sulla lingua: si dice che in Alto Adige – Südtirol si parli tedesco ma molto più spesso si parla, in realtà, in dialetto tedesco, anzi nei dialetti – quello della Val Venosta, quello di Sarentino, quello della Val Pusteria, e così via.

Insomma, usare in occasioni pubbliche, soprattutto nel rapporto con cittadini italiani il dialetto, vuol dire in realtà creare ulteriori barriere.

Succede spesso che anche cittadini germanici non comprendano i dialetti sudtirolesi.

Dobbiamo invece registrare positivamente che da parte di molti italiani, soprattutto giovani, vi è stato in questo ultimo decennio un cambiamento profondo: la disponibilità reale a studiare la lingua tedesca.

Come del resto succede anche verso la lingua italiana per i giovani sudtirolesi che vivono in città. Si registrano spesso amicizie e gruppi misti: sia nello sport, nella cultura, nell’associazionismo. Constatiamo infatti che tra le nuove generazioni italiane e tedesche, soprattutto di Bolzano, Merano, Bressanone, Laives il bilinguismo ha fatto passi da gigante.

Diversamente fra le giovani generazioni tedesche dei paesi, ove non c’è un contatto quotidiano con chi parla l’altra lingua, il bilinguismo ha fatto addirittura dei passi indietro. Questa è una situazione che va affrontata con più energia dalla politica, dalle scuole e dalle famiglie: sarebbe tragico se continuassimo su questa linea. Il bilinguismo dovrebbe essere vissuto come un arricchimento e non solo come un dovere, un pass per un posto pubblico. Il bilinguismo dovrebbe essere vissuto come un bonus in più, che arricchisce tutti.

Sulla toponomastica: è da anni che si parla di una legge provinciale sulla toponomastica ma non si riesce ad arrivare ad una soluzione positiva. E non si riesce ad arrivare ad una soluzione positiva perché le posizioni sono molto lontane, soprattutto per le richieste della Svp.

Non prendiamo neanche in considerazione le posizioni più estremiste: ad esempio quelle della Klotz.

Parliamo delle proposte della Svp, partito che ancora oggi rappresenta la stragrande maggioranza dei cittadini di lingua tedesca.

Ricordiamo che la Svp su 26 consiglieri provinciali di lingua tedesca ne ha 17 ed inoltre l’unico consigliere provinciale ladino è stato eletto nelle liste Svp.

Ebbene la posizione della Svp si può sintetizzare così: i nomi italiani vanno ridimensionati e quindi ridotti.

Siamo nel 2012, dal 1919 sono passati ormai 93 anni, oltre a Tolomei e alla sua operazione di italianizzazione dell’Alto Adige. Inoltre dal 1945 c’è la democrazia per tutti, italiani, tedeschi e ladini; l’uso dei toponimi si è radicato, ognuno identifica il territorio con i nomi che conosce e che si sono sedimentati nel corso di questi anni, che li abbia inventati quasi tutti Tolomei diventa oggi secondario.

Del resto lo statuto di autonomia del 1972 così si esprime in due parti sulla topo­nomastica.

– Titolo I, Capo III, art. 8, secondo comma: toponomastica, fermo restando l’obbligo della bilinguità nel territorio della Provincia di Bolzano;

– Titolo XI, art. 101, quarto comma: nella provincia di Bolzano le amministrazioni pubbliche devono usare nei riguardi dei cittadini di lingua tedesca anche la toponomastica tedesca, se la legge provinciale ne abbia accertato l’esistenza ed approvata la dizione.

Bene partiamo allora da quanto dicono le norme. La Svp per anni ha detto: pacta sunt servanda (i patti vanno rispettati). Bene pratichiamolo e tutto andrà sicuramente meglio!

Solo da una pratica politica che esprime un vero e profondo rispetto reciproco, da un confronto e quindi da un comprendersi appieno si possono gettare delle solide basi per una migliore convivenza.

La vicenda dei cartelli in montagna, quasi sempre solo in lingua tedesca, è sintomatica: così non si va da nessuna parte, se non allo scontro frontale e diretto, e soprattutto a far regredire il consenso all’autonomia tra i cittadini di lingua italiana.

Crediamo debba avvenire un reale cambiamento culturale, che in parte sta già avvenendo nei giovani tra cui le posizioni sono polarizzate. I giovani o sono per una società pluriculturale e multietnica o sono estremisti soprattutto di destra.

Il disagio degli italiani si potrà dipanare solo se si affrontano in modo aperto le varie questioni.

Sintetizzando, bisogna passare dall’autonomia etnica, all’autonomia di territorio, in cui ognuno, di qualunque lingua e cultura sia, si senta a casa propria e possa costruire il suo futuro in una società aperta e libera.

Ancora oggi infatti il rapporto Provincia-Stato è formalmente un rapporto Giunta provinciale-Governo, sostanzialmente invece il rapporto è Svp-Governo. La procedura è questa: si riunisce l’organo dirigente provinciale della Svp, che discute e delibera le richieste al Governo. Quindi la gestione passa alla Giunta provinciale che esegue quando deciso dalla Svp.

Così non va. Così non può oggettivamente andare avanti.

Una gestione condivisa dell’autonomia territoriale passa invece da un confronto e da una condivisione fra tutte le forze autonomiste anche nel rapporto Provincia-Stato/Governo.

Serve quindi, oltre che un cambiamento culturale, anche un cambiamento politico, innanzitutto da parte della Svp ma non solo. Solo costruendo assieme un percorso condiviso nella gestione dell’autonomia si possono fare dei concreti passi in avanti.

In questo contesto servirebbe una scuola nuova, che non sia chiusa con steccati etnici ma aperta agli scambi di alunni, in cui la diversità delle lingue non diventi un problema ma anzi una risorsa per lavorare e crescere assieme nelle diversità.

Ivan Bozzi

Useb

Plurilinguismo: un valore aggiunto per tutti noi.

Affrontare un tema vasto e complesso come quello del cosiddetto disagio degli italiani non costituisce un compito semplice. La mia fortuna a tal proposito è costituita forse proprio dall’opportunità che mi è stata fornita quando ho accettato l’incarico di presidente dell’Useb, l’Unione Settori Economici della Provincia di Bolzano. L’arco di tempo trascorso alla guida di questa importante sovra-associazione mi ha infatti permesso di prendere coscienza delle numerose dinamiche esistenti a livello di politica economica locale, molte delle quali mi erano in passato sconosciute o comunque non chiare come lo sono attualmente. Proprio sfruttando la splendida esperienza che sto portando a termine, ho deciso di affrontare l’argomento del disagio degli italiani sotto un punto di vista differente: mi riferisco in particolare all’ampio raggio di opportunità e sinergie che troppo spesso, quotidianamente, non vengono sfruttate dalla popolazione locale. E sia ben chiaro, parlando di popolazione locale non mi riferisco unicamente a quella di lingua italiana ma indistintamente ai tre gruppi linguistici esistenti nella provincia autonoma di Bolzano. Una valutazione del genere sulle realtà che compongono l’universo altoatesino non può indubbiamente prescindere dalla scelta di un “macro-tema” su cui concentrarsi ed a tal proposito ho deciso di partire da quello che a tutti gli effetti si può considerare un must nella nostra terra, ovvero il plurilinguismo. Riferendosi a questo ambito, non si può fortunatamente fare a meno di notare come la situazione oggi sia decisamente migliore rispetto al passato, dove chiusure spesso immotivate e preconcetti finivano per condannare già in partenza ogni tentativo mirato al progredire. Negli ultimi anni invece, la situazione è almeno parzialmente mutata ed in particolare il mondo italiano sembra al momento più aperto rispetto ai tempi che furono. Al contempo tuttavia, sono le medesime esperienze quotidiane a mostrarci molto spesso che la strada da percorrere è ancora piuttosto lunga e tortuosa. Regioni confinanti sia a nord che a sud e per molti versi simili alla nostra hanno, ad esempio, trovato già la strada per insegnare rispettivamente il tedesco e l’italiano senza costrizioni, preconcetti o inutili barriere mentali e culturali, trasformando l’apprendimento in un’opportunità. Un concetto, quest’ultimo, non ancora interamente compreso nella nostra terra. Ed un concetto su cui è viceversa indispensabile insistere, naturalmente senza rinnegare le proprie origini, così come la tradizione e le vicende che hanno caratterizzato l’Alto Adige nel corso della propria evoluzione storica.

Come riuscire in questa ardua, ma cruciale impresa? Una risposta potrebbe essere quella di partire dalle fondamenta del sistema e dunque dalla formazione. Lo scopo di quest’ultima dovrebbe tendere sempre più all’apprendimento della seconda e della terza lingua, operando concretamente su giovani e giovanissimi per permetter loro sin da subito di comprendere l’importanza di una costante sinergia con le altre culture esistenti. Un’operazione da svolgere nelle scuole naturalmente, ma anche e forse soprattutto a livello della famiglia, a conti fatti il vero e proprio punto di riferimento nei primi anni della vita di ognuno di noi.

Quando propongo questo percorso, tanto semplice e lineare in via teorica quanto complesso e ricco di ostacoli in via pratica, penso in particolare alle conseguenze positive che un maggiore impegno da parte delle istituzioni e della popolazione nel suo complesso potrebbe garantire alla nostra realtà ed in particolare ad una fruttuosa convivenza tra i diversi gruppi linguistici. Utilizzare appieno le potenzialità offerte dal plurilinguismo sarebbe innanzitutto il primo e cruciale passo per sfruttare parallelamente le opportunità messe a disposizione dalla nostra splendida terra, perfettamente idonea grazie alle proprie ricchezze naturali per candidarsi ad un ruolo di spicco quale vero e proprio “ponte europeo” della cultura. Ma se questo elemento non fosse sufficiente, si potrebbero considerare la ricchezza interiore ed i valori aggiunti offerti dal plurilinguismo a prescindere dall’appartenenza etnica ­oppure, utilizzando un esempio concreto, i guadagni più elevati garantiti abitualmente ai bilingui (proprio di recente sono state le statistiche fornite dalla Camera di commercio a confermare questa verità).

Ricollegandosi al discorso concernente le differenti realtà esistenti a livello provinciale, non si deve inoltre sottovalutare una valutazione di fondamentale importanza come quella relativa al rispetto reciproco: l’esperienza personale infatti mi ha sempre insegnato che proprio conoscere e capire il modo di comunicare, il background ed il vissuto quotidiano di chi si ha di fronte costituisca un fattore determinante per una convivenza serena, costruttiva e soprattutto priva di possibili elementi di conflitto. Proprio il plurilinguismo dovrebbe dunque essere utilizzato come vettore per raggiungere tali fondamentali obiettivi e per dettare linee di pensiero precise, utili a garantire un maggior rispetto ed una comprensione reciproca.

Come dimenticare, infine, un elemento che giorno dopo giorno preoccupa sempre più chi si occupa del futuro dell’Alto Adige ed in particolare dei nostri giovani. Mi riferisco in particolare all’evidente impoverimento che è ormai abituale individuare negli adolescenti quando ci si confronta con loro, soprattutto nella propria madrelingua. Un’evoluzione assai pericolosa per l’avvenire di tutti e che proprio per questo motivo deve essere contrastata, invertendo la rotta tramite un impegno più assiduo ed un esercizio costante, necessario al fine di evitare un ulteriore declino culturale.

Tale presa di coscienza sulle soluzioni da applicare, ci tengo a ribadirlo, deve avvenire da ogni parte della popolazione che compone l’Alto Adige. Le difficoltà economiche che giorno dopo giorno si fanno più pressanti, i disagi comuni per cui ancora non si è trovata soluzione, le prospettive assai poco accattivanti che ben presto rischieremo di trovarci di fronte: questi sono solo alcuni dei rischi che ci attanagliano e che ci impongono una reazione. Una reazione che, per il bene di ognuno, deve essere fornita nel più breve tempo possibile. Spetta insomma solo a noi scegliere quale direzione prendere in questo delicato momento storico-congiunturale. Siamo pronti e vogliamo cogliere questa opportunità, trasformandola in un valore aggiunto, o preferiamo arrenderci e limitarci a priori? A prescindere dal gruppo linguistico di appartenenza, ladino, tedesco o italiano, vedo un’unica soluzione e reputo necessario che venga presa da noi tutti. Insieme.

Abstracts

Le malester di talians y dles talianes dal punt d’odüda di partis, di sindacać y dles assoziaziuns economiches

Da mëte jö chësta posiziun n’él nia gnü presentè n catalogh de domandes, insciö che ­vignun podô se chirì fora daldöt lediamënter sciöche al orô ti jì pormez al contignü. ­Porchël vëgnel fora en cunt di problems lià al malester di talians y dles talianes les ­posiziuns politiches desvalies de vigni partì, de vigni sindacat y de vigni assoziaziun zënza­ ester gnüdes filtrades. I punć d’odüda desvalis forma n cheder vi dla realté soziala, sciöche chësta vëgn sintida y interpretada y ći alternatives che al vëgn a se le dè por ­superè le malester.

Das Unbehagen der ItalienerInnen aus der Sicht von Parteien, Gewerkschaften und Wirtschaftsverbänden

Für die Abfassung der Stellungnahme wurde kein Fragenkatalog vorgelegt, sodass­ sich die einzelnen Exponenten ihren inhaltlichen Zugang völlig frei aussuchen konnten. Dadurch kommen in den Stellungnahmen zum Problemkreis rund um das Unbehagen der ItalienerInnen die unterschiedlichen politischen Positionen der einzelnen Parteien und Verbände ungefiltert zum Ausdruck. Die unterschiedlichen Sichtweisen ergeben ein lebendiges Bild der sozialen Wirklichkeit, wie diese wahrgenommen und interpretiert wird und welche Alterna­tiven dazu angeboten werden, um das Unbehagen zu überwinden.

The discontent of the Italians from the ­perspective of political parties, labour unions and trade ­associations

Because no questionnaire was submitted for the drafting of the report, the individual representatives could freely choose their approach to content. As a result, the varying political positions of the individual parties, unions and associations regarding the problem of Italian discontent were presented unfiltered in the reports. The differing perspectives give a vivid picture of social reality, as it is perceived and interpreted, and what alternatives are available to overcome the discontent.