Paolo Pombeni
Quo vadis Europa?
Quo vadis Europe?
Abstract How are we to deal with today’s European crisis? We wonder if it depends only on the prevalence of a sort of “multilevel constitutionalism” or whether we could discover the roots of today’s situation in the history of a Continent that is still articulated by many stubbornly “souverain” states. Thirty year after the fall of the Berlin Wall and forty years after the first direct general election of the European Parliament, the Union is troubled by a crisis related to its members’ political systems and by a weakening of popular confidence. We have seen many attempts to foster a stronger identity for the European Union: since the White Paper of Delors (1985), there have been efforts to produce some sort of an European Constitution (2000-2002) and to enforce the representation of the EU beyond the sum of its members (by the creation of an EU President and of a High Representative for Common Foreign and Security Policy). Results have been modest and the internal troubles of the representative system in most European countries obstructs the progress of an EU that still has to deal with a problematic enlargement.
La situazione dell’Unione Europea non è brillante, eppure essa non sembra preoccupare né l’opinione pubblica né i vertici degli stati membri: è vero che la recente iniziativa congiunta di Macron e della Merkel sembrerebbe nascere da una qualche coscienza dell’impasse in cui ci troviamo, ma non sappiamo ancora quanta determinazione ci sia nell’intraprendere la strada di un ripensamento del “sistema UE” e quanto siamo davanti ad un tentativo di soddisfare le aspettative di un po’ di critici guadagnando a buon mercato qualche centralità sul palcoscenico di Bruxelles. L’europeismo è un sentimento in crisi: interessa ancora qualche gruppo di intellettuali e un po’ di persone che vivono dell’attività istituzionale dell’Unione. Eppure siamo a quarant’anni del primo voto a suffragio universale diretto per l’elezione del parlamento europeo e a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino. L’entusiasmo con cui vennero vissuti quei due momenti sembra essere un ricordo lontano e perduto in un’altra epoca storica.
Oggi bisogna ammettere che le elezioni a suffragio universale del parlamento europeo non hanno creato né quel “demos europeo” tanto atteso, verrebbe da dire per la soddisfazione di chi vede nella sua assenza una valida ragione per ancorarsi alla preminenza dei costituzionalismi nazionali (la Corte di Karlsruhe, tanto per dire), né hanno portato alla creazione di un reale contropotere rispetto ad una gestione di tipo confederale vecchio stampo delle decisioni da parte dei vertici politici dei singoli stati.
Neppure la caduta del Muro di Berlino ha portato in dote quella riunificazione dell’Europa sotto una unica formula politico-culturale che sembrava impedita solo dalla presenza del tallone sovietico nella parte orientale del suo territorio. Anche in questo caso si è visto che la storia conta molto più di quel che credono i vari ingegneri politici e che le differenze esistenti fra l’Ovest e l’Est del continente non erano imputabili solo al periodo in cui quei paesi erano stati satelliti di Mosca. I paesi dell’Europa Orientale non sono stati parte della rivoluzione costituzionale che si è sviluppata ad Occidente lungo l’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale. La forzata parentesi di democrazia costituzionale che si è vissuta brevemente ad Est nel periodo interbellico non ha avuto il tempo di radicarsi in territori dove le disomogeneità etniche e culturali, per non dire sociali, avevano una lunga storia. Poi è venuto l’inverno della inserzione nell’universo delle cosiddette “democrazie popolari”, ma non è bastato il crollo di quelle per pareggiare un ritardo storico.
Non voglio proporre uno sguardo pessimistico: è semplicemente una considerazione realistica dell’evoluzione che ha interessato l’Unione Europea nella sua storia che ha ormai sessant’anni e anche più se si considerano le fasi di avvio dell’operazione. L’avventura per creare un soggetto europeo unitario ebbe la sua radice prossima nel disastro con cui dovette confrontarsi l’Europa durante e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando non per caso alcuni interpreti parlarono di finis europae. Allora era sembrato evidente che a vincere nella contesta bellica fossero stati due grandi “imperi”, quello americano e quello sovietico, capaci di acquisire in ragione delle loro “dimensioni”, ma al tempo stesso delle loro pur diverse leadership ideologiche globali, quella capacità egemonica che non era disponibile per un continente diviso e preda fra il 1914 e il 1945 di quella che una parte almeno degli storici avrebbero etichettato come “la guerra civile europea”. Aveva creduto di potersi collocare fuori da questa dimensione e quasi su un piede di parità con USA e URSS la Gran Bretagna che aveva sempre avuto remore a considerarsi a pieno titolo parte dell’Europa e che era ancora convinta allora di essere anch’essa un impero, fosse pure sotto le auree spoglie di un Commonwealth, che pur con non pochi scossoni aveva affiancato Londra nella sua resistenza alla sfida dei fascismi. Non era solo il sogno di Winston Churchill e dei suoi amici conservatori, perché, con qualche distinguo, lo condividevano anche i laburisti (si pensi anche solo a Ernest Bevin ministro degli esteri nel governo laburista postbellico). Quel sogno sarebbe durato a lungo, anche quando Londra avrebbe dovuto arrendersi all’idea di non poter più dominare “ad Est di Suez” e poi di doversi ulteriormente ridimensionare. Anche di questo bisognerà tenere conto nel momento in cui dobbiamo fare i conti con il problema della Brexit.
Nel ripercorrere l’europeismo dei padri fondatori è facile trovarvi tanto le utopie della costruzione degli Stati Uniti d’Europa (un’etichetta che rimanda ad un archetipo di tutt’altra tipologia), quanto il realismo di chi pensava che fosse razionale mettere a sistema una rete produttiva che allora aveva ancora grandi potenzialità di conquista e dominio dei mercati solo che si evitassero i conflitti intestini (non a caso le si faceva fare perno sul carbone e sull’acciaio, ma la faccenda era ben più complicata). C’era anche, ed è bene non dimenticarlo, un interesse dei vari stati a poter contare in quello che allora sembrava il cuore della ristrutturazione del sistema delle relazioni internazionali, cioè nelle Nazioni Unite, ben presto peraltro disunite dalla contrapposizione fra “l’impero su invito” americano e quello obbligato all’omogeneizzazione al modello sovietico. I paesi fondatori di quella che sarebbe divenuta la Comunità Economica Europea erano tutti paesi deboli, vuoi perché sconfitti nella guerra conclusa non molto tempo prima (Italia e Germania), vuoi perché di dimensioni modeste tanto da essere stati facile preda dell’espansionismo hitleriano. Credeva di fare eccezione la Francia che non si sentiva parte né degli uni, né degli altri, ma che era stata un vincitore coi piedi d’argilla, assillata in seguito dalla chiamata ad una grandeur che, pur nel segreto, doveva ammettere di non poter gestire se non nella qualità di ipotetico vertice di una confederazione più vasta. Anche questo peserà e pesa tutt’oggi. Chi dimentica la storia si condanna a non capire il presente.
In realtà di questa nuova Europa (occidentale) sviluppatasi a partire dalla Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (e da quella meno significativa dell’energia atomica, mai veramente decollata) il brodo di coltura forte era stato sino alla fine degli anni Settanta quello dei “trenta gloriosi”, per usare una formula consacrata proprio dalla storiografia francese: si tratta del trentennio circa (1945-1975) quando il PIL mondiale triplicò e lo “sviluppo” fu il nuovo termine chiave che orientò tutta la politica economica dei paesi europei e non solo. Il successo della Comunità Economica Europea era fortemente legato all’età del grande benessere, della affluent economy, ed era questo che attirava nuove adesioni: pur con molti travagli interni si arrese ad entrarvi nel 1973 la Gran Bretagna (con l’appendice di Danimarca e Irlanda). Ma la sua forza attrattiva fu tale che fece cadere i tre regimi autoritari, per non dire esplicitamente le tre dittature che esistevano ancora nell’Europa Occidentale: nel 1973 finì la dittatura dei colonnelli in Grecia, nel 1974 fu la volta del Portogallo e l’anno seguente della Spagna di Franco. Per quanto questi tre paesi dovessero aspettare un certo tempo per entrare nella CEE (la Grecia nel 1981, Portogallo e Spagna nel 1986), è indubbio che tutti interpretarono le vicende che avevano portato al collasso dei tre regimi dittatoriali come una vittoria definitiva sulla eredità dei fascismi del modello democratico europeo grazie alla sua concentrazione in un soggetto comunitario, il quale si era dimostrato capace di creare uno “sviluppo” (e di conseguenza una ricchezza con annesso welfare) impensabili fuori di esso. Per di più si era trattato in tutti i casi di passaggi politici che si erano svolti in maniera sostanzialmente pacifica, senza gli spargimenti di sangue e le asperità tradizionalmente legate alla fine dei regimi dittatoriali. Anche questo apparve come una novità storica rilevante, interamente attribuita alla forza che la Comunità Europea aveva acquisito come produttrice di un benessere da cui le popolazioni non volevano venire escluse. Il fenomeno venne letto come una grande vittoria della “potenza civile” che era ormai rappresentata da quella che si apprestava a diventare l’Unione Europea, la quale in altri dieci anni riusciva a coprire praticamente quasi tutta l’Europa occidentale con l’adesione nel 1995 di Austria, Svezia e Finlandia.
Anche il caso dell’adesione dell’Austria merita un piccolo cenno. L’adesione piuttosto tardiva di questa repubblica era dovuta al veto che le veniva posto dall’Italia che lamentava le ambiguità (per non dire di peggio) di Vienna sulla questione del terrorismo sudtirolese. Anche questo è a suo modo un caso curioso, perché il moto di sostegno che in Austria si era determinato negli anni Sessanta e Settanta verso la supposta “resistenza armata” dei sudtirolesi alla cosiddetta “occupazione” italiana era legato tanto ad un problema di vecchio nazionalismo irredentista di marca ottocentesca quanto al nuovo mito della lotta di liberazione che si stava svolgendo nel mondo coloniale Senza poter entrare qui in una complessa questione (Bernardini/Pallaver 2015), mi limito a ricordare che fu proprio il successo dell’integrazione europea a disarmare moralmente i nazionalismi di frontiera (e le connesse deviazioni para-fasciste e naziste) ed a fornire la strumentazione necessaria per sistemare nel Sudtirolo una convivenza etnica che nel quadro dell’Unione Europea avrebbe potuto assumere tutt’altro orizzonte di riferimento. Che poi le vecchie ideologie siano dure a morire e tendano a percorsi carsici per cui si ripresentano di tanto in tanto, è un’altra questione, ma quanto si conquistò allora è ancora nella disponibilità di chi intenda la politica come costruzione razionale e non come dimensione onirica: è significativo che a questo contesto, che fa del Sudtirolo una sorta di realizzazione in vitro dell’Europa unita, abbiano fatto riferimento i presidenti della repubblica italiano ed austriaco nella loro vista nella provincia nel novembre 2019.
Benessere economico in continua espansione e modello liberal-democratico unanimemente accettato divennero sempre più i veri pilastri di un europeismo che sembrava contagiare tutti e che nessuno pensava fosse possibile mettere in discussione. L’aver ottenuto l’adesione anche della Gran Bretagna veniva interpretato dai più colti come il suggello massimo a questa omogeneizzazione europea, poiché vi si inseriva anche il paese che si era ritenuto orgogliosamente rappresentante di una forma di eccezionalismo nel quadro delle vicende politiche continentali (di cui anzi aveva a lungo rifiutato di riconoscersi parte). E questo si spingeva fino al punto che a presidente della Commissione Europea veniva nominato per il periodo 1977-1981 un personaggio di spicco non solo della politica, ma del mondo intellettuale britannico, il laburista Roy Jenkins, portatore di una vivace storia di riformismo, che avrebbe avuto nel suo staff David Marquand, uno storico e politologo che sarebbe diventato e rimasto sino ad oggi un punto di riferimento dell’europeismo britannico (Marquand 2008).
Non possiamo comprendere la crisi attuale del sistema europeo, crisi di cui la Brexit è per tanti versi l’epifenomeno, se non ripercorriamo la vicenda per cui non si è riusciti a varare un sistema che almeno parzialmente e realisticamente facesse dell’Unione Europea qualcosa di più di una ambiziosa confederazione di stati che si tenevano reciprocamente sotto controllo, spartendosi i benefici, ma senza condividere rischi e difficoltà. Per andare oltre si sarebbe dovuto accettare che ci fosse un contesto che favoriva la formazione di leadership realmente europee, mentre si preferì, nonostante ci fosse qualche spiraglio in quella direzione, puntare su una ingegneria istituzionale e burocratica che non riusciva a darsi un’anima. Di nuovo era un fenomeno nel solco di una tradizione positivistica europea che, dopo le ubriacature degli anni Venti e Trenta e di fronte al risorgente timore per lo svilupparsi di utopie para-rivoluzionarie, temeva come retorici tutti i discorsi legati alle proposte di “visioni” del futuro.
Eppure ci fu un tempo in cui si tentò di fare qualcosa. Pur con qualche fase di stagnazione, la questione europea sembrò tanto dominante da essere affidata nelle mani di un personaggio di grande levatura, con la nomina a presidente della Commissione del francese Jacques Delors, che l’avrebbe tenuta per un decennio (1985-1995). Questi fu sostanzialmente l’ultimo leader veramente europeo convinto di poter portare a termine, per quanto con molto realismo e molta pazienza, la costruzione di un vero “sistema europeo” e lo fece nonostante l’opposizione della signora Thatcher che riproponeva lo schema dell’alterità britannica e che sfruttava tutte le ambiguità “confederali” del sistema di governance. A lei non mancarono di accodarsi altri, sia pure in forme meno aggressive. Già in quella fase non si lavorò per contrastare quell’approccio, probabilmente convinti che il naturale evolversi degli eventi avrebbe indirizzato quelle posizioni sul viale del tramonto. Fu l’errore tanto dei politici quanto degli intellettuali europeisti.
In fondo si puntava ancora sulla risposta cosiddetta funzionalista. Il libro bianco di Delors, varato nel 1985, aveva l’obiettivo di completare entro il 1993 il “mercato interno”, muovendosi sempre nella logica che una forte interdipendenza delle economie sarebbe stata il prodromo inevitabile di una integrazione non solo politica a più ampio raggio alla quale a quel punto non ci si sarebbe potuti opporre.
È qui che si ebbe l’occasione di toccare con mano come una forte connessione a livello di economie con l’aggiunta del diffondersi di una comune cultura in materia di consumi e di stili di vita (obiettivi indubbiamente raggiunti) non fosse necessariamente l’anticamera della nascita di un nuovo soggetto politico-istituzionale. Perché il vero problema con cui l’Europa continuava e continua a fare i conti è la sua incerta natura giuridica, che peraltro è dovuta all’ambiguità stessa del suo modo di autorappresentarsi. Nonostante gli sforzi per circoscrivere almeno questo problema, come apparve evidente col Trattato di Maastricht (1992-93), che si cercò poi di perfezionare col Trattato di Amsterdam (varato nel 1997, ma in vigore dal 1999), in realtà non si riuscì ad andare oltre quello che gli studiosi definiscono come un “multilevel constitutionalism”, cioè un sistema vagamente confederale, dove però la ipotetica confederazione non ha una sua statualità autonoma, il che la rende evanescente.
Il fallimento, almeno per il momento, dell’europeismo delle origini è legato a questo mancato passaggio. Vedremo in seguito che esso viene anche imputato al crescere dei movimenti populisti antieuropei, ma in realtà questi sono figli di quella incapacità di far fare al sistema europeo il salto di qualità verso una istituzionalizzazione a livello realmente sovra-nazionale: quella che ormai si definiva con un certo orgoglio la “Unione Europea” era una creatura piuttosto fragile.
Lo sforzo che venne fatto nel 2000 per varare quella che venne ambiziosamente definita come una “costituzione europea” è emblematico nel fallimento di un salto di qualità che non si fu capaci di fare. Progettata sotto la presidenza della Commissione di Romano Prodi (1999-2004), che fu l’ultimo a tentare con convinzione il conferimento di una capacità unificante e governante alle istituzioni di Bruxelles, la “costituzione” non fallì il suo obiettivo solo per la bocciatura a cui fu sottoposta dal referendum confermativo in Francia e Paesi Bassi, dopo essere stata approvata in alcuni stati membri senza particolari entusiasmi, mentre altri furono ben felici di non sottoporla neppure al passaggio di ricezione vista la bocciatura francese e olandese. In realtà già la pomposa “Convenzione” (2002-2003) che doveva progettarla e discuterla si dimostrò un organismo incapace di esprimere un’anima, e men che meno una leadership. Impossibilitati a trovare intese su grandi visioni, si finì per dar vita ad una monumentale raccolta di normative varie, che in forma meno solenne sopravvissero nel successivo Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre del 2007, (efficace due anni dopo): un documento da legulei a cui mancava qualsiasi pathos costituzionale, così come prima nella Convenzione non c’era stato nessun personaggio che potesse parlare davvero da padre costituente in nome e per conto di una identità europea che restava da inventare.
Ha ragione Habermas quando parla di quel che emerse da quei dibattiti e dai loro successivi sviluppi come di un “federalismo esecutivo” che si sostanziava in un “esercizio post-democratico del potere”. Del resto avrà pur un suo significato il fatto che nell’opera di progettazione del sistema “costituzionale” europeo e nei suoi sviluppi successivi non siano mai stati coinvolti degli storici, che avrebbero almeno potuto spiegare come si erano elaborate le costituzioni nella storia dei diversi stati europei: mai ciò era avvenuto come pura operazione di “giuristi”, priva del pathos dei momenti storici creativi. Questi sono generati da contingenze drammatiche, capaci di mettere gli uomini di fronte alle loro debolezze e agli errori che esse li portano a compiere: non si possono ricreare a tavolino, finanziando un po’ di cantori di corte queste epopee. Purtroppo, questa è stata troppo spesso l’illusione che ha mosso investimenti non tanto piccoli elargiti dalle istituzioni di europee a sostegno di soggetti che si presumeva fossero promotori dell’idea europea perché disponibili ad accettare le retoriche che produceva la burocrazia di Bruxelles a giustificazione del proprio ruolo. Non ci si è mai posti in modo serio il problema di chi potessero essere i Kulturträger di una transizione epocale che vedeva una trasformazione montante del quadro trasmesso dalla sedimentazione tradizionale ereditata dal pregresso.
Soprattutto solo dei grandi storici sarebbero stati in grado di mettere in luce le asperità di una storia comune che era stata abbandonata per dar spazio alle vuote retoriche degli entusiasti degli utopismi fabbricati dalle burocrazie, culturali e non, del funzionariato comunitario: era quella europea una storia, e per certi versi ancora una realtà di peculiarità “nazionali” che andavano conosciute a fondo per poter essere fuse in una sintesi comprensibile ed utilizzabile oltre le cerchie dei “sapienti” (da sempre interconnessi in una fitta rete di scambi), tenendo anche conto di profonde differenze esistenti fra l’area occidentale e quella orientale del continente.
È abbastanza impressionante per esempio rilevare come se si fosse tenuto presente il peso della storia in territori multietnici, con uno scarso retroterra di esperienze di costituzionalismo di tipo “occidentale”, si sarebbe potuto capire che il crollo del controllo sovietico sui suoi satelliti non sarebbe stato sufficiente per “ricongiungerli all’Europa” come si disse con grande superficialità. Chi per esempio avesse conoscenza della storia di quelle terre quando erano parte dell’impero asburgico avrebbe potuto spiegare che i magiari erano la componente più reazionaria e contraria al costituzionalismo moderno nella duplice monarchia. Forse avrebbe aiutato ad essere preparati alla “democrazia illiberale” di Orban o alle radici culturali che muovono il cosiddetto “gruppo di Visegrad” che si formò già nel 1991, dunque non molto tempo dopo la caduta del Muro e quando l’attrazione per l’ingresso nella UE era ancora in grado di sviluppare una notevole forza attrattiva.
Dopo la svolta dell’inizio del nuovo secolo e millennio, l’europeismo ha conosciuto solo una continua regressione. Indubbiamente vi concorse anche la progressiva concentrazione del potere decisionale, ovvero della governance nel Consiglio Europeo, cioè nella riunione dei vertici degli stati membri. Questo privò sempre più di rilievo la Commissione (per non parlare del Parlamento). Già Prodi nell’ultima fase del suo mandato aveva dovuto sperimentare questi condizionamenti, a cui tuttavia aveva cercato di opporre la sua personalità convinta di essere investita di un mandato europeo. Per evitare anche questo … fastidio, il Consiglio chiamò a succedergli un personaggio incolore e senza ambizioni di protagonismo, Josè M. Durão Barroso, che venne mantenuto in quella posizione per ben due mandati (2004-2014).
Quasi in contemporanea si volle creare, proprio per dare una rappresentatività di tipo meno burocratico all’Unione Europea, un “presidente”. Già dal dibattito sulla creazione di questa figura si può ben vedere quanta ambiguità circolasse nel complicato tessuto dei poteri europei. Con una certa enfasi si disse che avrebbe dovuto divenire l’incarnazione e il rappresentante all’esterno dell’unità europea. Doveva realizzare quel famoso numero di telefono richiesto da Henry Kissinger per sapere a chi rivolgersi evitando di non riuscire mai a parlare con qualcuno che potesse veramente parlare in nome dell’intera istituzione. La carica venne formalmente varata col Trattato di Lisbona, ma già la dizione di “Presidente del Consiglio Europeo” stava lì a chiarire che non si trattava di nulla di simile al presidente USA e neppure a quello francese. Qualsiasi ipotesi di affidare quel compito a qualcuno che avesse una statura da leader venne cassata: si ricorderà che si parlò per esempio di un incarico a Felipe Gonzales, poi a Tony Blair, personaggio certamente discusso e discutibile, ma appunto “un personaggio” e come tale poco gradito ai vertici degli stati dell’Unione che non volevano avere a che fare con qualcuno che potesse pretendere di fare lui davvero politica …
I poteri del presidente erano di fatto più che vaghi e la sua formale rappresentatività esterna dell’Unione poco più di una formula vuota. In teoria avrebbe dovuto o potuto essere un organo di collegamento fra il Consiglio che rappresentava gli Stati membri e il Parlamento che avrebbe dovuto dar vita alla rappresentazione del popolo europeo: non ci pare si possa dire che questo si sia realizzato. I due presidente prescelti sino ad oggi, il belga Herman van Rompuy e il polacco Donald Tusk, non hanno certo brillato per creatività politica tanto che sarebbe arduo sostenere che siano stati anche semplicemente presi in considerazione come dei punti di riferimento da parte dell’opinione pubblica europea (per tacere di quella internazionale).
È abbastanza curioso che mentre declinava decisamente il coinvolgimento popolare nella costruzione di quella Europa che diveniva sempre più “larga” (nel 2013 il numero dei paesi aderenti arrivava a 28) cresceva l’ambizione da parte del Consiglio Europeo di esercitare un potere di regolamentazione della convivenza dei diversi poteri nazionali, che non venivano toccati, ma che si cercava di contenere in quegli ambiti dove i paesi che più avevano guadagnato dalle dinamiche comunitarie temevano di vedere compromessi i loro risultati economici. Questo aprì in seno alla compagine europea una competizione fra i membri che non si era conosciuta negli anni della fondazione, quando tutto sommato, al di là di qualche crisi di protagonismo (famosa la vicenda della “sedia vuota francese”: 1965-66), i paesi membri avevano sempre vissuto senza il timore che la collaborazione europea potesse costringerli a scelte che mettevano in questione gli egoismi dei singoli interessi nazionali.
Tutto dipendeva dalla fine dei “Gloriosi Trenta”, dal venire progressivamente meno di quel quadro di affluent economy messo in crisi da un diverso sviluppo dell’economia mondiale (si pensi al mito delle cosiddette tigri asiatiche), cosa che, soprattutto in alcuni paesi, ma un po’ dovunque con una presenza a macchie di leopardo, metteva in questione anche la affluent society come sistema che aveva ridotto le differenze di classe per dar vita a società dove il benessere sembrava garantito senza problemi alla stragrande maggioranza delle popolazioni (la società dei due terzi). La grande crisi economica mondiale del 2007-2013, innescata dalla crisi dei subprime in USA per lo scoppio nel 2006 della bolla immobiliare, ha complicato molto il quadro europeo, perché, come si è già accennato, ha iniziato a diffondersi nei vari stati la paura che la crisi economica, che inevitabilmente aveva ripercussioni anche sulla UE, mettesse a rischio il benessere acquisito. Il quadro si aggravò con l’emergere della crisi greca nell’autunno del 2009, quando il primo ministro di quel paese dovette ammettere che i bilanci dello stato erano stati falsificati per far entrare anche il suo paese nell’euro. Fu con quell’evento che nelle opinioni pubbliche dei paesi UE, specie in quelle dei paesi più ricchi, ma che già sentivano qualche scricchiolio delle loro economie, venne messo in questione il principio della condivisione delle difficoltà se queste divenivano troppo strutturali.
È abbastanza scontato che in questi casi si cerchi il capro espiatorio su cui far ricadere le colpe per il cambio di orizzonte. L’impostazione monetarista data all’analisi economica, il peso crescente della finanziarizzazione dell’economia, e un quadro di disequilibri politici presenti fra i vari paesi membri hanno portato ad una spaccatura che è stata giornalisticamente rappresentata come quella fra le “formiche” del Nord e le “cicale” del Sud. La situazione europea si destabilizzava anche a causa di opinioni pubbliche sempre più nervose per le mutazioni sociali che erano indotte dalla crisi, e costrette anche a fronteggiare qualche fenomeno eclatante (violenza e terrorismo dovuti all’influenza dei conflitti mediorientali su quote, peraltro marginali, di popolazioni immigrate di terza generazione; incremento degli arrivi incontrollati in Europa di persone che fuggivano da aree di sottosviluppo o da crisi belliche).
In questo quadro si è assistito di fatto all’abbandono della forza di omogeneizzazione che era stata attribuita al modello costituzionale liberal-democratico. In teoria l’Unione Europea non potrebbe accettare al suo interno stati in cui quel modello politico subisse limitazioni o negazioni. In realtà ci fu un solo caso in cui la UE provò ad esercitare quello che gli prescrivevano i suoi trattati, e fu nel 2000-2002 con l’ascesa in Austria di Jörg Haider, leader di un’estrema destra xenofoba e assai poco democratica che stava guadagnando posizioni di potere sulla spinta di un crescente successo elettorale. La censura fu forte a parole, nella realtà si mantenne solo a quel livello, finché il fato risolse la questione con la scomparsa di Haider dalla scena politica. Quando in seguito la tematica si è ripresentata e in maniera ben più seria, la UE non è più stata in grado di intervenire. A partire dal 2011 l’Ungheria avviava una riforma costituzionale poi implementata da successivi atti legislativi muovendosi esplicitamente fuori del solco liberal-democratico, tanto che, come già ricordato, il leader ungherese Orban teorizzava una democrazia illiberale. Nel 2017 il governo polacco, che si era già segnalato per politiche orientate al radicalismo populista di destra, emanava una legge di organizzazione del sistema giudiziario che ne minava l’indipendenza, toccando così uno dei cardini del sistema di distribuzione/separazione dei poteri previsto dal costituzionalismo occidentale. Il parlamento europeo in questo caso approvava il 12 settembre 2018 una risoluzione che chiedeva l’attivazione dell’articolo 7 del Trattato europeo per sanzionare queste violazioni.
Nulla però è veramente successo. Orban è saldamente membro del Consiglio Europeo, il suo partito fa parte del PPE e ha anche votato a favore di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione Europea nella legislatura apertasi quest’anno. In queste condizioni non c’è da meravigliarsi se gli entusiasmi dell’europeismo si sono spenti.
L’andamento della governance europea è stato quanto mai contraddittorio. Da un lato è sembrato che si puntasse a rafforzare il potere di orientamento e di controllo del “sistema UE” (in realtà del Consiglio) rispetto a certe libertà di manovra dei governi dei singoli paesi. L’esempio più chiaro è stato il varo nel Consiglio Europeo del 28-29 ottobre 2010 del meccanismo di stabilità economica, noto come “Fiscal Compact”, poi perfezionato dalla predisposizione nel 2013 di un regolamento interno che istituiva un apposito Consiglio per gestire queste partite, consiglio formato dai ministri finanziari dei paesi membri. Si procedeva sempre più nell’ottica di creare enti che si volevano apolitici e neutrali (tipici casi, la Banca Centrale Europea, gennaio 1999, e l’Unione Bancaria Europea, giugno 2012), il che non rafforzava il sentimento pro-europeo delle popolazioni, ma di fatto creava capri espiatori su cui i governi potevano scaricare il risentimento dei loro cittadini per politiche di contenimento della spesa pubblica o di regolamentazione di qualche settore economico che essi dovevano assumere, ma che imputavano al ricatto di Bruxelles.
Da questo punto di vista può essere considerata interessante la vicenda della BCE sotto la guida di Mario Draghi. Oggi c’è un consenso quasi generale che l’annuncio da lui fatto il 26 luglio 2012 di usare “whatever it takes”1 per fronteggiare la montante crisi economica sia stato decisivo per impedire effetti distruggenti delle tensioni che avrebbe interessato a lungo il sistema economico. Draghi fece un uso creativo dei suoi poteri, fieramente osteggiato dal rappresentante tedesco e da altri rappresentanti dei governi del Nord Europa che sedevano nel board della BCE, ma non risulta che ci sia stato veramente un moto di sostegno della sua politica da parte dell’opinione pubblica europea verso un’azione che mostrava le possibilità offerte da una azione in capo ad una istituzione comunitaria.2 Tralascio qui la polemica politica scoppiata in Italia intorno alla questione del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) perché è una questione artificialmente usata per ragioni di demagogia politica interna, mentre negli altri stati membri il tema è assente.
Per constatare come siano state scarse le volontà di usare in maniera creativa e appropriata le istituzioni comunitarie possiamo ricordare quanto è avvenuto quando si è cercato di mettere in campo una istituzione per fare della UE un soggetto capace di intervento in quanto tale sulla scena internazionale. Si tratta di un settore dove si è spesso notata l’assenza di una politica comunitaria: basterà richiamare le lamentazioni per l’assenza di una efficace azione della UE in Africa o in Medio Oriente: parliamo ovviamente di “politica estera” propriamente detta, perché altra cosa sono i vari tipi di finanziamenti europei allo sviluppo o alle emergenze su cui pure si potrebbe discutere. Le difficoltà nel campo della gestione delle relazioni internazionali divenne plasticamente evidente con la creazione della figura di un “Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune” (Mister, poi divenuto Miss, PESC nel linguaggio corrente). Credo si possa convenire che si è trattato di un fallimento clamoroso. Mentre non sappiamo ancora quanto è costato approntare un servizio diplomatico comunitario che non si sostituiva certo agli apparati diplomatici dei paesi membri e che è persino dubbio che realmente li affiancasse (del suo funzionamento, struttura ed efficacia non sappiamo più nulla), a quel ruolo che avrebbe dovuto essere di grande rilevanza furono destinate due figure che non hanno certo brillato per capacità di gestione del difficile compito: dapprima l’inglese Catherine Ashton (2009-2014), poi l’italiana Federica Mogherini (2014-2018). Il nuovo responsabile immaginato per la legislatura apertasi ora, lo spagnolo Josep Borrell, non sembra possedere il profilo per riconquistare a quel ruolo il peso che si era immaginato per mister PESC.
Va detto che sarebbe ingeneroso e ingiusto attribuire tutte le responsabilità al profilo di coloro che hanno ricoperto la carica, perché la questione fondamentale è che nessun paese è stato ed è disposto a delegare ad una figura comunitaria neppure la gestione di una parte della sua politica estera. Parlando più in generale, il principio assolutamente paritario, a dispetto di qualche riforma che in teoria avrebbe dovuto almeno attenuare questo sistema che metteva nelle mani di ciascun membro un potere di veto, non è mai stato di fatto scalfito. Ne è un curioso esempio un episodio che vale la pena di ricordare. Nel marzo 2017 si presentò il problema della conferma alla presidenza dell’Unione del polacco Donald Tusk, che non era gradito alla nuova maggioranza politica che aveva conquistato il governo del suo paese. Per superare quell’opposizione, non si ricorse come sarebbe stato simbolicamente rilevante semplicemente alla messa a margine della volontà del governo polacco, rompendo così, in un caso che si sarebbe anche prestato alla bisogna, il principio dei poteri di veto, ma si aggirò il problema ricorrendo ad un escamotage: la nomina di Tusk venne inserita nelle conclusioni del Presidente del Consiglio Europeo, che vennero approvate come tali senza che così la decisione si potesse imputare al Consiglio come istituzione.
Si può ben capire che questi bizantinismi e questa incapacità di dare “personalità” alla Unione Europea non possono promuovere una ripresa della passione europeista. La crisi dei sistemi rappresentativi in Europa è del resto un fenomeno assai presente anche a livello dei paesi membri. Il populismo con forti venature, quando non con decise scelte antieuropee è molto diffuso: basti ricordare Fidesz in Ungheria, Diritto e Giustizia in Polonia, la FPÖ in Austria, Alternative für Deutschland in Germania, la Lega in Italia, il Front National in Francia, per limitarci ai casi più noti ed eclatanti. Anche il referendum che ha visto vincere, sia pure per poco, in Gran Bretagna i sostenitori dell’uscita dalla UE si iscrive in questo filone di grave crisi dell’europeismo. E in quel caso è emersa con evidenza l’incapacità dell’intellighenzia europeista degli altri paesi membri di affiancare le forze britanniche che si battevano per il remain: un intervento che avrebbe dovuto dispiegarsi in un tempo lungo, ben prima che la questione venisse sottoposta a referendum, proprio perché almeno gli storici sapevano quanto pesasse la “insularità” nella determinazione dell’identità britannica soprattutto a livello popolare.
In tutti questi casi una risposta a livello europeo è totalmente mancata. Il populismo e il sovranismo sono giudicati problemi interni ai singoli stati e in quanto tali le istituzioni comunitarie non li affrontano. Si dirà che non hanno gli strumenti per farlo e può anche essere vero, ma si deve notare che non sono neppure in grado di supportare efficacemente un movimento di opinione che li contrasti (sarebbero soldi spesi meglio di quelli spesso investiti senza grande costrutto a sostenere una propaganda europeista di vecchio stampo).
Neppure in rapporto ai movimenti di marca indipendentista rispetto alle tradizionali sistemazioni degli attuali stati nazionali il sistema comunitario è riuscito ad esercitare un qualsiasi ruolo. È da notare che molti di questi, assai diversi fra loro, non sono affatto antieuropei, anzi affermano di voler mantenere nell’ambito della UE le nuove “piccole patrie” che vorrebbero far risorgere: vale per casi come la Catalogna, la Scozia, la componente fiamminga del Belgio. Anche qui si può ben capire che una UE nelle mani di un Consiglio Europeo formato dai vertici degli stati membri non sia nelle condizioni di intervenire, ma ciò non le vieterebbe di porre allo studio, di offrire prospettive di riflessione rispetto a fenomeni che mettono in crisi, ma da una prospettiva nuova, il tradizionale sogno di un’Europa che avrebbe abolito i confini, mentre sembra che se ne vogliano creare di nuovi.
L’Unione Europea è dunque oggi in crisi, anche se si fatica a delineare la tipologia e i confini di essa. La mancanza di un “demos europeo” un tempo fortemente sottolineata appare oggi meno centrale, in quanto la dimensione di “popolo” è messa in questione in molti degli stessi paesi membri. Vi è una indubbia crisi dei sistemi politici in molti di essi: in Austria, Belgio e Spagna ci sono state o ci sono ancora difficoltà a formare governi con solide maggioranze parlamentari; in Italia si registra l’alternarsi di governi che sono sostenuti da maggioranze di diverso orientamento politico, ma tutte caratterizzate da una forte litigiosità interna con conseguenti aspettative di instabilità e di indecifrabilità delle politiche che vengono perseguite. La Germania vede messa in discussione la sua vantata stabilità postbellica con il declino di uno dei partiti perno di questa, la SPD, e con una crisi profonda dell’altro la CDU/CSU (entrambi partiti dell’unione in difficoltà per i consensi calanti), a parte la continua crescita di AfD di cui abbiamo già parlato. In Francia la presa del presidente Macron sul sistema è dovuta più alle tecnicalità dell’organizzazione di quel sistema istituzionale che alla sua presa sull’opinione pubblica come hanno mostrato le manifestazioni dei cosiddetti “gilet gialli” (ora in calo, ma non perché il governo abbia riconquistato una capacità di aggregazione della popolazione).
Di una fase di difficoltà della democrazia si parla quasi ovunque, così come si invocano quei leader carismatici veri (i demagoghi ne sono solo una caricatura) dalla cui comparsa ci si attende un recupero della creatività politica. La connessione fra leadership carismatica a livello nazionale ed a livello europeo è stata spesso auspicata, ma non si è mai veramente realizzata. Il rinvio mitico al motore franco-tedesco che si farebbe risalire all’incontro fra De Gaulle e Adenauer il 21 gennaio 1963 e che potrebbe essere rivissuto nell’intesa fra Mitterand e Kohl negli anni Ottanta è ormai un riferimento che ha perso il suo appeal. Si è pensato che Angela Merkel potesse assumere un ruolo creativo e propulsivo in Europa ai tempi del suo coraggioso impegno per la vicenda dell’immigrazione siriana, ma il carisma della Cancelliera/Mutti si è rapidamente esaurito. Era sembrato che Macron avesse la capacità di resuscitare una leadership europea col suo discorso alla Sorbona nel novembre 2017, ma anche in questo caso si è trattato di un fuoco di paglia.
Ora il duo Macron-Merkel annuncia di avere in progetto la creazione di un qualcosa (commissione, gruppo di lavoro o come lo si vorrà chiamare) per rilanciare una riflessione su una riforma incisiva del sistema UE e per l’individuazione degli obiettivi fondamentali da affidare all’Unione. Non vorremmo che si riproponesse la triste vicenda che interessò, come abbiamo già ricordato, la Convenzione Europea (2002-2003) presieduta da Valéry Giscard d’Estaing con vicepresidenti Giuliano Amato e Jean-Luc Dehaene che aveva la grande ambizione di scrivere una costituzione europea e che produsse una enciclopedia di giuridicismi e fumisterie incapaci di suscitare qualsiasi passione politica.
Perché il problema fondamentale per l’Europa rimane quello classico di ogni fase fondativa dei sistemi politici: deve trovare leader che incarnino il progetto e idee che possano essere accolte da una cultura diffusa e diventarne patrimonio condiviso. Al momento non ci sembra si proceda verso queste mete, ma piuttosto si accetti di rincorrersi in un girotondo dietro ideologie e leadership che se non sono tutte vecchie, sono comunque tutte scialbe.
Note
Riferimenti bibliografici
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