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Ilaria Riccioni

Dinamiche sociali interetniche tra capitale sociale e capitale culturale

Inter-ethnic social dynamics between social capital and cultural capital

Abstract What are the conditions for the successful development of an inclusive civil society? All European cultures, including those of the nation-states, can call themselves “minority ­European cultures”, thereby none can reach a majority decision by itself. Consequently, there seems to be a pressing demand for the defense of minorities, where the fundamental ­problem is the degree of compatibility of the values underlying the various cultures. It should be remembered, however, that territorial dimensions are not an element to underestimate when it comes to social cohesion, recognition, community, and belonging. How does the ­environment and society affect an individual’s ability to act in a manner consistent with the community or, instead, create innovative actions within a multicultural context? How is migration changing the geopolitical and cultural balance of western systems of politics, ­culture and values? And how are the same flows of migrations impacting the balance of ­trilingualism in South Tyrol?

1. La funzione dei territori di confine

Ringrazio innanzitutto Günther Pallaver per avermi invitata a dare il mio contributo a questo importante convegno rivolto alle questioni che più stanno a cuore a questo territorio: l’autonomia, l’organizzazione dell’identità su basi differenziate rispetto al contesto nazionale, il riconoscimento della differenziazione, le prospettive future in relazione a quanto finora si è realizzato.

I territori di confine sono sempre zone di meticciamento, zone dove si realizza l’intreccio tra culture e, dunque, l’incontro tra differenze. Differenze linguistiche, differenze culturali, differenze normative. Questi territori, dunque, mostrano in maniera “pioneristica” o avanzata i problemi, o le risorse che si liberano nell’incontro delle diversità (Castelnuovo Frigessi, Risso 1982); questioni che la globalizzazione pone in maniera più estesa e forse capillare a tutto il pianeta oggi, e dunque, a tutte le culture. Di fatto, quella che era una realtà peculiare dei territori di confine è oggi la realtà condivisa da tutti i luoghi del pianeta in virtù di vari fattori che accelerano ovunque i flussi migratori. Le migrazioni da paesi “poveri” ai paesi maggiormente sviluppati sono state realtà in costante aumento dall’industrializzazione in poi, ma la migrazione di intere popolazioni, a cui si assiste oggi, riguarda flussi costanti e continuativi nel tempo di individui, potenziali lavoratori, spesso in fuga da zone di guerra o da aree sfruttate economicamente o anche da zone climaticamente divenute invivibili. Sono questi evidentemente parte di quei rischi ai quali il processo di modernizzazione ci ha esposto, senza però trovare risposte efficaci (Beck 1986). Quale che sia la causa di questi continui spostamenti di masse di persone e di vissuti, l’immigrazione pone un problema alle società occidentali contemporanee tecnicamente sviluppate, ma nello stesso tempo rappresenta anche una grande risorsa, perché porta energia, idee, forza lavoro a paesi oggettivamente demograficamente in ginocchio.

Ci sono molti aspetti che rendono complessa la gestione dell’immigrazione e tra le questioni principali coinvolte troviamo la necessità ineludibile di un ripensamento radicale dei territori stessi di accoglienza da un punto di vista geografico, politico e valoriale. Da un punto di vista geografico, nel caso europeo per esempio, il Mediterraneo è passato dall’incarnare il simbolo di ponte tra civiltà della Magna Grecia a quello di confine, o barriera, dunque è diventato un luogo politico allo stesso tempo di conflitto e solidarietà (Hanafi 2019, 2020); da un punto di vista politico, la politica della disinformazione sui rifugiati e immigrati incoraggia tendenze autoritarie e politiche di “Agnotologia” o ignoranza indotta (Proctor 2008). Un ulteriore aspetto fondamentale chiama in causa gli aspetti valoriali nella loro specificità religiosa, la più radicata forma di appartenenza ai valori che, con la massiccia presenza di rifugiati e migranti, trasforma il contesto religioso e valoriale delle società d’accoglienza e ne modifica la capacità di integrazione, favorendo, spesso, l’insorgenza di politiche identitarie. In questo senso, le politiche identitarie mostrano il lato oscuro del pluralismo culturale e religioso (Berger 2014). Un ulteriore aspetto è il fattore della crescente diseguaglianza che si realizza nella distribuzione della ricchezza, nelle forme di accesso alle risorse e in tutte le declinazioni che l’emergenza pandemica degli ultimi anni ha contribuito a rendere visibili e ad accelerare drammaticamente.

In questo panorama complesso la funzione dei territori di confine può rivelarsi prezioso ed esemplare: tutti quei contesti di integrazione virtuosa da tempo attivi sul fronte delle pratiche di inclusione e convivenza possono contribuire a dare risposte alle divisioni che affliggono il nostro tempo; ma va anche aggiunto che sono purtroppo poche le realtà che effettivamente hanno sviluppato un modello inclusivo consolidato che non sviluppi nevrosi collettive o sofferenze radicate, più o meno silenziose o apertamente conflittuali. Si sa che le pratiche spesso raccontano storie diverse da quelle presentate nelle narrazioni istituzionali.

Dalle osservazioni empiriche e anche dalle narrazioni di confine sappiamo che quando più culture coesistono in uno stesso spazio il problema di fondo è il grado di compatibilità dei valori sottostanti le diverse culture e la capacità reciproca tra i soggetti di creare esperienza condivisa. Inoltre, la narrazione dell’altro, la storia interiorizzata, che ne anticipa l’esperienza, è spesso una sorta di muro invisibile, una lente offuscata che non permette di vedere l’altro come individuo, ma solo come una rappresentazione simbolica elaborata in virtù di racconti vissuti da altri, in altre epoche e in presenza di altre condizioni, o anche in virtù di narrazioni collettive istituzionalizzate. In altre parole, l’altro, non sviluppa in noi la curiosità della diversità, bensì più spesso il rifiuto o la diffidenza a priori perché la stessa capacità di riconoscerlo è compromessa dalla narrazione collettiva dominante. Si tratta di una dinamica ­sociale complessa e da approfondire in quanto spesso viene vissuta in termini individuali, mentre di fatto affonda le sue radici nella costruzione collettiva dell’altro trasmessa attraverso la cultura, in maniera spesso inconsapevole, e che solo gli strumenti dell’osservazione delle dinamiche sociali, dei fattori in gioco in un processo di interrelazione tra soggetto, cultura ed istituzioni, può sondare nella sua interezza.

In questo senso, Axel Honneth propone di contrapporre al concetto economico di distribuzione della ricchezza, il concetto sociale di riconoscimento: sviluppando l’idea che una società si realizza non solo nella dinamica economica, ma, soprat­tutto, nella dinamica sociale che viene attivata tra gli attori sociali, la capacità di riconoscimento dell’altro, la sua realtà come soggetto di diritto ma anche di solidarietà. Secondo l’uso che Honneth fa di questo concetto, il riconoscimento può essere concepito sia come l’esigenza di rispetto per tutti i membri di una stessa comunità, sia come il bisogno ineludibile di comprendere la specificità dell’altro o anche la neces­sità di legittimazione delle minoranze culturali nel senso di una Politica del riconoscimento (Honneth 2019, 15). A cosa si deve rinunciare di sé per riconoscere l’altro e cosa implica questo processo? A cosa deve rinunciare necessariamente una società o una comunità, per riconoscere l’altro? Il riconoscimento implica un passaggio di crescita sia politico che sociale di una comunità.

Ed è questa la direzione nella quale si sviluppa il presente contributo al “Cinquantenario del Secondo Statuto di Autonomia e il futuro”, che si avvale di spunti e riflessioni nati dalla ricerca sul campo da me condotta negli ultimi 15 anni in Alto Adige, ricerche mirate alla comprensione delle dinamiche interne di questo territorio multi-lingue, multi culturale, ma paradossalmente affatto plurale, per provare a scorgere la cifra peculiare del territorio e le sue effettive ricadute sul ben­essere collettivo e sulle dinamiche di coesione. Quale tipo di convivenza si è assestata negli anni?

In questo senso, ci sono diversi elementi che vanno analizzati: il primo è il concetto di conoscenza e riconoscimento, appunto, e di come questi si manifestino sul territorio in forme collettive di comportamento. Di fatto, si riconosce ciò che già si conosce, dunque per riconoscere la diversità il primo passo è quello di mettere in discussione la struttura delle conoscenze di cui si dispone. E questo non può essere fatto senza interrogarsi sulla struttura valoriale e sul grado di apertura e accoglienza che ogni cultura concepisce. Un secondo aspetto implica che, per riconoscere l’altro, si debba partire da una posizione di uguaglianza, non si può riconoscere l’altro da una posizione di subalternità o superiorità. Terzo ed ultimo fattore, si può solo riconoscere ciò che già si conosce, come già detto, dunque: ciò che non si conosce non si può riconoscere se non si è fatto prima uno “sforzo” di ampliamento della conoscenza per riconoscerne le qualità specifiche. Passare dalla conoscenza visiva, estetica, alla conoscenza intima, delle qualità, delle dinamiche interne, della relazione.

Le relazioni rendono possibile le società e le dinamiche che si cristallizzano come forme reiterate di relazione, diventano consuetudini specifiche di un contesto e sono esattamente quelle che vanno osservate per comprendere la società.

In questo senso, nella prospettiva simmeliana, la società è esattamente la forma delle dinamiche, o la forma delle interazioni, che si vengono a cristallizzare in una data epoca, cultura e spazio sociale. Queste forme di relazione sono delle entità oggettive con una loro autonomia rispetto agli individui. All’interno di queste forme sociali non troviamo solo le relazioni in senso classico, ma anche la tipizzazione di relazioni con fenomeni sociali specifici e a diversi livelli, come il povero, lo straniero, l’emarginato. Per Simmel (1998) la generalizzazione di questi tipi è di fatto una forma sociale che rappresenta la tipica relazione a quel fenomeno che quella data società ha messo in atto. Quel tipo di struttura di riconoscimento a cui l’individuo viene socializzato sia nella famiglia che dalle istituzioni, che dai rapporti tra pari. Quindi, il riconoscimento è in ultima istanza, una forma di relazione all’altro che è parte della consuetudine collettiva, ovvero di quel capitale sociale che caratterizza le relazioni di una comunità.

Applicando questa riflessione teorica simmeliana al caso dell’autonomia altoatesina comprendiamo che le forme di relazione sono forme cristallizzate nel tempo ed elaborate in virtù di condizioni sociali specifiche. Tali forme cristallizzate sono forme necessarie per il raggiungimento della coesione sociale frutto delle abitudini collettive, ma al tempo stesso queste forme cristallizzate sono parte di una dinamica sociale che viene sfidata e potenzialmente modificata nel tempo da elementi nuovi. Queste potenziali sfide e modifiche alle cristallizzazioni culturali rappresentano la linfa vitale della vita collettiva e la sua stessa vitalità. Questa vitalità, dunque, è alimentata dai gruppi che Simmel definisce minoritari, i gruppi esterni alle maggioranze, e che rappresentano il potenziale innovativo e trasformativo per attivare quell’incrocio tra culture che è la cifra del nostro tempo attuale. Solo nello scambio, che diviene sinergia, fra culture differenti si può assistere ad un processo di trasformazione sociale su nuove basi, non più identitarie, che ravvivano conflitti irrisolti e irrisolvibili, ma sulle basi di una comunanza umana, che riconosce nell’altro la propria condizione e non la rappresentazione di un problema. Solo questa è la via del futuro e già i processi di globalizzazione dell’urgenza pandemica lo hanno mostrato in maniera potente.

Dalla sociologia classica ancora ci viene in soccorso un secondo concetto chiave: la società civile, ovvero quella rete di relazioni che esiste tra gli individui grazie alla prossimità, al vivere in comune, sullo stesso territorio e orientati dalle stesse dimensioni normative. L’uomo è per natura membro di una società – scrive Ferguson (1767, 16-18) – e all’interno di questa società tende a unirsi in gruppi; in questi gruppi i membri sono tra loro interdipendenti in virtù di una forma di solidarietà e organizzazione. Affinché il gruppo coesista, dunque, ci deve essere un bene superiore all’interesse personale che, secondo Ferguson, non è solo razionalmente calcolato sulla base di convenienze personali, infatti, aggiunge, gli individui “sono comunemente più attaccati dove queste convenienze sono meno frequenti” (Ferguson 1767, 16-18). 

Secondo Ferguson, quindi il gruppo è il luogo di formazione dell’individuo all’interno del quale egli sviluppa il senso della solidarietà, il senso di appartenenza e regola il comportamento in modo da entrare in rapporto con gli altri non solo in senso utilitaristico. In questo senso l’individuo sviluppa dei modelli di comportamento condizionati dal contesto culturale che appartengono al gruppo di riferimento. “Dall’affermazione dell’appartenenza dell’individuo alla comunità consegue che il bene pubblico è il principale oggetto degli individui, e insieme la felicità degli individui è il fine maggiore della società civile” (Ferguson 1767, 16-18). La società civile si presenta, allora, come un gruppo eterogeneo al suo interno, sia per dinamiche che per aspettative, e consiste nell’insieme di quella “fitta rete di rapporti, di amicizia e di interesse, molto sensibili alle condizioni locali specifiche“ (Ferguson 1767, 16-18) che si differenzia sia da quella politica che da quella religiosa. 

Nel passo Socialità e corruzione tratto dal Saggio sulla storia della società ­civile, Ferguson scrive: “la felicità dell’individuo consiste nel fare una giusta scelta del suo comportamento; (…) questa scelta lo porterà a smarrire nella società il senso di interesse personale e, nella considerazione di ciò che è dovuto al tutto, a reprimere quelle ansietà che si riferiscono a lui come parte” (Ferguson 1767, 16-18). 

Il concetto contemporaneo di società civile implica quindi una costituzione di rapporti, di rete sociale, che si pone come alternativa in dialogo con il potere istituzionale, condividendone il rispetto delle leggi, rivendicando i diritti che scaturiscono dalla cittadinanza, riconoscendo quelli che sono gli interessi della collettività, le esigenze soggettive e intersoggettive di una comunità per la crescita dei suoi membri, in altre parole per la cittadinanza attiva ma anche per sviluppare quel senso di appartenenza che emerge solo dalle pratiche e mai dalle norme esplicite. Non è però esente da conflitti che rappresentano invece il potenziale formativo nello sviluppo delle doti degli individui e nella formazione di quegli istituti che costituiscono la società civile. La finalità è il bene collettivo come conseguenza di una comunanza, per quanto parziale, di idee e obiettivi. Se trasferiamo queste riflessioni sulla realtà altoatesina vediamo che, sebbene il territorio abbia una forte struttura comunitaria, piuttosto che societaria, stenta a trovare una comunanza in quanto non si riconosce in un’appartenenza comune e condivisa, bensì in una serie di appartenenze plurali spesso tra loro in opposizione. E anche la capacità di concepire come bene comune il benes­sere collettivo è inibita dalla separazione in due, anzi tre, società quasi distinte: quella italiana, quella tedesca, quella ladina. Ciò che manca a questa comunità è la capacità di riconoscere la chiara interdipendenza che gli attori del territorio hanno tra loro proprio in virtù della differenziazione. Interdipendenza che, se riconosciuta, contribuirebbe al benessere collettivo. Nella città di Bolzano, ad esempio, la ricerca ha evidenziato che il concetto di appartenenza è immancabilmente pro­porzionale all’esito delle dinamiche oppositive presenti nel territorio, incidendo in maniera determinante anche sulle potenzialità di aggregazione del vissuto (cfr. ­Riccioni 2012). Il radicamento o il senso di appartenenza inteso come identità lo­cale presente nelle zone meno urbanizzate della Provincia è spesso assente nella ­città capoluogo proprio perché maggiormente mista di provenienze. Per altri versi, la condivisione, la convivenza non arriva a trasformarsi in appartenenza mista in quanto non c’è condivisione della storia, di vissuto, e la percezione della realtà cambia a seconda dei gruppi di frequentazione. Non si concepisce l’appartenenza alla società altoatesina nel suo complesso, ma solo una appartenenza etnica, dunque frammentata.

2. Convivenza o compresenza tra culture?

La cultura per essere florida, ha bisogno di essere in contatto profondo con le esigenze che la generano: essa emerge come risposta ad una profonda esigenza umana di auto-espressione e di identificazione legata ad una data epoca, una certa sensibilità e ad un luogo. Le diverse culture, quando vengono a contatto hanno due possibilità: o sviluppano una capacità di inter-comunicare, di interagire nelle e nonostante le differenze, partendo dal presupposto che ogni cultura risponde all’organizzazione di bisogni profondi di una popolazione e dunque è il portato di una strategia insieme di vissuto e di sopravvivenza; oppure, la seconda possibilità, è quella di uno scontro tra culture. Quando le culture non trovano strategie di interazione, in virtù di valori costitutivi radicalmente differenti o addirittura oppositivi, allora si verifica una impossibilità comunicativa che si trasforma in conflitto, più o meno manifesto.

Secondo gli studi di Michel Wieviorka sulla convivenza tra culture, nel contesto sociale globalizzato “le culture si compenetrano sempre più, senza dissolversi, e al tempo stesso le identità mutano, si mescolano, si fondono in base a molteplici processi al crocevia del locale e del planetario” (Wieviorka 2008, 15).

Quindi, la realtà della convivenza in un’epoca globalizzata determina, secondo Wieviorka, una necessaria strategia di adattamento tra le culture che divengono più permeabili in virtù delle diverse esigenze primarie di sopravvivenza e sussistenza a cui sono sottoposte: “è globale tutto ciò che risulta dall’intreccio, e non già dalla separazione, tra il dentro e il fuori, tra le logiche interne e le logiche esterne al contesto dello stato-nazione”. Un’altra prospettiva da tenere in considerazione è quella di Edward Said (1998) rispetto alla costruzione narrativa delle e tra le culture. Come esse siano definite dal rapporto che intercorre tra i paesi e le culture in questione e come le narrative contribuiscano a dare forma al pensare collettivo dell’alterità. Per Edward Said uno dei più ingombranti ostacoli alla possibilità di un’interazione paritaria tra culture risiede sostanzialmente nella visione eurocentrica della cultura e della civiltà occidentale.

La prospettiva di una costruzione di società multiculturali non può essere esente da una visione normativa, e secondo Jürgen Habermas una delle questioni principali che pre-esiste alla possibilità di convivenza pacifica tra culture risiede nella capacità di riconoscimento delle differenze nello stato di diritto. Ci sono forme culturali radicali che si pongono necessariamente contro ogni stato di diritto e la condizione di convivenza con queste culture diviene, più che una questione di rispetto delle diversità, un problema di protezione delle culture stesse che accolgono (Habermas/Taylor 2008). Quindi diventa un problema, più che di conflitto, di difesa delle culture e delle diversità culturali che sono anche manifestazione di un sistema normativo.

Come creare dialogo e interazione tra culture tra loro afferenti a strutture giuridiche liberali o fondamentaliste? Come si può creare tolleranza tra e verso interpretazioni del mondo che “attribuiscono esclusività ad una forma di vita privilegiata?” Questa interazione è allora controllata dall’uso che si fa del “riconoscimento” verso la cultura altra, anche in base allo stato di diritto di orientamento liberale del quale si è partecipi (Habermas/Taylor 2008). Quando più culture coesistono in uno stesso spazio pongono un problema di fondo ineludibile: qual è il grado di compatibilità dei valori sottostanti le diverse culture? Quanto questi stessi valori sono sensibili ai cambiamenti storici e al cambiamento delle necessità di adattamento dei territori o delle popolazioni? Quanta parte di questo portato valoriale viene trasformato dalle fasce di popolazione giovanili, e in quale direzione?

Un ultimo approccio alla diversità culturale è quello offerto dalle teorie di ­Ferrarotti che intravede una possibilità di coesistenza nella costruzione di co-tradizioni culturali tra culture diverse attraverso il dialogo (Ferrarotti 2019, 2003):

“la convivenza delle culture non è una opzione. È una necessità storica. Nella situazione odierna di uno sviluppo storico non più diacronico, bensì sincronico, la convivenza delle culture si lega al dilemma, crudele nella sua semplicità: dialogare o perire. In questo senso, non é un idillio. È in essenza problematica. (…) Il progresso è un processo incerto. Non è una fatalità cronologica. È esposto a regressioni paurose, allo scacco e al fallimento, verso la metà del secolo XX°, nel cuore di quella che si riteneva la sede della civiltà umana nella sua più alta e nobile espressione, si insedia il potere delirante di una barbarie inaudita, razionalmente organizzata come efficiente burocrazia e industria del delitto. Una lezione tremenda. Vivere significa ormai convivere. Interdipendiamo. Non è più possibile vincere. Si può solo convincere. Non si può più dominare. È inevitabile dialogare. Ma il dialogo […] è letteralmente, un ‘trapassarsi’, un corpo a corpo, a volte un duro, anche sgradevole, confronto” (Ferrarotti in Riccioni 2009, 123-124).

Un ulteriore aspetto da indagare nel processo di costruzione di una convivenza tra culture è quell’intrecciarsi tra capitale culturale e capitale sociale che sono ad un tempo interdipendenti e distintivi. I concetti di capitale sociale e di capitale culturale nell’accezione di Pierre Bourdieu rappresentano quell’accumulazione di capitale che di fatto compone la ricchezza non economica di una società e che ne costituisce un altro fattore di differenziazione tra gli individui su basi collettive. Sia il capitale culturale che il capitale sociale vanno a creare e consolidare le differenziazioni nella stratificazione sociale (Bourdieu 1996). Se applichiamo questo concetto alla Provincia autonoma di Bolzano, possiamo rilevare come la differenza culturale e ancora più linguistica sia di fatto una forma di stratificazione sociale che sostituisce la classe e che costituisce la base di discriminazioni tra differenziazione di opportunità o accesso sociale ed economico. Ma mentre nella teoria di Bourdieu la differenziazione culturale si trasforma nella distinzione del gusto e quindi in una riconoscibilità delle differenze di classe a partire dai gusti culturali, e viceversa, in questo caso è l’appartenenza stessa ad una cultura che diviene ostacolo ad alcune opportunità di merito nell’ambito della società, di cui la società stessa andrebbe a beneficiare. La stratificazione sociale sembra definirsi su basi sostanzialmente linguistiche, in quanto è tramite la conoscenza delle diverse lingue che si accede a posizioni più o meno riconosciute all’interno della società, ma la questione è ben più profonda. Una stratificazione sociale di classe, non più marxianamente collegata alla posizione all’interno del ciclo di produzione, che genera divario sociale tra classe dirigente e classe operaia, ma una stratificazione sociale a partire da segni di appartenenza quali la lingua, la terra, o peggio ancora, su base etnica, di cui il dialetto suditirolese è segno distintivo di riconoscimento, crea una barriera insanabile tra opportunità e di conseguenza influisce sui rapporti tra cittadini generando potenzialmente forme di risentimento, di rinuncia, o di cinico distacco che non possono oggettivamente essere trasformati in appartenenza o finanche adattamento positivo perché il patto sociale nasce ab origine viziato. La legalizzazione della discriminazione: un cittadino pleno jure e un cittadino con diritti dimidiati.

Va da se che questo tipo di perpetrazione della differenziazione sociale su basi ineguali incide necessariamente in maniera complessa e obliqua sulla coesione ­sociale, in quanto crea differenze su basi quasi naturali e non su potenzialità acquisite. Abitua ad una cittadinanza a diritti civili alternati. Una sorta di realtà sociale moderna che applica criteri di appartenenza pre-moderni e tipici delle società ­dell’eterno ieri.

La coesione sociale è di fatto un concetto cruciale nell’ambito di un discorso sul dialogo tra culture, ma è anche un termine altamente abusato e usato spesso a sproposito, soprattutto nelle società contemporanee che hanno criteri di coesione plurali e mutevoli.

Secondo Émile Durkheim (1970), la socializzazione dell’individuo alla vita cittadina avviene secondo delle dinamiche sociali riconoscibili solo quando si è in presenza di una convivenza effettiva, che possa vantare un numero di popolazione tale da giustificare una stratificazione sociale, un certo grado di diversità e scambio sociale. Al di là di queste coordinate, il tessuto sociale non raggiunge una forma e dà luogo piuttosto ad un certo grado di anomia, emarginazione sociale e solitudine, percepite in maniera esasperata. Nelle stesse metropoli, che vantano invece un centro, o vari centri, una densità di popolazione che permette lo sviluppo di luoghi di aggregazione di varia natura, si può assistere ad una dimensione vitale e ad un tessuto sociale, che, sebbene possa creare conflitti e diversità, può però dare maggiori motivazioni e senso di appartenenza che non una comunità troppo esigua o che, a causa delle dimensioni ridotte, non lascia spazio alla diversità sociale, elemento base per la costruzione di un tessuto sociale di appartenenza e al senso di coesione di una comunità.

Dunque è fondamentale capire come cambia il concetto di coesione sociale in un ambito multiculturale, come incidono le istituzioni e la differenziazione sociale nel processo di costruzione di questa coesione e quanto la separazione tra culture non sia, alla lunga e oltre il dovuto, un fattore negativo di perdita dell’intero territorio in termini di fallimento delle dinamiche interne di coesione e riconoscimento, che sfociano in mancanza di collaborazione, in istituzioni schizofreniche, in forme di incapacità di vedersi parte di un mondo più ampio e dunque coinvolti nelle stesse dinamiche collettive e di mutamento. Inoltre, il processo di globalizzazione trasforma il concetto di coesione sociale nel concetto di networking o comunque collegamento reticolare, forma di connessione che va a scombinare il piano della modernità circa i processi di costituzione della realtà collettiva. Ma va a scombinare anche i piani di separazione tra culture.

Gli approcci recenti della sociologia come dell’antropologia culturale si con­frontano oggi con un nuovo mutamento che investe le società contemporanee: dal concetto di modernità che implicava una stabilità collettiva sostanziale, alla tarda ­modernità così come viene teorizzata da Giddens, o post-modernità, con Bauman, Castells, Harvey, Beck e altri, che definisce uno scenario sociale completamente mutato e descrive gli effetti dell’interdipendenza globale e del consumismo sulla vita e i sistemi sociali. Le suggestioni di Foucault (1966) contribuiscono allo sviluppo di una lettura critica strutturale a partire dal concetto di episteme. In Foucault si intravede un ulteriore significato di conoscenza, che rivela un vincolo fondamentale con il potere normativo. Attraverso l’ordinamento gerarchico della conoscenza si definisce anche il controllo sociale, stabilendo così ciò che può essere incluso da ciò che deve essere escluso a partire dalle regole del gioco stabilite dall’episteme dominante.

La cultura è un codice di ordinamento dell’esperienza umana sotto un triplice rapporto: linguistico, percettivo, pratico. Il mutamento di questo ordine, nel senso anche di mutamento sociale, per Foucault, è collegato alla lingua e al suo episteme.

Guardando all’unificazione europea, un processo di integrazione culturale di tale portata è certamente un vantaggio dal punto di vista della strutturazione di un sistema di stati interdipendenti, che lo rende più coeso rispetto ad entità simili concorrenti, con un’organizzazione più efficiente e razionalizzata rispetto a problematiche condivise (come quelle ambientali, ad esempio). Ma se costituisse una perdita di diversità, ciò renderebbe l’entità più debole in caso di perturbazioni contestuali importanti, da qualunque parte esse arrivino.

Nel modello sistemico, il mutamento sociale è inteso come il cambiamento che si verifica all’interno del sistema sociale o che investe quest’ultimo nella sua globalità implicando la temporalità, la durata nel tempo di questi mutamenti.

Nel modello alternativo rispetto a quello sistemico, la società non è più vista come un sistema rigido, piuttosto come un campo di relazioni ‘fluido’. La realtà sociale è una realtà interindividuale, ovvero il legame tra individui: una rete di vincoli, legami, scambi, rapporti di dipendenza, di utilità e necessità, nonché di fedeltà. Una rete, appunto.

In altri termini, si tratta di uno specifico tessuto o struttura sociale che unisce gli individui. Questo campo interindividuale è costantemente in movimento: si espande e si contrae (ad esempio quando gli individui si uniscono o si separano), si rafforza e si indebolisce (quando cambia la qualità dei rapporti e si passa ad esempio dalla semplice conoscenza all’amicizia, dall’amore all’odio), si amalgama e si disintegra (ad esempio all’apparire o al dissolversi di una leadership), si mescola o si separa da altri segmenti del campo (ad esempio quando compaiono coalizioni o federazioni, o si verificano secessioni).

Nella società contemporanea le entità rigide sono sostanzialmente illusorie: esistono ad esempio costanti processi di aggruppamento e ri-aggruppamento, piuttosto che strutture stabili denominate gruppi; processi di organizzazione e riorganizzazione piuttosto che organizzazioni stabili; processi di ‘strutturazione’ (Giddens 1994) piuttosto che strutture; processi di formazione piuttosto che forme; ‘figurazioni’ fluttuanti (v. Elias 1939) piuttosto che schemi rigidi.

Il mutamento sociale è la differenza tra eventi distinti sul piano temporale che si verificano all’interno di uno stesso campo socioculturale. E ancora, ancor più nella dinamica globale contemporanea che include anche le forme della cultura, nessuna cultura può presumere di auto-alimentarsi senza essere condannata all’aridità e alla sterilità.

Nel caso specifico di una cultura plurale, sebbene frutto di una spartizione storico-politica, ci si chiede se la regolamentazione normativa delle dinamiche etniche possa rappresentare un criterio ancora sostenibile di differenziazione in un “modello di convivenza” all’interno di una società globalizzata. Lo stato di diritto a quale variabile di appartenenza viene vincolato? In una società globalizzata caratterizzata da flussi migratori, chi può dirsi padrone di un territorio senza creare divisioni e ­focolai di ribellione: i diritti umani sono vincolati all’appartenenza ad un territorio o sono frutto di un riconoscimento di una condizione comune, che in una società globalizzata trova completa realizzazione?

Dalle ricerche sul campo emerge che la differenziazione e la difesa a tutti i costi di una separazione tra le lingue ingenera forme di disagio che incidono sugli individui a più livelli e in maniera diversa secondo i gruppi di appartenenza linguistica. Dunque sulla comunità nel suo complesso, ostacolando forme di coesione e creando di fatto una parete invisibile tra i vissuti delle diverse parti.

Se la cultura, invece di attuare una logica di “ibridazione”, predilige quella della “conservazione”, i potenziali risultati possono essere:

a) problemi di inclusione innanzitutto in termini di relazioni sul territorio;

b) allontanamento delle giovani generazioni;

c) alimentazione di un sostanziale disinteresse per il piano culturale frammentato e inappetenza sociale in termini di partecipazione;

d) spiccata resistenza al cambiamento, immobilismo sociale e ostilità per l’innovazione sociale.

e) Frizioni tra gli appartenenti a gruppi linguistici diversi possono essere il frutto della conseguente “costruzione” dell’identità come minoritaria e dunque che rivendica una protezione rispetto ad una cultura dominante.

Dalle ricerche condotte su territori di confine normati come l’Alto Adige sono emerse diversità pregiudiziali, dunque non realmente frutto di esperienze relazionali effettive ma frutto di socializzazione tramandata. Nel vissuto, l’esperienza dell’altro assume spesso una connotazione di astrazione in virtù della narrazione tramandata e l’altro è assimilato al gruppo di appartenenza, dunque anche alle realtà pregiudiziali di riferimento. La lingua diviene “confine” di separazione tra i gruppi: il dialetto la lingua di appartenenza e barriera invisibile per l’esclusione dell’altro.

3. Il gioco alternato delle minoranze

Nelle ricerche sviluppate sul territorio nell’ultimo decennio, quale che fosse il focus della ricerca, emerge chiaramente che il concetto di minoranza è trasversale a tutte, per questioni territoriali specifiche e assume dei contorni complessi. Si pone in stretta relazione con il concetto di società civile, che può preesistere alle istituzioni, e s’intreccia con il concetto di cultura/e, inoltre, varia a seconda che sia in relazione con una comunità o con una società. 

Nel territorio altoatesino quando si parla di minoranza si intendono le minoranze sudtirolesi e ladine, ma in realtà, come già evidenziato in saggi precedenti, la minoranza in Alto Adige non è, di fatto, sempre assimilabile alla lingua parlata. Ciò che crea la discriminante tra minoranze è piuttosto la cultura. Non si è creata sul territorio una cultura mista e la divisione tra culture è ad oggi ancora una realtà quotidianamente vissuta (Riccioni 2022, 2016, 2012, 2009, 2008); di fatto la distinzione riguarda soprattutto la differenza tra etnie, prima ancora che tra culture. In questo senso si determina una discreta difficoltà a sviluppare una coscienza critica, posizioni di reale apertura all’altro, qualsiasi sia il suo ruolo o appartenenza, e un terzo aspetto, ma non di minore importanza, la dimensione provinciale del fenomeno tende a esasperare qualsiasi posizione, sia intellettuale che artistica o culturale. In altre parole il territorio non è abbastanza grande per creare quel distacco necessario dalle posizioni diverse, siano esse culturali, politiche, sociali o storiche e, dunque, crea una fatale miscela tra provincialismo, tradizionalismo e paura della diversità. Ciò può operare da fattore frenante per lo sviluppo della libertà di opinione, della possibilità di collaborazione su tematiche storiche di rilievo, o su aspetti sociologici critici, scarsamente accettati e riconosciuti come inciampo allo sviluppo. 

La questione fondamentale del territorio sembra risiedere, dunque, nella sua estrema rivendicazione dell’autonomia, che diviene facilmente perdita di contatto con il passato, quello più recente, dimenticando la complessità dei processi di autonomizzazione e le tante interdipendenze che ha avuto storicamente e che continua ad avere, non permettendo l’operare di una reale coscienza critica, ed enfatizzando, spesso in maniera ideologica, i legami con un passato traumatico senza contestualizzarlo ad una parte di secolo che è storicamente traumatica per la popolazione europea e mondiale tout court. D’altronde, la costruzione sociale della realtà altoatesina come caso non paragonabile, unico, dunque in qualche modo realtà a sé, è di fatto un’autocondanna a non poter avere riferimenti reali, tende a confinare le dinamiche di questo territorio in una rappresentazione di sé che la congela nel tempo, nonostante da un punto di vista economico sia aperta a realtà molto più avanzate che in altri contesti nazionali.

Lasciando, così, la società civile in uno sterile discorso senza futuro di appar­tenenze separate che, vediamo proprio in questi giorni, genera solo manie di grandezza e tanta sofferenza. Un luogo che non accetta il riconoscimento dell’altro, ­presentandosi come luogo altro ma, nel bel mezzo di società, quella italiana e quella europea, da cui evidentemente interdipende pur nella loro imperfezione, di cui anch’esso infine è parte. 

4. Considerazioni conclusive

L’immigrazione riorganizza inizialmente i processi di identità e dei confini come discorso politico e sociale. Facilita lo sviluppo di identità fluttuanti e la riconfigurazione del concetto di alterità, nelle società contemporanee, è sempre più diffusa la condizione di convivenza tra le culture, essendo questa la forma culturale cui il processo di globalizzazione da’ spazio. Anche i processi identitari basati su polarità oppositive come nella situazione altoatesina, dove la differenziazione è strutturata in un sistema normato di differenziazioni etniche, subiscono con la logica della globalizzazione una necessaria spinta alla trasformazione. Proprio in virtù delle ricon­figurazioni delle geografie interne e degli intrecci culturali globali in mutamento i concetti di assimilazione e integrazione emergono come strategie politiche o culturali affinché queste differenze possano convivere, ma al tempo stesso devono poter attivare forme di acculturazione ed apertura alla diversità tali da non cristallizzare le posizioni in opposizioni culturali.

Lo stesso concetto di integrazione non vuol dire assimilazione forzata, bensì un processo di riconoscimento dell’interdipendenza. Ciononostante, la differenza tra le culture è la cifra dell’unione democratica, basti guardare alla comunità europea, e non va dimenticato che proprio nella sua diversità, di lingue e culture, risiede sia la sua complessità che la sua forza, nella capacità di convivenza nella diversità. Un aspetto determinante, spesso tralasciato, è che nella costruzione delle relazioni e delle comunità, l’elemento della diversità è solo un elemento che va sempre accompagnato a quello della comunanza. Ovvero, se in un gruppo metteremo in risalto solo la diversità, sarà difficile trovare punti di accordo, l’accordo e la comunicazione avvengono solo se troviamo aspetti comuni, che ci facciano esperire l’altro come parte di noi. Dunque, pur nel riconoscimento della diversità, il processo non ha da essere polarizzante, piuttosto ha da orientare l’obiettivo finale delle relazioni e regolamentazioni della comunità verso una valorizzazione delle comunanze piuttosto che delle differenze. Se il processo di convivenza altoatesino ha sino ad ora ribadito, anche in termini normativi, il rispetto della diversità per garantire una forma di convivenza su basi egualitarie, queste stesse basi si corrompono se non si aggiunge anche una pars costruens necessaria ad ogni costruzione di pace: l’idea di interdipendenza. Cambiando la prospettiva verso un concetto di interdipendenza con l’altro, si apre alla potenzialità positiva di scambio, di confronto, che conserva il rispetto della diversità trasformandolo in una convivenza reale e potenziata dalla diversità.

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