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Francesco Palermo

Autonomia e tutela delle minoranze: concetti separati e “conviventi”

Autonomy and Minority Protection: connected, yet separate concept

Abstract The paper points out the theoretical and practical flaws that might originate from mixing up the concepts of autonomy and minority protection, as is frequently the case in South Tyrol and elsewhere. The two concepts are inherently linked per se, and in some cases they are even interdependent, like in South Tyrol, where territorial autonomy is functional to minority protection. However, they are legally two very different instruments, designed for different purposes and work according to a different logic: autonomy is primarily based on the majority principle, while minority protection usually implies a derogation from the majority principle. A more conscious use of the two terms, in the awareness of both their different purposes and their overlaps, might help better develop the potential of both.

1. Concetti, mosaici e letture politiche

Non è raro che la confusione concettuale produca conseguenze anche sul piano normativo. Un po’ come la superficialità della diagnosi può portare a terapie sbagliate. Nella vicenda altoatesina, e nel dibattito politico e accademico intorno ad essa e alla sua evoluzione, ricorre con frequenza la commistione tra i concetti di autonomia e di tutela delle minoranze. Si tratta di due pilastri inscindibili del “modello” (per tutti Marko 2007; cfr. anche Ferrandi/Palermo 2022) su cui si basa l’intero impianto statutario, e prima ancora la sua garanzia internazionale fondata nell’accordo De Gasperi-Gruber del 1946, che tuttavia occorre vedere anche nella loro diversità di funzione per poter analizzare in modo più nitido i diversi tasselli di cui il sistema è composto.

Come un mosaico, infatti, il “modello” altoatesino è composto di numerose tessere, di carattere sociale, politico, storico, culturale, economico, geografico, ed altro. Una parte assai consistente di questo mosaico è data dall’elemento giuridico, giacché come noto la costruzione della tolleranza, e conseguentemente della fiducia reciproca tra i gruppi linguistici, è stata fondata su un articolato intreccio di norme (Woelk et al. 2007), al fine di consentire a ciascuno (singoli o gruppi) di poter contare su una rete di sicurezza, un fitto intreccio di norme, in caso di tentata violazione dei diritti di uguaglianza degli individui e dei gruppi, come indicativamente ricordato fin dalla disposizione di apertura dello Statuto di autonomia, l’articolo 2, ai sensi del quale “nella regione è riconosciuta parità di diritti ai cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, e sono salvaguardate le rispettive caratteristiche etniche e culturali”.

Naturalmente, l’immagine del mosaico si può vedere nella sua completezza solo osservando l’effetto complessivo dato dalla somma delle tessere, e dunque, per quanto riguarda il pur non esaustivo ambito giuridico e istituzionale, guardando sia quelle relative alla tutela delle minoranze, sia quelle che disciplinano l’autonomia. Ciascun gruppo di norme, preso da solo, avrebbe poco senso. Ma ciò non può impedire di notare il diverso colore e la diversa fattura delle tessere di un tipo e quelle di un altro, soprattutto a chi il mosaico non si limita a guardarlo, ma deve occuparsi di mantenerlo integro, anche, laddove necessario, ripulendo, riparando, talvolta persino sostituendo i pezzi lesionati.

Come si vedrà, le ragioni che possono indurre a confondere i piani sono numerose e tutt’altro che trascurabili, e non hanno a che fare solo con vicende endogene, legate alla peculiare esperienza sudtirolese, ma si sommano con motivazioni derivanti dall’analisi accademica e dalla (talvolta eccessiva) specializzazione dei tecnici della materia. Il presente contributo intende portare alla luce ragioni ed effetti di questa confusione di piani. La finalità è doppia: da un lato, provare a fornire un ­minimo spunto al dibattito sui temi delle autonomie e delle minoranze, non solo nell’ambito della Provincia autonoma di Bolzano; dall’altro, provare a superare la conseguente dicotomia di categorie politiche che vengono utilizzate nel dibattito ­locale, in particolare quella tra “autonomia etnica” e “autonomia territoriale”. Queste categorie sono infatti frequentemente utilizzate con un forte sottinteso politico: sostenendo la natura “etnica” dell’autonomia e dunque sottolineando la funzione originaria dell’autonomia speciale di questo territorio, si implica, più o meno con­sapevolmente, una sorta di gerarchia tra i gruppi, una quasi proprietà originaria del territorio in capo alle minoranze tedesca e ladina e, nella versione più “spinta”, la titolarità di questi gruppi sull’autonomia e la sua gestione, con il conseguente inquadramento degli “altri” gruppi, a partire da quello italiano, in posizione certamente tollerata, ma subordinata. Per contro, chi sottolinea la natura “territoriale” dell’autonomia propone una visione opposta, quella per cui l’autonomia è attribuita a un territorio nel quale convivono popolazioni diverse, tutte sullo stesso piano e con la stessa dignità, non solo giuridica (questa è evidentemente garantita dalla Costituzione e dallo statuto, a partire dal menzionato articolo 2), ma anche storica e politica.

Come si vedrà, si tratta però di un dibattito mal posto. Entrambe le dimensioni coesistono nel mosaico, e sottolinearne l’una o l’altra già sbilancia il dibattito e rende più difficile e più rischioso l’intervento manutentivo sul complesso sistema di norme che regolano sia l’autonomia sia la tutela delle minoranze. L’obiettivo della riflessione è ragionare intorno ai due concetti, ai loro punti comuni e a ciò che li distingue, per cogliere a pieno le opportunità di una trattazione separata anziché coincidente.

2. Le ragioni di una sovrapposizione di piani

Una prima ragione di questa confusione di piani, per quanto sia in ordine di tempo l’ultima ad essersi affermata, è stata già menzionata: il sottinteso politico legato all’utilizzo di un solo concetto. Quando si parla di autonomia intendendo anche la tutela delle minoranze è inevitabile che le preferenze politiche di chi utilizza il termine facciano propendere per una lettura più etnica o più civica del modello di auto­governo istituito dallo statuto.

2.1. Il piano storico e quello costituzionale

Ma ci sono anche ragioni più risalenti, e per questo forse più difficili da sbrogliare. Una riguarda la distinzione tra il piano storico e quello costituzionale. È noto e incontrovertibile che l’autonomia dell’Alto Adige sia nata a scopo “etnico”. In altre e più precise parole, l’autonomia è stata concessa a un gruppo (quello di lingua tedesca, l’unico menzionato nell’accordo internazionale che è alla base dello Statuto di autonomia), e la dimensione territoriale è stato lo strumento utilizzato a tal fine, la declinazione che a tale tutela è stata fornita. Si sarebbero potute utilizzare altre tecniche, a partire dall’autonomia personale (peraltro presente in alcuni punti dello Statuto),1 ma si è scelta l’opzione territoriale perché più efficace, almeno in presenza di una minoranza nazionale che sia maggioranza sul territorio di insediamento,2 e perché più consona al modello costituzionale che andava prendendo forma nella fase postbellica, improntato a una concezione civica della cittadinanza, sulla scorta dell’eredità franco-piemontese. Il testo dell’accordo De Gasperi-Gruber è inequivocabile, indicando dapprima (punto 1) che il suo obiettivo è assicurare agli “abitanti di lingua tedesca della provincia di Bolzano […] completa eguaglianza di diritti rispetto agli abitanti di lingua italiana”, attraverso “disposizioni speciali destinate a salvaguardare il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca”, e poi, al punto 2, stabilendo perfino che “alle popolazioni delle zone sopraddette sarà concesso l’esercizio di un potere legislativo ed esecutivo autonomo, nell’ambito delle zone stesse”. Pertanto il potere legislativo ed esecutivo (l’autonomia) è concesso alla popolazione, non al territorio, con l’unico limite territoriale derivante dalle zone di insediamento, ad escludere così un’autonomia personale sull’intero territorio dello Stato. La popolazione (dunque la minoranza di lingua tedesca, cui si è aggiunta, in via interpretativa e poi in via statutaria, quella ladina) è dunque titolare dell’autonomia (Potier 2001), che è lo strumento per la tutela dei suoi diritti, nella misura in cui ciò sia necessario per garantire la completa uguaglianza di diritti rispetto agli abitanti di lingua italiana. In chiave storica, insomma, c’è prima la tutela delle minoranze, poi l’autonomia come strumento ancillare ad essa.

La prospettiva giuridica è parzialmente diversa. Ferma la radice “etnica”, cui comunque è necessario doversi riferire a fini interpretativi, lo statuto disciplina sia (e primariamente) l’organizzazione dell’autonomia del territorio (le competenze, le istituzioni, le procedure), sia i diritti legati specificamente ai gruppi. In questa prospettiva non rilevano tanto le minoranze, quanto i gruppi statutariamente riconosciuti, compreso quindi quello di lingua italiana. Lo statuto, infatti, non menziona quasi mai le minoranze. Lo fa solo in due articoli: il 4, in cui si richiama “la tutela delle minoranze linguistiche” come parte degli interessi nazionali, così legando lo statuto all’articolo 6 della Costituzione e utilizzando la tutela delle minoranze come controlimite al limite degli interessi nazionali quale vincolo alla potestà legislativa primaria di (Regione e) Province; e il 98, in cui si prevede che il Presidente (della Regione o) della Provincia può impugnare leggi e atti aventi forza di legge dello Stato, previa deliberazione del rispettivo consiglio, per violazione dello Statuto (e fin qui nulla di diverso rispetto a quanto previsto in tutti gli altri statuti regionali) “o del principio di tutela delle minoranze linguistiche tedesca e ladina”. Si tratta in tutta evidenza di una norma speciale e aggiuntiva, che consente di utilizzare lo spirito di una disposizione legislativa nazionale come criterio di impugnazione. Se una legge nazionale, pur non ponendosi in diretta violazione dello Statuto (in cui sono contenute le norme a tutela delle posizioni dei gruppi, quindi anche di quello italiano), ha lo scopo o anche solo l’effetto di violare il principio (dunque non necessariamente singole disposizioni) di tutela delle due minoranze linguistiche tedesca e ladina (quindi in questo caso non le norme valide per tutti i gruppi, o tali norme se producono un effetto discriminatorio solo nei confronti delle due minoranze), allora contro di essa è ammesso il ricorso di costituzionalità in via principale da parte della (Regione o) Provincia.3

Tutte le altre disposizioni statutarie che riguardano i diritti di minoranza, come i diritti linguistici, quelli all’istruzione, la rappresentanza negli organi elettivi e nelle amministrazioni, ecc., valgono per tutti e tre i gruppi linguistici riconosciuti. In altre parole, lo statuto contiene norme che disciplinano l’autonomia territoriale, altre che regolano i diritti dei gruppi, e pochissime4 specificamente dedicate alla tutela delle minoranze in senso stretto.

Come ricordato, non si possono leggere le disposizioni statutarie al di fuori del contesto storico e ancor più teleologico in cui vanno inquadrate, quindi non si può dimenticare che tutto l’apparato normativo nasce con finalità di tutela della minoranza tedesca (e ladina). E tuttavia, quando si aumenta la precisione del microscopio, non si può non vedere che si tratta di materiale giuridico diverso. Materiali tutti necessari a costruire lo strumento, ma non per questo si tratta del medesimo materiale.

2.2 Il piano della ricerca: autonomia per o autonomia di

Il legame tra etnia e territorio è molto esplorato in letteratura, per quanto assai più frequentemente nella prospettiva del diritto delle minoranze rispetto a quella del fede­ralismo e del diritto delle autonomie (tra le poche eccezioni Agranoff 1999; Tarr et al. 2004; Nicolini et al. 2015). Ciò si deve soprattutto alla necessità di comprendere le specificità che i territori di insediamento di minoranze assumono grazie alla presenza di tali minoranze, mentre gli studi federali tendono più frequentemente ad occuparsi delle strutture, che, specie negli ordinamenti federali più “classici”, sono indipendenti dalla composizione della popolazione nei diversi territori. Tuttavia, anche in questo caso una prospettiva distorta, che tenda a vedere solo una delle sfaccettature, rischia di produrre diagnosi parziali e terapie tendenzialmente incomplete.

In particolare, non può dimenticarsi che il territorio, come ambito spaziale di applicazione di norme, è sempre il fattore determinante per l’identificazione di minoranze. Com’è stato opportunamente ricordato, infatti, “le minoranze, in quanto tali, non esistono […]. Un gruppo sociale può essere immaginato trasformarsi in minoranza nel momento in cui, sulla base di un elemento di riferimento comune e unitario, entra in relazione con un altro gruppo il quale […] viene a costituire la maggioranza” in un dato territorio (Toniatti 1994, 283). Sono il territorio e i fattori identitari riconosciuti come rilevanti, quali la lingua o la religione, a determinare l’esistenza di una maggioranza e di una minoranza. Una minoranza è data dalla somma di fattori quantitativi (numerici) e qualitativi (posizione non dominante), coniugati al riconoscimento giuridico del fattore differenziale (lingua, religione, ecc.), e riferiti ad un determinato ambito territoriale. Poiché anche il mondo intero è un limite territoriale, la tutela delle minoranze, anche quella di tipo non-territoriale, presuppone comunque un ambito territoriale per il riconoscimento di diritti (Andeva 2013).

Evidentemente, tuttavia, esistono approcci molto diversi nel disciplinare il rapporto tra minoranze e territorio, che variano per natura e intensità,5 lungo una scala che va dalla massima enfasi del fattore etnico (si pensi ai casi di federalismo etnico (Fessha 2012) come l’Etiopia o la Bosnia, o di autonomia etnica, come le isole nordiche, ma anche a quelli fondati sul principio territoriale come la Svizzera6 e il Belgio, che disciplinano in via normativa la coincidenza tra etnia e territorio, stabilendo ad es. un’unica lingua ufficiale in un dato ente substatale) fino al cosiddetto naziona­lismo civico (per tutti Ignatieff 1994), per quanto in questo contesto il ricorso alla terminologia del nazionalismo possa risultare fuorviante.7 Ciò che conta ai fini di questa analisi, tuttavia, è che il legame tra etnicità e territorio può essere più o meno intenso, in termini non solo storici ma anche giuridici, ma in ogni caso gli strumenti giuridici per la tutela delle minoranze sono comunque tutti territoriali, sia perché sono applicabili solo in un territorio specifico, sia perché conferiscono ai gruppi mino­ritari alcuni poteri di autogoverno in quel dato territorio.8

Il legame tra gruppi e territori mostra il grado di interiorizzazione del rapporto proprietario, a partire dalle denominazioni dei luoghi, tanto che spesso è nei fatti difficile accertare se il nome di un luogo derivi da quello della popolazione che lo abita o se al contrario sia il gruppo a prendere il nome dal territorio di provenienza.9 Il para­digma implicito alla base delle considerazioni su tale legame, paradigma che poi influenza anche le norme in tema di autonomia e di tutela delle minoranze, è quello per cui i territori sono “proprietà” di un gruppo, e la storia dell’umanità è costellata di guerre e conflitti tra gruppi per la proprietà di territori. Questo approccio caratterizza anche le dinamiche dell’autonomia, e certamente le ha caratterizzate nel contesto dell’Alto Adige: l’autonomia è concessa a popolazioni, attribuendo loro il controllo su un determinato territorio, controllo limitato da regole costituzionali ma comunque modellato sul paradigma della statualità (popolo, territorio, sovranità). In definitiva, quindi, il paradigma implicito del rapporto tra gruppi e territori è sempre etnico, per quanto con gradi di intensità diversi, e quando viene concessa l’autonomia, questa è intesa come autonomia per un gruppo piuttosto che di un territorio, anche quando si tratta di autonomia territoriale10 e l’approccio è civico più che etnico (Weller 2010). Questo spiega perché il tema del rapporto tra gruppi e territori sia in prevalenza oggetto di osservazione degli studiosi dei gruppi più che di quelli dei territori.

3. Le conseguenze dello sfasamento dei piani

3.1 Minoranze e principio di maggioranza

Ci sono insomma molte buone ragioni per mescolare i piani dell’autonomia e della tutela delle minoranze e in parte, come si è detto, tale mescolamento è non solo necessario ma anche concettualmente inevitabile. Si tratta di due concetti “conviventi” (e mai come nel caso dell’Alto Adige il termine risulta appropriato), anche se a seconda dei contesti si tratta di una convivenza più o meno stretta. Ciò, tuttavia, non può indurre a ritenere che il conferimento di poteri di autogoverno in un territorio ad un gruppo esaurisca l’ambito dell’autonomia. Anzi, una coincidenza tra autonomia e tutela delle minoranze può risultare controproducente per la causa del pieno sviluppo dei diritti delle minoranze, specie se si tratta di una sovrapposizione implicita e non meditata.

In primo luogo, infatti, questa sovrapposizione rischia di limitare il potenziale della gestione delle diversità in società complesse, perché porta a replicare i paradigmi proprietari degli stati nazionali in contesti più piccoli. E ciò in un’epoca in cui l’omogeneità presupposta dalla teoria dello stato-nazione risulta una finzione ancora più stridente di quanto già non lo fosse ai tempi della sua affermazione. La territorialità come forma di controllo (più o meno assoluto) di un gruppo su un territorio è, oggi, una soluzione troppo semplice per un fenomeno di crescente complessità, ­anche perché è praticamente impossibile identificare un territorio autonomo senza creare nuove minoranze al suo interno (Chouinard 2014, 144). In altre parole, se lo stato-nazione era una premeditata (e tragica) finzione nel XIX secolo, lo è in misura assai maggiore la regione-nazione nel XXI secolo.

La logica dell’autonomia territoriale come strumento per la tutela di minoranze è infatti trasformare le minoranze in maggioranze (o almeno in minoranze assai più consistenti) all’interno di un territorio. In questo modo, la volontà del territorio autonomo, espressa secondo il principio maggioritario, viene a coincidere, di norma, con la volontà della maggioranza di quel territorio. Una soluzione che in alcuni casi paga e in altri no (Cedermann et al. 2015; per la casistica cfr. Weller 2009; O’Leary/McGarry 2012; Tarr et al. 2004; Ghai 2000), ma che comunque mantiene un indubbio duplice vantaggio: da un lato rappresenta una valida alternativa all’autodeter­minazione esterna ed è dunque vista come una possibile salvaguardia dell’integrità territoriale degli stati;11 dall’altro, e ancor più importante, consente di non dover derogare alla regola base dei processi deliberativi classici, la decisione a maggioranza. Poiché la decisione a maggioranza è uno dei capisaldi della tradizione giuridica occidentale, l’autonomia per un gruppo consente di fornire una tutela senza dover ricorrere in modo strutturale alla previsione di numerosi e complessi strumenti per il trattamento differenziato dei gruppi in ragione delle loro caratteristiche differenziali (etniche, linguistiche, religiose, culturali, ecc.). E quando queste regole si rendono necessarie (si pensi alle varie forme di power sharing a livello territoriale, molte delle quali previste anche nell’ordinamento della Provincia autonoma di Bolzano),12 si tratta comunque di regole eccezionali, circoscritte e di stretta interpretazione, come visto sopra per il caso dell’Alto Adige. Attraverso l’utilizzo dell’autonomia come strumento di tutela per un gruppo, in definitiva, si pongono paradossalmente le basi per contraddire la stessa natura dei diritti delle minoranze, che è quella di un diritto differenziale, cercando di trasformare le minoranze in maggioranze ed applicando loro il principio maggioritario.

In secondo luogo, anche laddove lo strumento dell’autonomia territoriale funzioni al fine di garantire la tutela delle minoranze (e indubbiamente l’Alto Adige rappresenta uno di questi casi, per quanto il modello sia decisamente più articolato rispetto alla mera autonomia territoriale), si tratta di una soluzione adatta solo a un numero piuttosto ridotto di minoranze, quelle che soddisfano criteri molto specifici, a partire dalla compattezza territoriale (e politica). Per gli altri fattori di diversità, che rappresentano le maggiori sfide per il diritto delle differenze, si tratta di uno strumento poco adatto. In altre parole, l’autonomia territoriale per le minoranze fa certamente parte dello strumentario del diritto delle differenze ma, diversamenta da quanto si potrebbe essere portati a credere, ne rappresenta un elemento tutto sommato marginale. Perché il diritto delle differenze richiede strumenti differenziali, che deroghino al principio di maggioranza, per gestire fattori di diversità non territorialmente ancorati, come le minoranze religiose, di genere, prodotte dall’immigrazione, ed altre (Giorda/Mastromarino 2020).

3.2 Autonomia oltre le minoranze a beneficio delle minoranze

Il secondo profilo che deve invitare a considerare distinti i piani dell’autonomia e della tutela delle minoranze è la necessità di sfruttare in modo più completo le potenzialità dell’autonomia territoriale, che in quanto tale si riferisce a un territorio ma proprio per questo, indirettamente, può costituire un vantaggio per i gruppi che vi risiedono, a cominciare dalle minoranze.

L’autonomia dei territori, prima di diffondersi come tecnica di tutela di mino­ranze nazionali compatte, nasce come strumento di buon governo. Il governo non è qualcosa di astratto ma serve alle persone che ne sono soggette, quindi anche in questo caso è presente un collegamento intrinseco tra autonomia e tutela di singoli e gruppi (non necessariamente solo le minoranze, ma tutti i destinatari delle regole di un territorio), ad ulteriore dimostrazione del fatto che si tratta di concetti “conviventi”. Tuttavia, non va scordato l’obiettivo primario ed originario dell’autonomia: una gestione più efficiente e più democratica delle funzioni pubbliche in un determinato ambito territoriale. Una funzione la cui importanza cresce in corrispondenza dell’aumento della complessità delle funzioni da gestire e organizzare. È questo il motivo per cui nell’ultimo secolo il numero degli ordinamenti federali è più che triplicato (Hueglin/Fenna 2006, 3) e moltissimi sono gli ordinamenti che hanno adottato formule, prima inesistenti, non nominalmente federali, ma che funzionano secon­do il medesimo principio, quello appunto dell’autonomia dei territori (o di alcuni di questi). L’autonomia, insomma, è una tecnica di gestione delle complessità, comprese alcune (come si è visto non troppo numerose) forme di complessità etno-culturale (alcune minoranze territorialmente insediate), ma ben oltre queste.

Poiché tutti i territori sono sempre più diversi e sempre più complessi per quanto riguarda le funzioni di governo da svolgere, l’autonomia ha vantaggi che vanno molto al di là dell’autogoverno delle minoranze o della protezione delle differenze etno-­culturali. Se un ente territoriale, indipendentemente dalla sua composizione etnica, può decidere autonomamente su un certo numero di questioni (da solo o più frequentemente in collaborazione con altri territori, appartenenti allo stesso Stato o a un altro, che condividono gli stessi problemi, Palermo 2008), è (non scontato ma) probabile che le decisioni saranno qualitativamente migliori in quanto tarate sulle esigenze specifiche di quel contesto, e il territorio si svilupperà più armoniosamente, con benefici che si estenderanno a tutte le comunità che vi sono insediate.

Inoltre, l’autonomia è un meccanismo di rafforzamento della democrazia, perché dividendo e condividendo il potere tra livelli di governo evita la loro concentrazione ed obbliga alla collaborazione (Weller/Wolf 2005). Per questo si rivela particolarmente utile in contesti di transizione democratica, ma anche in aree più consolidate sul piano democratico. Mentre non esiste un diritto all’autonomia per le persone appartenenti a minoranze nazionali,13 esiste un diritto ad un governo democratico, che l’autonomia può contribuire a stabilire (Woelk 2002). In altre parole, più è efficiente il sistema di governo, meno è probabile che i diritti delle minoranze vengano trascurati e ancora meno plausibile è che intorno alle minoranze sorgano conflitti.14 Per contro, maggiori sono i problemi in termini di sviluppo territoriale, democratico ed economico, più probabili saranno i conflitti etnici. A sua volta, l’efficienza del sistema di governo – alla quale l’autonomia può contribuire efficacemente se correttamente utilizzata e compresa15 – è un potente strumento per fornire le condizioni appropriate affinché i diritti delle minoranze siano rispettati in un contesto che tuteli la diversità. Pare insomma più probabile che un utilizzo a tutto tondo dell’autonomia di un territorio possa beneficiare i gruppi in questo insediati più di quanto una autonomia per un gruppo riesca a beneficiare il territorio nel suo insieme.

4. Considerazioni conclusive

Per queste ragioni, il discorso mainstream sull’autonomia e la tutela delle minoranze, a partire dalla loro fuorviante sovrapposizione, ha bisogno di una nuova semantica (per considerazioni su aspetti sistemici Palermo/Nicolini 2014). Al momento è ancora troppo statico e autoreferenziale, sia in termini di eccessiva semplificazione concettuale, sia in termini di scarso scambio tra gli studiosi che guardano alla questione da prospettive diverse e separate. La semantica westfaliana che riguarda non solo lo stato-nazione ma molto spesso anche la “regione-nazione” (autonomia per) limita il potenziale dell’autogoverno come strumento di sviluppo territoriale (autonomia di) e può essere superata guardando più da vicino sia i territori che i gruppi. Il che non significa affatto, come accade spesso nel discorso politico in Alto Adige, passare da una autonomia etnica a una territoriale, perché entrambe le dimensioni sono presenti e perché questa richiesta è, come si è detto, politicamente connotata. Significa invece sfruttare meglio la convivenza tra i due concetti non dimenticando che sono diversi, e sfruttare entrambi gli strumenti per ciò che di meglio possono fornire: la tutela delle minoranze come generatore di diritti differenziati e dunque diversi dalla regola della maggioranza (elemento indispensabile per il superamento della logica dello stato-nazione), l’autonomia come fattore di sviluppo (anch’esso differenziato) dei territori e, come conseguenza, di coloro che li abitano. Interessante e indicativo in tal senso appare l’articolo 2 della Costituzione spagnola, che prevede che “la costituzione riconosce e garantisce il diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni”, mostrando di distinguere i piani e di collegarli.

Con un approccio anche teorico più adeguato, l’autonomia può essere la chiave per il futuro dei diritti delle minoranze, più di quanto possa essere il contrario. La situazione sembra insomma ribaltata rispetto alle origini, in cui (sicuramente in Alto Adige ma anche altrove), è la tutela delle minoranze ad essere stato l’unico motore dell’autonomia. Se gli anni ’90 e (in misura molto minore) il primo decennio di questo secolo sono stati l’età dell’oro dei diritti delle minoranze, il futuro appartiene piuttosto all’autonomia, perché sarà molto legato alla capacità dei territori di costruire il proprio futuro e di accogliere le diversità sviluppandosi come un bene comune condiviso piuttosto che come proprietà privata di uno o più gruppi. La governance territoriale includerà la governance delle minoranze piuttosto che il contrario. Dove i due concetti sono destinati a ritrovarsi, per contro, è la regolamentazione del pluralismo, sia esso di natura territoriale o culturale, ma anche politico, economico, geografico, sociale ed altro.

In altre parole, in una fase più avanzata della gestione della diversità, come stiamo sempre più sperimentando in diverse parti del mondo, il territorio mantiene il suo ruolo centrale se la sua comprensione si allontana da una concezione semplice, statica, basata sul diritto duro ed esclusivo, e muove verso una lettura più complessa, variabile, inclusiva, e basata anche su diversi strumenti di soft-law. Complessità, variabilità, non esclusività, persuasione morbida invece che dura imposizione sono elementi chiave del moderno diritto delle minoranze (Palermo/Woelk 2005; Malloy 2006). Nel contempo, l’autonomia può sviluppare il suo immenso potenziale come strumento di flessibilità e individualizzazione delle regole rispetto a territori specifici, beneficiando in modo indiretto le popolazioni che ci vivono. La complementarità di queste regole può meglio contribuire al dispiegamento del loro potenziale.

I due concetti insomma sono entrambi necessari in territori di insediamento di minoranze, perché perseguono obiettivi in parte coincidenti, sia pure con strumenti diversi (di regola attraverso il principio di maggioranza per l’autonomia e quello differenziale quindi anti-maggioritario per i diritti delle minoranze). Una più chiara distinzione, anche da parte degli operatori, può evitare il rischio di indebolire entrambi. Ciò che deve risultare chiaro, in ogni caso, è che l’autonomia è molto più di un dispositivo di tutela delle minoranze, che essa prevede altre funzioni senza le quali non sarebbe possibile nemmeno adempiere alla prima finalità, quella di garantire l’autogoverno alla minoranza nazionale. La prerogativa principale è una gestione di competenze autonoma rispetto al governo centrale, al fine di creare le basi per uno sviluppo del territorio e delle comunità che lo abitano: dove c’è questo sviluppo, ci sono i presupposti per una buona convivenza e quindi, a cascata, una buona tutela delle minoranze.

Note

1 Ad es. relativamente alla personalità dei gruppi linguistici (Maines 2001) e a specifici diritti ad essi attribuiti.

2 Da qui l’inceppamento del primo statuto, che attribuendo l’autonomia prevalentemente al livello regionale faceva venir meno la ragion d’essere di una declinazione territoriale di una autonomia “etnica”.

3 La prassi è andata nella direzione di limitare l’uso di questo motivo specifico di ricorso, utilizzato poco di frequente e solo come criterio aggiuntivo, quasi un richiamo di maniera, e comunque sempre ad adiuvandum e mai come motivo principale di impugnazione. Si veda per tutte la sentenza 242/1989, in cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso, tra gli altri, ex articolo 98 contro le funzioni di indirizzo e coordinamento disciplinate nella legge 400/1988. Va inoltre ricordato che è certamente più efficace, per quanto ancora più raramente utilizzato, il ricorso diretto di minoranze linguistiche (rectius, di gruppi linguistici consiliari) nel corso del procedimento di approvazione delle leggi (regionali o) provinciali ex articolo 56 dello Statuto.

4 In realtà solo una, l’articolo 98, giacché la previsione dell’articolo 4 riguarda essenzialmente la normativa nazionale, ponendo la tutela delle minoranze linguistiche tra gli interessi nazionali.

5 Come ricordato dalla Commissione di Venezia, “non esiste una prassi comune in materia di autonomia territoriale, nemmeno in termini generali” (Venice Commission 1996, paragrafo 3c).

6 Il principio di territorialità, ora formalizzato all’articolo 70 della Costituzione, è stato elaborato in un primo temo dalla Corte federale come correttivo al principio della libertà linguistica (sentenza 31 marzo 1965, Association de l’Ecole française, BGE 91, I, 480, e sentenza 25 aprile 1980, Brunner, BGE 106, Ia, 299).

7 Per quanto il fenomeno sia analogo, qui il discorso è più ampio e più ristretto allo stesso tempo. È più ampio, perché non tutti i legami tra etnia e territorio possono essere inquadrati in termini nazionali, dato che alcune identità sono realmente territoriali piuttosto che nazionali e non aspirano alla propria nazionalità. È più ristretto, perché la dimensione territoriale si riferisce qui solo alle entità subnazionali e solo a quelle abitate (prevalentemente) da minoranze (nazionali), e non è necessariamente basata sulla cittadinanza ma piuttosto sulla residenza. Inoltre, i giuristi potrebbero essere più a loro agio con il vecchio concetto di geografia giuridica sviluppato da Frederic Maitland, che ha usato questo termine per identificare la relazione tra una comunità e il suo territorio (Maitland 1964). A prescindere dai problemi definitori, la questione qui riguarda la relazione tra le comunità organizzate e lo spazio territoriale nelle aree subnazionali la cui autonomia è stata stabilita al fine di accogliere le rivendicazioni etniche. Per queste ragioni, il discorso e la terminologia del nazionalismo non si adattano completamente qui, ed è preferibile un discorso territoriale (etnico o civico).

8 Per i regimi non territoriali, questo legame è attenuato e parziale, perché non è concepito in termini di proprietà di un intero territorio. L’ambito di applicazione dei diritti personali/culturali è comunque territoriale: solo i membri di un particolare gruppo hanno diritto a specifici diritti in un determinato territorio. Più dei sistemi territoriali, quelli non territoriali sono esclusivi e si rivolgono solo ai membri di gruppi minoritari, come dimostrato da diversi esempi di impossibilità legale di predeterminare chi appartiene ai gruppi e di escludere chi non vi appartiene (cfr. ad es. i casi dell’Ungheria e della Serbia).

9 Lo stesso termine “nazione” deriva da natio, ad indicare il luogo in cui si è nati. Una nuova commistione tra criterio etnico e territoriale risalente a tempi in cui le popolazioni erano certamente più omogenee e potevano identificarsi con i territori in cui erano nate e che, conseguentemente, “apparteneva” loro (cfr. Connor 2001).

10 È intuitivo infatti che lo sia quando si tratta di autonomia non-territoriale (cfr. Bauböck 2004, 221).

11 Considerazioni opposte vanno fatte tuttavia nei paesi ex comunisti, nei quali è ancora viva la percezione dell’autonomia declinata in termini di proprietà esclusiva di territori, che ha costituito la base per la rivendicazione dell’autodeterminazione esterna nel momento in cui se ne è presentata la condizione, ed è per questo motivo che in quei contesti l’autonomia è (erroneamente) considerata con eccessivo sospetto come minaccia intrinseca all’integrità territorial (cfr. per tutti il sempre attuale Brubaker 1996).

12 Sulla diffusione delle regole di power sharing all’interno di autonomie territoriali, e la conseguente dimostrazione dell’insufficienza dello strumento territoriale combinato alla logica della maggioranza, cfr. Noel (2005).

13 Cfr. articoli 15 e 16 della Convenzione Quadro per la tutela delle minoranze nazionali, secondo cui, ­rispettivamente, “The Parties shall create the conditions necessary for the effective participation of persons belonging to national minorities in cultural, social and economic life and in public affairs, in particular those affecting them” e “The Parties shall refrain from measures which alter the proportions of the population in areas inhabited by persons belonging to national minorities and are aimed at restricting the rights and freedoms flowing from the principles enshrined in the present framework Convention”.

14 Come scrive l’Alto Commissario OSCE per le minoranze nazionali nell’introduzione alle Ljubljana Guidelines on Integration of Diverse Societies, “Integration is fundamentally concerned with meeting the responsibilities that sovereignty entails, including respecting human rights and ensuring good and effective governance, and it is intimately related to the overall stability of any pluralist society” (OSCE High Commissioner on National Minorities 2012, 3).

15 Ricorda infatti Dinstein che l’autonomia, specie quando basata sull’idea di essere un’autonomia per i gruppi, parte spesso col piede sbagliato, venendo ritenuta una soluzione di ripiego da entrambe le parti coinvolte: “autonomy is most often only reluctantly granted, and usually ungratefully received” (Dinstein 1981, 302).

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