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Roberto Bin

Autonomia e stato di emergenza

Autonomy and state of emergency

Abstract One should not confuse the ‘state of exception’ (Ausnahmezustand), which is outside the legal system, with the ‘state of emergency’, which is instead a situation fully regulated by the legal system. The regulation of emergencies in Italy is contained in civil protection ­legislation; specific legislation for the Covid-19 pandemic has also developed along these lines. The regulation of relations between the State and local autonomies is also found in ­within this legislation; however, the regulative space for the regions is very restricted. The ­Constitutional Court has justified the sacrifice of the regions’ legislative autonomy by framing the State’s legislative interventions as lying within the field of ‘international prophylaxis’. Yet, the value of regional legislation defending the interests of local lobbies in derogation of the general discipline dictated by the State can be called into question.

1. Di che si parla?

Anzitutto bisogna mettersi d’accordo su cosa si intenda per “stato di emergenza”. La precisazione è necessaria visto che, con l’abbattersi della grave epidemia di ­Covid19, il dibattito giuridico e teorico è stato turbato da una notevole confusione attorno a questo concetto: in particolare si è spesso confuso lo “stato di emergenza” con lo “stato di eccezione”.

Quest’ultimo è uno dei temi classici del diritto costituzionale ed è stato oggetto di un’importante teoria politica e giuridica: risale quantomeno a Carl Schmitt, ma resta uno dei temi che continuamente riemergono nella letteratura, perché segnano il punto di crisi dell’ordinamento costituzionale. Lo “stato di eccezione” (Ausnahmezustand) è legato ad una situazione di grave crisi istituzionale, sociale e politica, per affrontare la quale la Costituzione di Weimar (art. 48) attribuiva poteri eccezionali al Presidente del Reich, che potevano giungere sino alla sospensione dei diritti fondamentali, oltre che dell’autonomia dei Länder: previsione della quale Hitler fece subito impiego, proclamando lo stato di eccezione e mai più revocandolo. Lo “stato di emergenza”, invece, è il presupposto per l’attivazione di una serie di strumenti che operano essenzialmente sul piano del diritto amministrativo. La pandemia ha creato una situazione senz’altro inedita per la minaccia alla salute dei cittadini, che ha comportato in tutti i paesi l’adozione di una serie di misure provvisorie che hanno inciso, come capita assai spesso agli strumenti di diritto amministrativo, anche sull’esercizio delle libertà costituzionalmente garantite.

La novità del fenomeno ha alimentato la tendenza, tipica del lavoro intellettuale, di confondere l'oggetto dei propri studi con la realtà. Anche pensatori importanti e raffinati come Giorgio Agamben sembrano caduti nel tranello e hanno alimentato una confusione che offende il compito degli intellettuali, che è quello di aiutare l’opi­nione pubblica a distinguere, non a confondere. Anche tra i giuristi la confusione è stata frequente: sino al punto di sostenere che – mancando fortunatamente nel nostro ordinamento costituzionale una clausola nefasta come quella della costituzione di Weimar (e ciò per una precisa scelta consapevole del nostro costituente) – sarebbe stato opportuno ricorrere alla dichiarazione dello stato di guerra, come previsto dall’art. 78 Cost. Anche questa proposta tende a confondere emergenza ed eccezione. La Costituzione, malgrado il suo afflato pacifista così ben espresso dall’art. 11, prevedendo che il paese possa subire un attacco militare e debba perciò difendersi, ha previsto un procedimento che inizia con una delibera delle Camere (“le Camere deliberano lo stato di guerra”) a cui spetta definire conseguentemente i “poteri necessari” da conferire al Governo: dei quali non si predetermina l’estensione, perché questa è valutata in rapporto alla gravità della situazione che si è venuta a creare. Ma anche questo strumento, che è introdotto come ipotesi eccezionale, quasi “di chiu­sura”, del sistema dei poteri – sistema che deve essere messo in grado di funzionare, anche nelle situazioni estreme, nel rispetto della legalità costituzionale – poco ha a che fare con la situazione che si è venuta a creare con l’emergenza sanitaria.

Massimo Luciani ha messo ben in chiaro la fondamentale differenza tra stato di eccezione e stato di emergenza, riducendola al suo nucleo essenziale. L’elemento distintivo determinante è questo: l’eccezione rappresenta “un vuoto di diritto, nel senso che il diritto non ne determina i presupposti”1: questi affondano nei fatti, negli eventi storici, in zona lontana dal potere costituito; l’emergenza invece è un istituto giuridico, previsto e disciplinato dal diritto. La prima rappresenta la rottura della legalità costituzionale; la seconda è prevista e regolata dalle fonti dell’ordinamento costituzionale, e si svolge dunque pienamente nel quadro della legalità. Perciò, se davvero la pandemia ci avesse retrocessi ad uno stato di eccezione, il problema dell’autonomia non si porrebbe neppure. Di autonomia si può sensatamente parlare solo all’interno di un sistema di poteri stabilito e regolato dalla costituzione, spettando ad essa di dirci come si organizza il complesso dei poteri e, nel loro ambito, le relazioni tra centro e periferia. A questo sistema di poteri regolato dalla costituzione ci si deve rivolgere, dunque, anche per comprendere come esso si adatti ad una situazione di emergenza.

2. L’apparente groviglio delle fonti

Molto si è scritto in dottrina sul supposto groviglio delle fonti, con accenni particolarmente critici nei confronti dei dPCM (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri), che il Governo ha emanato con abbondanza. Anche qui non senza una frequente confusione.

I dPCM non sono infatti “fonti del diritto” e non sono affatto uno strumento in­edito. Con l’espressione “fonti del diritto” si fa tradizionalmente riferimento a quegli atti che sono abilitati dall’ordinamento a innovare all’ordinamento stesso, cioè a introdurre nuove norme giuridiche che resteranno stabili nell’ordinamento giuridico, sino a quando non verranno sostituite o abrogate. Tale definizione non si adatta ai dPCM, che sono un “forma” che può rivestire i contenuti più diversi. Nel solo triennio 2017-2019 (prima quindi della pandemia) sono stati emanati ben 384 dPCM. Talvolta sono regolamenti interministeriali, approvati da un ministro “in concerto” con altri ministri, che però non vengono sottoposti all’approvazione collegiale del Consiglio dei ministri; altre volte sono atti amministrativi generali, come l’approvazione di convenzioni, di accordi di programma e di piani di settore, piani di riparto di fondi specifici, atti di organizzazione interna, comprese le deleghe ai sottosegretari, nomine, proroghe, sospensione dalle funzioni di singoli consiglieri regionali, dichiarazioni di stato di emergenza …; e poi ci sono, ma non molti (forse una dozzina nel periodo considerato), atti di individuazione “dei criteri e delle modalità” che assomigliano assai ad atti normativi di tipo regolamentare, pur non denunciandosi come tali. Un capitolo a parte meriterebbero i decreti del Presidente del Consiglio che riguardano le regioni: essi sono atti dalla forte caratura politica, ma sono anche “atti normativi”?

I dPCM del tempo della pandemia vanno inquadrati tra gli atti amministrativi generali, avvicinabili come caratteristiche tipologiche alle ordinanze d’urgenza del sindaco o delle altre autorità amministrative. Ciò spiega anche la prosa con cui sono scritti (come dimenticare i “congiunti” per incontrare i quali era, nella “fase 2”, limitata la circolazione delle persone, in forza del dPCM 26 aprile 2020): anche quando essi contengano limiti e divieti, e non semplici raccomandazioni, si tratta di misure giudicate necessarie in base a valutazioni di carattere tecnico-scientifici; soprattutto sono destinate a valere per un tempo determinato, senza produrre alcuna modificazione nell’ordinamento giuridico. Scaduto il loro tempo, decade la loro efficacia, anche se un atto successivo potrà stabilire una nuova vigenza delle prescrizioni in essi contenuti.

Nella sent. 37/2021, di cui si dirà ampiamente in seguito, la natura dei dPCM è chiaramente confermata. La Corte parla di “misure di quarantena e restrittive” che possono essere introdotte dai dPCM, ma anche dalle ordinanze emanabili dal ministro come pure dalle autorità locali, cioè dai Presidenti di Regione e da sindaci; e nega la propria competenza a giudicare della legittimità di questi atti, “comunque assoggettati al sindacato del giudice amministrativo”. Il “sistema” degli atti che ha governato le restrizioni causate dalla pandemia è racchiuso nel decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), che radica nello Stato il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti di protezione civile, acquisita l’intesa con le Regioni e le Province autonome “territorialmente interessate”. Il “sistema” della protezione civile comprende i vertici degli esecutivi dei diversi livelli di governo, tra i quali le funzioni amministrative sono ripartite secondo i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. Se questa è l’architettura complessiva del sistema, è evidente che gli interventi resi necessari da un’epidemia che colpisce l’intero territorio nazionale non possono che essere disposti dal Governo: la sua competenza “sussidiaria” porta però con sé un obbligo di procedura di leale collaborazione che è prevista per altro dallo stesso “codice”.

3. Corte costituzionale dixit

Già prima del decreto legislativo 1/2018, la Corte costituzionale aveva affrontato il tema del riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni in situazioni di emergenza. Si era trattato della “perdurante crisi socio-economico-ambientale determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani in Calabria”. In attuazione della disciplina allora in vigore (legge 225/1992), un dPCM del 1997 aveva dichiarato lo stato di emergenza, prorogato poi da una serie di ulteriori dPCM, seguiti da una serie di ordinanze del Commissario delegato, individuato nel presidente della Regione. Giudicando della legittimità di una legge calabrese che incideva sull’efficacia delle ordinanze del Commissario, la Corte costituzionale ha affermato che “lo Stato è… legittimato a regolamentare – in considerazione della peculiare connotazione che assumono i “principi fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di natura straordinaria … anche mediante l’adozione di specifiche ordinanze autorizzate a derogare, in presenza di determinati presupposti, alle stesse norme primarie” (sent. 284/2006). Ed aggiunge (citando i propri precedenti) che l’attuazione di questo principio fondamentale non comporta “un sacrificio illimitato dell’autonomia regionale”, che viene salvaguardata attraverso “la configurazione di un potere di ordinanza, eccezionalmente autorizzato dal legislatore statale, ben definito nel contenuto, nei tempi e nelle modalità di esercizio”. Il potere di ordinanza infatti si svolge sul piano amministrativo attraverso atti tutti verificabili davanti al giudice che può accertare che siano rispettati tutti i presupposti dell’esercizio del potere e le modalità prescritte a tutela dell’autonomia regionale, cioè la “previsione di adeguate forme di leale collaborazione e di concertazione nella fase di attuazione e organizzazione delle attività di protezione civile”.

La riforma della protezione civile del 2018 non altera questo quadro concettuale. Nella nota sentenza 37/2021, dedicata al “caso Valle d’Aosta”, la Corte premette che la riforma della protezione civile “radica nello Stato il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti di protezione civile, acquisita l’intesa con le Regioni e le Province autonome “territorialmente interessate”. La Corte sottolinea che “è l’eventuale concentrazione della crisi su di una porzione specifica del territorio ad imporre il coinvolgimento delle autonomie”. Però la Corte non prosegue il suo ragionamento all’interno degli schemi (e dei “principi fondamentali”) della protezione civile, perché è la stessa legislazione dello Stato a deviare da essi. Infatti, mentre l’intera vicenda era iniziata con la delibera dello “stato di emergenza” approvata dal Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020 ancora pienamente nell’alveo della legislazione sulla protezione civile, con il decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 – primo atto normativo rivolto alla disciplina degli interventi emergenziali legati al Covid-19 – l’oggetto e la disciplina cambiano e si concentrano sugli aspetti sanitari dell’emergenza. Il presupposto del mutamento è che l'Organizzazione mondiale della sanità aveva nel frattempo dichiarato lo stato di pandemia2. E anche le argomentazioni della Corte cambiano prospettiva, mettono da parte i propri precedenti in tema di protezione civile e stringono il parametro di giudizio puntando ad una materia sinora rimasta al margine della sua giurisprudenza, la profilassi internazionale.

Benché dopo anni di giurisprudenza costituzionale che ha rimescolato le carte delle competenze legislative – quelle competenze che la riforma costituzionale del 2001 avrebbe voluto (velleitariamente) mantenere nettamente distinte – sia sorprendente che la Corte costituzionale faccia guidare il suo ragionamento dall’imputazione di una legge a questa o a quella competenza, l’intento che l’ha guidata appare del tutto evidente. La protezione civile traccia una disciplina dell’emergenza articolata e consolidata, che include anche margini di intervento delle regioni sia attraverso propri strumenti normativi che nel quadro della leale collaborazione con gli organi governativi. Non potrebbe essere diversamente. La protezione civile è pur sempre inserita – nel dissestato quadro delle competenze formulato dall’art. 117 Cost. – tra le materie concorrenti; e le connessioni (gli “intrecci”, come piace chiamarli alla Corte costituzionale) tra la protezione civile e le materie “proprie” delle regioni – e in particolare delle regioni a statuto speciale e delle province autonome – sono innumerevoli. Inoltre, l’emergenza può ben scattare per avvenimenti territorialmente loca­lizzati, come ben si sa e come, anzi, di solito avviene. Né il quadro cambia di molto se si collocano gli interventi d’emergenza nell’alveo della tutela della salute, perché anche questa è materia altamente frastagliata, in cui le zone di sovrapposizione tra centro e periferia sono innumerevoli. Ecco che allora collocare l’emergenza per il Covid-19 nella “profilassi internazionale” consente una drastica riduzione delle sovrapposizioni tra i livelli di governo e di legislazione.

In nome della profilassi internazionale tutto si concentra al centro e non possono più essere invocati i classici strumenti che vengono apprestati nelle zone di sovrapposizione tra Stato e autonomie, inclusi i vincoli di leale collaborazione. Il Covid-19 favorisce perciò lo stabilirsi di una zona di intervento esclusivo dello Stato, attraverso le regole e le procedure stabilite dalla legislazione speciale varata ad hoc, di cui fa parte integrante “il divieto per le Regioni, anche ad autonomia speciale, di interferire legislativamente con la disciplina fissata dal competente legislatore statale” (sent. 37/2021, punto 9.1. del diritto). Tuttavia, la disciplina ad hoc introdotta dai decreti-legge, a partire dal n. 19 del 2020, ritaglia margini di intervento delle regioni: sia a livello di procedimento, sia nella normazione di attuazione. Sotto il primo profilo, i dPCM sono emanati dopo aver acquisito il parere dei Presidenti delle Regioni interessate, o, nel caso in cui riguardino l’intero territorio nazionale, del Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (art. 2 del d.l. n. 19 del 2020). Sotto il secondo profilo, come spiega la Corte, uno spazio di intervento d’urgenza è riconosciuto, a certe condizioni, anche ai sindaci e alle Regioni (comma 16). Ma questi sono spazi concessi dalla legge dello Stato, non prerogative che le regioni possono rivendicare partendo da propri titoli di competenza.

4. Pandemia e autonomia: i danni prodotti da una legislazione regionale dissennata

L’emergenza sanitaria, dunque, non apre uno “stato di eccezione”, ma semmai introduce un’eccezione alla disciplina generale dell’emergenza, consolidata dal “codice” della protezione civile. Benché qualcuno abbia considerato il “codice” come una disciplina “rafforzata” dell’emergenza, questa che allora apparirebbe come un’eccezione si giustifica per la peculiarità dell’emergenza sanitaria e anche per il carattere “internazionale” della pandemia – e di alcune regolazioni introdotte per farvi fronte – che rafforza l’attrazione al centro della disciplina: attrazione che però avrebbe potuto trovare numerosi altri titoli di giustificazione, non ultimo il “principio di sussidiarietà” che da solo basterebbe a giustificare l’attrazione al centro di gran parte delle funzioni amministrative coinvolte. Ma è chiaro che la prevalenza della materia “profilassi internazionale”, di sicura attribuzione esclusiva allo Stato, aiuta a sgomberare il campo da qualsiasi complicazione che deriverebbe dall’impiego di titoli di competenza diversi, che in genere implicano l’attenuazione della primazia dello Stato.

Se il punto di vista dello Stato è ben chiarito, c’è da chiedersi piuttosto che immagine dei ruoli e delle competenze abbia potuto indurre la Regione Valle d’Aosta ad approvare una legge che si pone in aperta concorrenza con la legislazione statale. Per usare le parole della Corte, la legge valdostana surroga “la sequenza di regolazione disegnata dal legislatore statale appositamente per la lotta contro la malattia generata dal nuovo COVID-19, imponendone una autonoma e alternativa, che fa invece capo alle previsioni legislative regionali e alle ordinanze del Presidente della Giunta”. Debole è la difesa in giudizio della Regione: a parte la contestazione della legittimità dei dPCM, scorrettamente inquadrati come “fonti del diritto”, mentre tali non sono affatto (ma in questo errore è caduta anche parte considerevole della dottrina), essa snocciola i numerosi titoli di competenza regionale che giustificherebbero un intervento legislativo regionale, al fine “di contemperare gli interessi economici e sociali che così fanno capo alla Regione con la necessità di contrastare il COVID-19, attraverso misure che tenessero in conto le peculiari condizioni geografiche e abitative della Valle d’Aosta”. In realtà la legge regionale altro non fa che derogare al rigore della disciplina statale per mitigarne la tassatività. Anzi, la legge regionale intende sostituirsi alla legge dello Stato, come si desume dalla sua prima proposizione (“La presente legge disciplina la gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 sul territorio regionale e introduce misure per la pianificazione della fase di ripresa e di rilancio dei settori maggiormente colpiti dall'epidemia”): della disciplina statale si è persa la traccia.

In certi casi gli effetti prospettati dalla legge regionale appaiono persino paradossali e intollerabili. Si pensi per esempio al comma 2.16 della legge valdostana – una legge entrata in vigore all’inizio del mese di dicembre 2020! – che, in deroga al blocco decretato dalla normativa statale – anche in accordo con gli altri paesi dell’arco alpino – dispone che invece “possono svolgere regolare attività gli impianti a fune ad uso sportivo o turistico-ricreativo, a condizione che sia possibile garantire il rispetto delle misure di sicurezza di cui ai protocolli di sicurezza vigenti”. La Valle d’Aosta apre gli impianti sciistici e attrae tutti gli appassionati che vogliono fuggire alle restrizioni vigenti altrove!

È un esempio chiarissimo di quella tendenza che da tempo domina la legislazione regionale. Anche a causa dei severi controlli statali e della poco benevola giurisprudenza costituzionale, le regioni hanno rinunciato a perseguire disegni legislativi innovativi e ambiziosi: la loro legislazione è ripiegata su interventi sostanzialmente derogatori della normativa vincolistica imposta dallo Stato. Si deroga ai presidi della tutela dell’ambiente e del buon uso del territorio; si deroga alle norme di liberalizzazione del commercio e di trasparenza dei contratti pubblici; si deroga all’applicazione di principi pro-concorrenziali laddove gli interessi economici locali si oppongono (si pensi alle proroghe delle concessioni demaniali); si deroga alle norme sulla trasparenza di assunzioni o nomine. E si deroga alle norme restrittive dettate per ragioni di protezione della salute collettiva. Dietro a questa legislazione vi sono sempre interessi privati ben rappresentati in loco, che evidentemente hanno un ascolto preferenziale negli ambienti politici regionali. Quando le regioni rivendicano la loro autonomia in nome di un miglior adattamento della disciplina pubblica alla realtà locale, a quale realtà si stanno riferendo? È una domanda imbarazzante, la cui portata non si limita purtroppo alle sole vicende dell’emergenza sanitaria.

Note

1 Luciani, Massimo (2022), Salus, Modena: Mucchi, 31. L’A. raccoglie in questa “piccola conferenza” riflessioni già anticipate in diversi interventi precedenti.

2 Un’attenta analisi delle fonti emanate per far fronte alla pandemia si trova nel fascicolo speciale dell’Osservatorio delle fonti 2020 dedicato al tema (Le fonti normative nella gestione dell’emergenza Covid-19).

Nota bibliografica

La sovrapposizione tra “stato di eccezione” e “stato di emergenza” è già riscontrabile nello scritto, per altro ricchissimo, di Agamben, Giorgio (2003): Stato di eccezione, Torino: Bollati Boringhieri; ed è contestata da Luciani, Massimo (2022), Salus, Modena: Mucchi. La tesi che alla pandemia si sarebbe potuto far fronte ricorrendo ai poteri conferibili al Governo in stato di guerra, ex art. 78 Cost., era stata sostenuta fra gli altri da Celotto, Alfonso (2020), Necessitas non habet legem?, Modena: Mucchi. Un’attenta analisi delle fonti emanate per far fronte alla pandemia si trova nel fascicolo speciale dell’Osservatorio delle fonti 2020 dedicato al tema (Le fonti normative nella gestione dell’emergenza Covid-19). In genere molto si è scritto in ogni tipo di giornale, rivista o blog criticando la legittimità del ricorso seriale alla decretazione d’urgenza e ai dPCM (critico nei confronti dei critici un po’ troppo spesso superficiali è però De Siervo, Ugo (2021), Il contenimento di Covid-19: Interpretazioni e Costituzione, Modena: Mucchi, e molto spesso si è equivocato sulla natura giuridica dei decreti del Presidente del Consiglio, attribuendo ad essi la natura di fonti del diritto (cfr. ad es., sul piano generale, Raffiotta, Edoardo Carlo (2021), Norme d’ordinanza. Contributo a una teoria delle ordinanze emergenziali come fonti normative, Bologna: BUP), e dubitando perciò della legittimità delle limitazioni dei diritti individuali che da essi deriverebbero (cfr. ad es. Castelli, Luca (2021), Una fonte anomala. Contributo allo studio dei dPCM, Napoli: ES; ID, La Corte costituzionale e i dPCM pandemici, in Quad. cost. 1/2022, 154 ss.). I motivi per cui invece questi decreti non sono da includersi nelle fonti del diritto sono illustrati, in via generale, da Bin, Roberto (2021), Critica della teoria delle fonti, Milano: Franco Angeli, 89 ss. Alle due sentenze chiave emanate dalla Corte costituzionale sulla restrizione del ruolo della Regioni nella pandemia (sent. 37/2021, più volte citata) e sulla tipologia degli atti emanati dal Governo (sent. 189/2021) sono stati dedicati numerosissimi commenti che sono facilissimamente reperibili on line.