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Francesco Palermo

“Doppio passaporto”: Uno sguardo ­comparato e qualche riflessione sulle misure di promozione di minoranze residenti ­all’estero

“Dual citizenship”: An analysis of measures for kin-minorities residing abroad

Abstract Kin-State activism is a widespread practice in Europe and beyond. States very ­often provide benefits to ‘kin-minorities’ living abroad and are at the same time extremely reluctant to accept similar measures for their own citizens. For this reason, the development of binding international law in this matter has been hampered. The legitimacy of such actions, which stretch from cultural benefits to granting citizenship, can therefore only be judged based on the respect of very general principles of international jus cogens, such as non-interference in internal affairs, respect for territorial integrity and above all good neighbourly relations. This paper bases its criteria for interpretation by drawing on soft law documents and applies this analysis to the proposal to confer Austrian citizenship to German- and Ladin-­speaking South Tyroleans. Irrespective of the feasibility and the relevance of such proposal, it is essential to understand the international and comparative context of a widespread ­phenomenon.

1. Introduzione

La proposta di concedere la cittadinanza austriaca agli abitanti di lingua tedesca e ladina della Provincia di Bolzano fa ormai stabilmente parte dell’agenda e (soprattutto) del discorso politico. Per quanto l’idea sia assai più risalente, e caldeggiata da tempo dalla parte autodefinitasi più “patriottica” dello schieramento politico, una forte accelerazione sul punto si è avuta nel 2017, quando l’allora neo-costituita coalizione di governo in Austria tra ÖVP e FPÖ aveva inserito la proposta nel programma del governo federale. Da allora il tema è diventato centrale nei media e nella comunica­zione politica, anche oltre l’ambito provinciale, ha costituito oggetto di approfondimenti anche a livello istituzionale (in Austria il precedente governo aveva insediato una commissione di esperti per valutarne la fattibilità) e diplomatico (numerose sono state le iniziative specie sul piano bilaterale tra Italia e Austria, stante la contrarietà dei diversi governi che si sono succeduti a Roma nel frattempo: Gentiloni, Conte 1 e Conte 2), sono stati condotti sondaggi (cfr. il contributo di Haller/Atz/Pallaver in questo numero), sono state avanzate diverse proposte a vario titolo su come renderlo possibile (cfr. Peterlini 2019). E questo nonostante l’arretramento, alle elezioni provinciali del 2018, dei partiti che con più determinazione spingono sul punto, e nonostante l’estromissione dal governo di Vienna della FPÖ a seguito dei noti scandali e delle successive elezioni del 2019.1

La vicenda offre numerosi motivi di interesse, ben al di là delle diverse posizioni politico-ideologiche. In particolare appare utile uno sguardo alla situazione giuri­dica internazionale e comparata sul punto, per comprendere la cornice entro la quale questa proposta si situa, anche al fine di poterne ricavare spunti per eventuali soluzioni. Il presente saggio prova a fornire un contributo in tal senso: dopo un rapido inquadramento (2.), si ricostruiranno le indicazioni fornite in ambito internazionale in materia di politiche di promozione di specifiche minoranze residenti all’estero (3.), la prassi comparata (4.) e le lezioni che se ne traggono in relazione alla concessione della cittadinanza (5.), per concludere con brevi considerazioni e una suggestione derivante dall’analisi comparata (6.).

2. La questione e le diverse posizioni

Per ciò che comunica, la questione è piuttosto immediata. Si tratta, per usare l’espressione contenuta nel precedente accordo di coalizione tra ÖVP e FPÖ del 2017, di garantire “ai sudtirolesi la possibilità di ottenere, in aggiunta a quella italiana, la citta­dinanza austriaca”.2 Il tema non è nuovo, e a livello declamatorio è da tempo una richiesta da parte del partito di governo in Alto Adige (la SVP) e mai osteggiato dal partito popolare austriaco (ÖVP). Il tutto nel tacito assunto che le priorità fossero sempre altre e che, anche per l’opposizione di altri partiti austriaci, non ci fossero le condizioni politiche e giuridiche3 per realizzare questa “questione di cuore” (com’è ufficialmente definita dalla SVP) (Denicolò/Pallaver 2018, 255-280).

Quando si tratta di scendere nel concreto, tuttavia, il tema diventa assai più complesso. L’ordinamento austriaco non prevede la doppia cittadinanza: come si giustificherebbe sul piano costituzionale una deroga solo per la provincia di Bolzano? L’espressione “sudtirolesi” poi chi identifica? Nella logica della proposta si tratta evidentemente solo degli appartenenti ai gruppi linguistici tedesco e ladino, ma una simile limitazione è difficile da sostenere sul piano giuridico, anche tenuto conto della libertà di scelta per tutti i residenti nella Provincia di Bolzano rispetto alla dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico – e senza contare che risulterebbe problematico il rinvio recettizio da parte di una legge austriaca ad un atto di diritto italiano come le modalità per la dichiarazione di appartenenza. Se la proposta si rivolgesse a chi possa dimostrare di avere antenati che fossero stati cittadini austriaci prima dell’annessione dell’Alto Adige all’Italia (come suggerito da Peterlini 2019), non sarebbe semplice rinvenire la ratio in base alla quale la cittadinanza austriaca andrebbe concessa solo ad alcuni successori di cittadini austriaci e non ad altri, inclusi ad esempio i trentini. E come si dimostra l’ascendenza, se i registri dello stato civile esistono solo dal 1922? Se il criterio è etnico, perché il provvedimento dovrebbe riguardare solo i ladini dell’Alto Adige e non quelli trentini o bellunesi? Quali diritti e doveri comporterebbe poi in concreto la cittadinanza? Concedere il diritto di voto implicherebbe la creazione di un collegio estero, negarlo comporterebbe una discriminazione difficilmente giustificabile tra cittadini austriaci. Analogamente per il servizio di leva, che è obbligatorio: basterebbe la residenza all’estero per giustificare un diverso trattamento tra cittadini austriaci? Allora chi risiede in Austria dovrebbe prestarlo per forza? Senza contare che esistono già norme che garantiscono ai sudtirolesi l’equiparazione rispetto ai cittadini austriaci: non solo le norme europee, ma anche norme interne per casi specifici, come l’ammissione all’università e alle carriere altrimenti riservate ai cittadini.4 Si tratta di una serie di questioni che, anche una volta risolte da una legge, potrebbero dar luogo a un ampio contenzioso costituzionale in Austria (Denicolò/Pallaver 2018).

Diverse questioni essenziali si porrebbero poi in riferimento ad aspetti multi­laterali (come la necessità di denunciare il cap. I della Convenzione europea per la riduzione dei casi di cittadinanza multipla del 1963),5 ai rapporti bilaterali con ­l’Italia,6 ma soprattutto agli equilibri interni al sistema della Provincia di Bolzano. Equilibri notoriamente molto delicati, basati sulla tutela delle minoranze, e che potrebbero essere messi in discussione qualora queste minoranze si trasformassero in cittadini stranieri e dunque soggetti anche ad altra giurisdizione. Gli scettici nei confronti della proposta mettono soprattutto in evidenza gli effetti dirompenti che una iniziativa unilaterale potrebbe avere su un modello in cui la tutela delle minoranze e il connesso sviluppo dell’autonomia speciale hanno dato vita, nel corso dei decenni, a un sofisticato e delicatissimo sistema di pesi e contrappesi, di garanzie, di procedure, di convivenza regolata dal diritto e di fiducia costruita con fatica attraverso continui negoziati (Woelk et al. 2007). Per certe acquisizioni sono stati necessari decenni di pazienti trattative, ed è proprio il principio dell’autonomia negoziata l’essenza della specialità dell’Alto Adige. Al di là del merito, un’azione unilaterale di questo tipo metterebbe in discussione tutto questo impianto, alla cui costruzione l’Austria ha sempre responsabilmente partecipato. Le conseguenze sarebbero soprattutto di carattere sociale, con diverse categorie di cittadini e il rischio di una frattura tra i gruppi (tra coloro che potrebbero accedere alla cittadinanza austriaca e coloro che non potrebbero farlo), ma anche e soprattutto all’interno dei gruppi linguistici tedesco e ladino, tra coloro che decidessero di richiedere la cittadinanza austriaca e coloro che decidessero di non farlo.7 E non manca chi, nel versante nazionalista italiano, ha proposto la revoca della cittadinanza italiana per chi decidesse di prendere quella austriaca, o almeno l’introduzione del divieto di ricoprire cariche pubbliche.8

Per contro i sostenitori della proposta insistono sul carattere aggiuntivo della cittadinanza austriaca rispetto a quella italiana, affermando che nulla cambierebbe nel trattamento giuridico dei cittadini italiani appartenenti alle minoranze di lingua tedesca e ladina. Si tratterebbe quindi solo di aggiungere qualcosa a determinate categorie di persone senza togliere nulla alle altre. Che le richieste di cittadinanza sarebbero comunque individuali, per cui non si tratterebbe di un’imposizione ma di una libera scelta. Che se una minoranza maggioritariamente avanza una richiesta questa è da assecondare se non danneggia il resto della popolazione. E che in ogni caso la concessione della cittadinanza è un atto sovrano di ciascuno Stato, quindi non è necessario alcun consenso da parte né del governo italiano né della popolazione di lingua italiana della Provincia di Bolzano. Viene a tal fine costantemente citato il caso della concessione della cittadinanza italiana decisa dal Parlamento italiano con la legge 124/2006, che ha previsto “il riconoscimento della cittadinanza italiana ai connazionali dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia e ai loro discendenti”.

3. Il piano internazionale

Il trattamento delle minoranze nei rapporti internazionali sconta una contraddizione latente. Da un lato la tutela dei diritti umani, compresi quelli delle minoranze, è un obbligo dello Stato in cui la minoranza risiede. Dall’altro, gli Stati spesso adottano misure per la promozione di determinati gruppi di persone residenti in altri Stati, basate su fattori etno-nazionali, che possono giungere fino alla concessione della cittadinanza, la quale, com’è noto, è una prerogativa sovrana di ciascuno Stato (cfr. Kochenov 2019). Sotto il profilo giuridico, la domanda che si pone è quale sia il confine tra le misure legittimamente adottate e la violazione dell’obbligo di ogni Stato di occuparsi delle minoranze residenti nel suo territorio, con conseguente violazione del principio di non interferenza. Proprio a causa di questa contraddizione, il diritto internazionale, che negli ultimi decenni si è immensamente sviluppato in relazione ai diritti delle minoranze, dice pochissimo su questo aspetto.

Diversi documenti internazionali affermano che, per quanto la tutela dei diritti delle minoranze spetti agli Stati di residenza, essa è anche una questione di rilievo internazionale, e dunque non un mero affare interno di ogni Stato.9 Documento di Copen­hagen della allora CSCE specie par. 30 ss. e la Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa per la tutela delle minoranze nazionali specie preambolo e art. 1. Molti sono poi i trattati bilaterali che prevedono meccanismi specifici per la bilateralizzazione dei rapporti relativi alle minoranze. La comunità internazionale quindi ha diritto di intervenire sugli strumenti adottati dagli Stati, sia, come di regola, verso i propri cittadini, sia quando adottati a favore di cittadini di altri Stati. In secondo luogo, non tutti gli interventi che riguardano minoranze residenti nel territorio di un altro Stato hanno la medesima rilevanza per il diritto internazionale: il conferimento in massa della cittadinanza ai residenti di un territorio in conflitto con lo Stato di appartenenza, ad esempio, ha un peso assai diverso rispetto al trasferimento di fondi per attività culturali verso Stati con i quali i rapporti sono amichevoli. Resta tuttavia il problema di come identificare le attività lecite e quelle illecite, al di là dei principi generali del rispetto dell’integrità territoriale di ogni Stato e delle relazioni amichevoli di buon vicinato.

Al fine di specificare quali attività nei confronti di minoranze residenti all’estero siano ammissibili e quali costituiscano invece una violazione delle relazioni pacifiche tra Stati (specie confinanti), l’Alto Commissario OSCE per le minoranze nazionali ha adottato nel 2008 le Raccomandazioni di Bolzano/Bozen sulle minoranze nazionali nelle relazioni tra Stati. Le Raccomandazioni non sono vincolanti, e costituiscono un atto di soft law, una sorta di lettura interpretativa e di specificazione dei principi di diritto internazionale in materia, nell’ottica – e questo è fondamentale – del mandato dell’Alto Commissario. Che è un mandato settoriale, legato alla sicurezza e alla prevenzione dei conflitti e non direttamente alla tutela internazionale dei diritti umani. Le Raccomandazioni, prodotte da un gruppo di esperti internazionali, si basano sull’esperienza diretta e il lavoro sul campo svolto dall’Alto Commissario, in contesti conflittuali, nei quali le minoranze sono spesso strumentalizzate per ragioni geopolitiche. In questa logica si spiega anche la scelta non casuale di Bolzano come luogo nel quale lanciare il documento, a sottolineare come l’Alto Adige rappresenti una buona prassi in materia a cui guardare in aree meno pacifiche e meno fortunate (Palermo 2009, 511-519).

Si tratta del documento più completo in materia, ma non del primo. Nel 2001, a seguito dell’approvazione da parte del Parlamento ungherese di una serie di misure riguardanti le minoranze ungheresi all’estero (cd. status law), la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha approvato le prime indicazioni sul punto nel rapporto sul “trattamento preferenziale di minoranze nazionali da parte del rispettivo kin-State10 (Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa 2001, 19).

Oltre a diverse regole di natura procedurale, come la preferenza per le sedi multi­laterali, il coinvolgimento dello Stato interessato e il rapporto proporzionale tra tutela da parte degli Stati di residenza e legittimità dell’azione del kin-State,11 emer­gono da questi documenti una serie di interessanti indicatori rispetto alle attività che gli Stati possono compiere per promuovere le “proprie” minoranze all’estero. Le azioni meno problematiche sono quelle relative ai benefici culturali ed educativi, che di regola possono essere concessi in modo unilaterale, purché non in modo discriminatorio (ad es. la concessione di borse di studio può essere basata su criteri di competenza linguistica, ma non sulla mera appartenenza etnica). Seguono altri benefici che possono avere un impatto maggiore, e che per questo richiedono in genere un negoziato con lo Stato in cui la minoranza risiede, o quanto meno una adeguata informazione nei confronti dello stesso, quali i visti, i permessi di soggiorno, i permessi di lavoro. Le azioni più delicate riguardano il finanziamento di partiti politici all’estero e la concessione della cittadinanza, per le evidenti conseguenze che possono avere in termini di relazioni tra Stati. Per questo la concessione della cittadinanza è di regola ritenuta una violazione dei doveri di buon vicinato e del principio delle relazioni pacifiche tra Stati, a meno che non vi sia l’espresso consenso dello Stato in cui la minoranza risiede. In altre parole, in base al diritto internazionale, la concessione della cittadinanza è un atto sovrano dello Stato, ma la legittimità dell’azione va valutata alla luce dell’impatto sui principi di non interferenza, e di buon vicinato, e tale impatto si presume negativo, salva prova del contrario – data dal consenso dello Stato interessato.12

Queste importanti precisazioni hanno tuttavia il carattere del soft law. Sono sì le uniche interpretazioni autorevoli del punto di equilibrio tra legittimo interesse per una minoranza residente in un altro Stato e divieto di ingerenza negli affari interni e di violazione dei rapporti di buon vicinato, ma non sono direttamente cogenti. E soprattutto non sono sanzionabili, per cui il mancato rispetto di questi principi risulta solo nella loro violazione, senza che per questo vi siano sanzioni. Tra i molti casi richiamabili, basti pensare alla prassi della Federazione russa nei confronti delle comunità russofone nello spazio ex sovietico, che ha portato fino all’annessione di un territorio (la Crimea) e alla sostanziale indipendenza di altri, senza che la comunità internazionale abbia potuto produrre reazioni particolarmente significative. Il paradosso è che, mentre la tutela delle minoranze residenti nel proprio territorio è oggetto di molte limitazioni e obbligazioni di natura internazionale, le attività nei confronti di minoranze residenti in un altro Stato sono assai meno limitate. Al di là degli atti di soft law e dell’interpretazione orientata al mantenimento delle buone relazioni tra Stati data dagli organismi di monitoraggio, il diritto internazionale lascia agli Stati un margine assai maggiore per esercitare politiche nazionalistiche in ambito internazionale rispetto all’ambito domestico.

4. La prassi comparata

Nella prassi seguita da molti Stati si registrano spesso atti compiuti in violazione dei criteri previsti a livello internazionale. Nonostante la spesso abusata retorica sull’obsolescenza degli Stati nazionali, la realtà sembra mostrare una forte ripresa della centralità degli Stati sulla scena internazionale e dell’autocomprensione in senso etnico più che civico della nazione, con conseguente aumento delle attività che gli Stati tendono a porre in essere nei confronti delle minoranze residenti all’estero che condividano un legame etnico (storico, linguistico, religioso) con la maggioranza della loro popolazione. Così mostrando spesso un “maggiore interesse per le minoranze residenti all’estero rispetto a quelle presenti nel territorio”, o supportando “attivamente una particolare minoranza residente in un Paese, senza prevedere misure particolari per la medesima minoranza collocata altrove”, casi che “mettono in discussione i motivi e la credibilità di queste azioni” (OSCE High Commissioner on National Minorities 2008, n. 15).

La dimostrazione è data dal fatto che mentre gli Stati sono spesso pronti a porre in essere misure nei confronti delle “proprie” minoranze all’estero, agendo come kin-States, cambiano immediatamente atteggiamento quando sono altri Stati a porre in essere azioni analoghe che li riguardino direttamente. Il caso italiano è emblematico sul punto: dopo aver concesso nel 2006 la possibilità di ottenere la cittadinanza a molti appartenenti alla minoranza italiana in Slovenia e Croazia, ha opposto forti resistenze di fronte alla prospettiva che l’Austria potesse fare altrettanto nei confronti dell’Alto Adige. Vero che i casi sono molto diversi (in particolare in termini numerici e di impatto sui territori di insediamento delle minoranze e sulle rispettive società), ma l’atteggiamento risulta eloquente. Così come eloquente è stato, ad es., il comportamento della Croazia, che ha protestato quando l’Italia ha concesso la doppia cittadinanza alla minoranza italiana in quel Paese, ma fa lo stesso con i croati in Bosnia (che sono tra l’altro il 18 per cento della popolazione complessiva, controllano parti significative del territorio e sono determinanti per i risultati elettorali in Croazia). Proprio il fatto di poter essere nel contempo attori attivi e passivi delle politiche nei confronti di minoranze all’estero è il motivo per il quale gli Stati hanno finora evitato un maggiore consolidamento del diritto internazionale sul punto.

Molti Stati prevedono a livello costituzionale o almeno legislativo l’obbligo di tute­lare le “proprie” minoranze all’estero. Sul piano della tutela costituzionale l’esem­pio più noto è quello ungherese, anche per la cospicua presenza di minoranze ungheresi nei Paesi vicini, a seguito del trattato di pace del Trianon del 1920. Già la costituzione del 1989 affidava alla Repubblica ungherese una “responsabilità nei confronti degli ungheresi che vivono oltre i confini” e un obbligo di “promuovere e rafforzare le loro relazioni con l’Ungheria” (art. 6.3), una disposizione ulteriormente allargata dall’art. D dell’attuale costituzione del 2011.13 Molti altri Paesi europei hanno introdotto nelle rispettive costituzioni disposizioni che, magari con espressioni più sfumate, prevedono un obbligo dello Stato a farsi carico di popolazioni residenti all’estero che condividono la medesima identità nazionale con la maggioranza della sua popolazione. Tra questi ad es. l’Albania (art 9.2),14 la Croazia (art. 10),15 l’Irlanda (art. 2),16 la Lituania (art. 13.1),17 la Macedonia del Nord (art. 49),18 la ­Polonia (art. 6.2),19 la Romania (art. 7),20 la Federazione Russa (art. 61.2),21 la Serbia (art. 13),22 la Slovacchia (art. 7),23 la Slovenia (art. 5),24 l’Ucraina (art. 12),25 il Portogallo (art. 15)26 e altri27.

Un gradino sotto la previsione di un obbligo costituzionale si pone la previsione di azioni a livello di legislazione ordinaria. Spesso si tratta di leggi generali, di attuazione di previsioni costituzionali, a partire dalla più importante e nota tra queste leggi, quella sugli “ungheresi residenti in Paesi confinanti” del 2001 (Legge LXII del 2001 e successive modifiche, cfr. Constantin 2001; Kantor et al. 2004),28 nota come legge status, perché concede alle minoranze ungheresi all’estero uno status particolare, diverso da quello degli ungheresi residenti in Ungheria ma anche da quello degli altri cittadini del proprio Paese di residenza in quanto beneficiari delle disposizioni di tale legge. Tra i tanti aspetti interessanti di questa norma vi è il fatto che riguarda le minoranze ungheresi in tutti i Paesi confinanti con l’Ungheria ad eccezione dell’Austria. Questo perché la legge è stata approvata quando l’Ungheria non era ancora membro dell’UE e aspirava a diventarlo, e l’Austria era allora l’unico ­Stato con minoranze ungheresi ad essere parte dell’Unione (poi si sono aggiunti ­Slovenia, Slovacchia e Croazia), ed avrebbe posto un veto all’adesione ungherese qualora la misura avesse riguardato anche il suo territorio. Una dinamica analoga e speculare rispetto alla Croazia, che ha dovuto subire la legge italiana di concessione della cittadinanza agli appartenenti alla minoranza italiana per via del peso che ­l’Italia poteva esercitare nell’UE sulla candidatura croata. Tutto questo a ulteriore dimostrazione di quanto gli atteggiamenti sul punto siano di tipo congiunturale più che sistemico e fortemente dipendenti dalle condizioni politiche del momento.

Molti altri Paesi prevedono legislazioni in tema di minoranze all’estero (cfr. ­Kántor 2006; Halász et al. 2004).29 Un altro caso emblematico è quello della ­Federazione russa, con la “legge sulle politiche in favore dei compatrioti all’estero” del 1999,30 che adotta una definizione estremamente ampia di compatrioti (соотечественник), tale da consentire una politica molto aggressiva nei confronti di tutti i Paesi dell’area ex sovietica. Dopo aver emblematicamente ricordato nel preambolo che la Federazione russa è il successore negli obblighi internazionali dello stato russo, della Repubblica russa, della Repubblica federativa socialista sovietica russa e (soprattutto, ndr) dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, la legge definisce compatrioti le persone “nate in uno Stato e in questo abitanti o residenti, che abbiano in comune una lingua, una religione, un’eredità culturale, tradizioni e costumi, nonché i loro discendenti diretti” (art. 1). L’art. 2 specifica che tra questi rientrano in particolare: “cittadini della Federazione russa stabilmente residenti fuori dal territorio russo; ex cittadini dell’Unione sovietica, residenti in Stati che erano parte dell’URSS e che sono diventati cittadini di quei Paesi o apolidi; persone emigrate dallo Stato russo, dalla Repubblica russa, dalla Repubblica federativa socialista sovietica russa, dall’Unione sovietica e dalla Federazione russa, che possedevano la cittadinanza del rispettivo Stato e che sono diventati cittadini dello Stato di residenza, o vi abbiano il permesso di soggiorno o siano diventati apolidi; discendenti delle persone sopra menzionate, ad eccezione dei discendenti delle persone appartenenti alle nazioni costitutive di quegli Stati”. Quest’ultima espressione vale a escludere i discendenti di cittadini ex sovietici che appartengano alle popolazioni maggioritarie negli Stati nati dalla dissoluzione dell’URSS (quindi armeni, ucraini, moldavi, estoni, georgiani, ecc.), includendo tuttavia tutti coloro che non solo siano appartenenti alle minoranze russe ma anche che intendano avvalersi della facoltà di appartenervi. L’art. 3 c. 2 specifica infatti che gli ex cittadini sovietici, gli emigrati e i discendenti di compatrioti possono scegliere liberamente di appartenere a questa categoria. In pratica, chiunque sia stato cittadino sovietico o sia discendente di chi lo sia stato, può in qualsiasi momento identificarsi quale compatriota e vedere il proprio status riconosciuto dalle autorità della Federazione russa (le modalità sono indicate nell’art. 4). A tutte queste persone la Federazione russa offre protezione “al fine di impedirne un trattamento difforme da quello garantito alle persone che risiedono nel territorio della Federazione russa o che abbiano il passaporto russo” (art. 5). La Russia attua queste politiche attraverso programmi di cooperazione con i Paesi in cui i compatrioti vivono, al fine di “supportarli negli ambiti dei diritti umani, dello sviluppo economico e sociale, della cultura, della lingua e dell’istruzione, nonché dell’informa­zione” (art. 13) (Kozin 2015, 291). Per chiudere il cerchio, l’art. 14 c. 5 prevede che “l’inosservanza da parte di uno Stato straniero dei principi e delle norme di diritto internazionale in tema di diritti umani e delle libertà fondamentali dei compatrioti costituisce la base, per le autorità russe, per intervenire con misure previste dal di­ritto internazionale per proteggere gli interessi dei compatrioti”. In forza di queste disposizioni, la Federazione russa è, come noto, intervenuta in maniera estensiva, talvolta anche militarmente, in diverse aree dello spazio ex sovietico.

Altre legislazioni prevedono forme di intervento a favore delle minoranze all’estero, aggiungendovi interessanti elementi simbolici. Un esempio significativo in proposito è il documento previsto dalla legge polacca del 2007 sulla cd. “carta polacca”. Non si tratta di un vero documento di identità, ma di un documento ufficiale rilasciato dalle autorità polacche ai “cittadini di origine polacca di Paesi ex sovietici” (dunque non, ad esempio, ai polacchi di Germania), che garantisce una serie di benefici in materia di accesso all’istruzione, ammissione al mercato del lavoro, concessione di visti (art. 6), questioni molto significative se si considera che la Polonia è (e già era al momento dell’approvazione della legge) un Paese dell’UE e la legge si applica a cittadini di molti Paesi terzi, tra cui in particolare l’Ucraina. La legge contiene una dettagliata definizione di chi possa considerarsi “di origine polacca”31 e stabilisce espressamente (art. 3) che il documento non sostituisce in alcun modo la cittadinanza polacca, non è valido per l’attraversamento delle frontiere né costituisce titolo per ottenere la residenza in Polonia, ed è accessibile solo a coloro che non possiedano la cittadinanza polacca. Il documento è tuttavia ufficiale, è rilasciato dalle autorità polacche e contiene i simboli della Polonia, in particolare lo stemma e la bandiera. Documenti simili sono rilasciati anche dalla Slovacchia agli slovacchi all’estero (legge 700/1997)32 e dalla Grecia ai cittadini albanesi di origine greca.33

A completamento della rassegna delle misure che gli Stati prendono a favore delle minoranze residenti all’estero va segnalato come in molti casi si tratti di forme organizzative, non necessariamente previste dalla legge, come in particolare l’istituzione di autorità competenti per queste comunità. Tra i numerosi esempi si pensi all’Armenia, che ha istituito un Ministero per la diaspora, o alla Turchia, che dal 2009 ha una Agenzia governativa per i turchi residenti all’estero, mentre in tanti ­Paesi (Slovenia, Romania, Moldova, ecc.) esistono direzioni specifiche nel Ministero degli esteri. Ma gli esempi sono tantissimi, e spesso cambiano al mutare delle priorità dei governi.34 Senza contare le innumerevoli attività di sostegno economico, specie per attività culturali, che come si è visto sono di regola ammissibili anche senza il consenso degli Stati interessati.

Vanno infine menzionate le attività poste in essere non da Stati ma da enti subnazionali, per il supporto delle persone originarie della regione e residenti all’estero ma anche per la promozione della cultura e finanche della politica regionale.35

5. Cittadinanza e “regola” dell’impatto

Quanto alla concessione della cittadinanza, questa rappresenta lo strumento più forte e invasivo della politica dei kin-States. Molto spesso la cittadinanza viene conferita (per nascita o per naturalizzazione) in virtù di una appartenenza etno-nazionale (ius sanguinis), e ciò talvolta accade anche nei confronti di residenti in altri Paesi,36 specie quando si tratti di gruppi di persone separate dalla madrepatria in virtù di eventi bellici. In assenza, come si è visto, di regole cogenti, la valutazione della legittimità delle azioni a supporto di minoranze all’estero – e tanto più dell’azione più forte, la concessione della cittadinanza – dipende quasi interamente dagli effetti che questa può avere sul rispetto di altri principi cogenti di diritto internazionale, quali le relazioni amichevoli tra Stati e il rispetto dell’integrità territoriale. Pertanto la medesima azione (la concessione della cittadinanza) può risultare più o meno problematica a seconda dei contesti e dunque illegittima o meno in base alle circostanze.37 Per questo la valutazione non può che avvenire caso per caso.38

Se ne ricavano due principali conclusioni. In primo luogo, l’attivismo da kin-­State è una prassi comune nel panorama comparato e, per quanto in via di principio problematico sul piano delle relazioni internazionali, non è di per sé illegittimo. Anzi, dall’analisi della prassi internazionale almeno in ambito europeo deve ritenersi in via di principio ammissibile, con la conseguenza che l’onere di provare l’illegittimità dell’azione intrapresa spetta allo Stato che vi si oppone. In secondo luogo, l’illegittimità dell’azione a favore di minoranze residenti all’estero dipende dagli effetti che questa ha sulle relazioni internazionali. E tali effetti dipendono da un’ampia serie di fattori, molti dei quali sono contingenti, politici e talvolta emozionali.

Come valutare quindi se un beneficio accordato da uno Stato a un determinato gruppo di persone residenti in un altro Stato lede o meno le relazioni di buon vicinato o anche il principio di non ingerenza? La risposta dipende sia dall’azione in sé sia dalla reazione dello Stato i cui cittadini sono interessati dalla misura. Trattandosi in buona parte di diritto ancora da scrivere sul piano internazionale, quanto più uno Stato si attivi con misure extraterritoriali, tanto più le rende accettabili in via di prassi, come si è visto in base al forte aumento delle misure adottate in Europa nel primo ventennio del nuovo secolo. Per contro, e di conseguenza, quanto più uno Stato che sia oggetto di queste misure vi si opponga, tanto più esso rende l’azione una violazione delle relazioni di buon vicinato. In altre parole, una politica “aggressiva” nei confronti di vicini pacifici può paradossalmente risultare più ammissibile di una politica meno invasiva che si rivolga a Stati più reattivi. Per questo motivo tutte le azioni extraterritoriali verso minoranze residenti all’estero hanno un intrinseco potenziale di conflitto.

Per le stesse ragioni è praticamente impossibile stabilire a priori l’impatto di una misura promozionale per minoranze all’estero sulle relazioni internazionali – e dunque la sua legittimità o meno. Certo, il contesto è conoscibile e conosciuto e le reazioni sono in gran parte prevedibili. Ad esempio, la concessione in massa della cittadinanza russa ai residenti di territori separatisti e di fatto indipendenti dell’ex Unione sovietica, con conseguente sostegno militare da parte di un esercito potente contro Paesi più deboli giustificato con l’obbligo di proteggere i propri cittadini contro violazioni dei loro diritti da parte dello Stato di residenza39, rappresenta in tutta evidenza una pesante intrusione negli affari interni e una minaccia all’integrità territoriale dei Paesi in questione. In modo incommensurabilmente maggiore, ad es., della concessione della cittadinanza irlandese ai cittadini statunitensi di origine irlandese. Per contro, la concessione di borse di studio a persone residenti all’estero sulla base di criteri linguistico-culturali ha chiaramente un impatto assai minore, e può anzi addirittura favorire le buone relazioni tra i Paesi in questione. Ma questo non significa poter sempre astrattamente stabilire ciò che è legittimo e ciò che non lo è. Perché, ad esempio, non viene generalmente considerato problematico l’art. 87 della costituzione francese, che obbliga lo Stato a cooperare con altri Stati e popoli francofoni,40 mentre altre disposizioni potenzialmente più soft lo sono di più? 41

La valutazione dell’impatto sui rapporti internazionali può in ogni caso basarsi anche su alcuni criteri di natura giuridica, e non solo sulle reazioni politiche. Due sono in particolare i criteri giuridici che vengono in rilievo. Il primo è il giudizio di bilanciamento, basato sui consolidati test di proporzionalità e di ragionevolezza, che impone di trovare un equilibrio tra la legittima volontà di uno Stato di promuovere determinate minoranze residenti all’estero, il diritto di tali minoranze a “sviluppare la propria identità etnica, culturale, linguistica o religiosa […] anche al di là dei confini” 42 e il diritto dello Stato in cui tali minoranze risiedono di mantenere la primaria responsabilità per la protezione dei diritti di quelle minoranze, oltre a salvaguardare la propria integrità territoriale (Vieytez 2009). Il giudizio di bilanciamento impone pertanto di valutare fattori quali, ad esempio, la consistenza numerica della minoranza in questione (in relazione sia allo Stato di appartenenza, sia al territorio di insediamento: quanto più consistente è il gruppo di potenziali beneficiari, tanto più problematica può diventare la misura), la storia di un territorio (se vi sono ad es. forti spinte secessionistiche o per la riunificazione con lo Stato che adotta la misura), e non ultimo il grado di tutela che lo Stato di residenza garantisce alle minoranze in questione (se la tutela è elevata, la necessità di una “supplenza” da parte del kin-­State è meno giustificata).

Il secondo criterio di valutazione di tipo giuridico riguarda la procedura, che è lo strumento per rendere concreti e operativi principi altrimenti generici quali i rapporti di buon vicinato. La medesima azione può risultare legittima o illegittima in base al procedimento seguito per la sua adozione, perché a seconda delle modalità cambia l’impatto sui rapporti tra Stati. Ad esempio, la legge sulle minoranze ungheresi all’estero e la legge sulla “carta polacca” sono piuttosto simili nei contenuti, ma il loro impatto sui rapporti internazionali è stato profondamente diverso a causa delle diverse modalità di approvazione: la prima è frutto di una azione unilaterale, la seconda è stata invece discussa con i Paesi vicini, e la Polonia ha organizzato diversi incontri con le autorità dei Paesi interessati per discutere l’impatto della misura sulle relazioni bilaterali.43

6. Conclusioni

La prassi dell’ultimo trentennio, seguita alla riconfigurazione dell’Europa dopo la caduta del muro di Berlino, è andata verso un aumento, non una diminuzione, della centralità del criterio etno-nazionale per l’identificazione degli Stati (si pensi emblematicamente alla legge israeliana sullo Stato nazionale del 2018) e dei criteri per l’appartenenza ad essi, in modo diretto (cittadinanza) o indiretto (forme di colle­gamento con non cittadini basate su legami culturali, linguistici, religiosi, ecc.). Soprattut­to col nuovo millennio, con l’attenuarsi dell’influenza delle organizzazioni internazionali che negli anni ’90 hanno portato le questioni legate alle minoranze sul piano multilaterale, sono pertanto aumentate le politiche poste in essere da kin-States in relazione a minoranze residenti all’estero sulla base di criteri di appartenenza etnica. A tale aumento non ha fatto seguito un corrispondente consolidamento della disciplina internazionale in tema di benefici che possono essere accordati a minoranze residenti all’estero, e questo per una deliberata volontà degli Stati che preferiscono mantenersi le mani libere nel porre in essere queste politiche o eventualmente nel contestarle quando rivolte a propri cittadini.

Ciò non significa che il diritto internazionale lasci queste azioni alla completa discrezionalità degli Stati. Non solo esistono atti di soft law che sviscerano in dettaglio le diverse ipotesi, ma vi sono diversi criteri che possono essere impiegati per valutare la legittimità delle azioni intraprese. Resta però il fatto che, come in molti altri ambiti del diritto internazionale, la sanzionabilità delle azioni illegali dipende dalle condizioni di fatto. Così ad esempio l’illegittima annessione russa della Crimea e il supporto attivo (politico, militare e non ultimo attraverso i passaporti) alle autoproclamate repubbliche popolari del Donbass nel sud-est dell’Ucraina hanno condotto al massimo a qualche sanzione economica. E le medesime attività nei confronti di altri territori quali la Transnistria, l’Abkhazia o l’Ossezia del sud non hanno prodotto neppure quelle.

In generale, le azioni poste in essere dai kin-States sono tanto più problematiche quanto più impattino sulla condizione giuridica dei cittadini di altri Paesi. Quindi ad esempio la concessione della cittadinanza in massa incontra una presunzione di illegittimità maggiore di quanto accada alla concessione di permessi di lavoro o di soggiorno, che a sua volta richiede una giustificazione maggiore rispetto alla concessione di borse di studio. La problematicità va misurata anche sulla base dell’impatto che la misura ha sulle relazioni tra i Paesi interessati, tenuto conto di variabili quali il contesto geopolitico, i numeri, la storia e soprattutto il procedimento (quanto più unilaterale, tanto meno legittimo) e più in generale la buona fede del kin-State ­(Jackson-Preece 1998).

La prassi comparata mostra altresì che esiste la possibilità di ricorrere a strumenti di diversa gradazione. Esistono in particolare dei surrogati della cittadinanza, come i documenti che certificano l’appartenenza alla comunità etnico-culturale-nazionale, associati ad alcuni benefici, che garantiscono un riconoscimento ufficiale del legame tra kin-State e minoranza senza presentare però i problemi che sorgono con la concessione della cittadinanza. Se l’obiettivo è dimostrare il legame di natura etnica con la madrepatria, un simile documento soddisfa il criterio senza necessariamente impattare sulla convivenza e le relazioni di buon vicinato tra Stati. Si tratta di una misura di cui nell’assai poco articolato dibattito intorno al cd. doppio passaporto per tedeschi e ladini dell’Alto Adige non si è mai discusso, e che potrebbe forse rappresentare una eventuale via compromissoria qualora il tema restasse di attualità.

Note

1 Una riflessione a parte meriterebbero gli aspetti mediatici e di comunicazione legati alla vicenda, per come il tema si è imposto nel dibattito politico e pubblico. La questione del doppio passaporto è stata tra le più importanti nell’agenda politica recente, pur non avendo mai realmente raggiunto un grado di concretezza tale da giustificare la grande attenzione che ha avuto. Specie da quando è caduto il governo ÖVP-FPÖ in Austria, nel maggio 2019, l’attualità è venuta completamente meno, ma per supplire a questo vuoto politico i sostenitori dell’iniziativa hanno saputo tenere alta l’attenzione sul punto, in questo agevolati da un sistema mediatico che ha fatto da grancassa, ben oltre i circoli di sostenitori. Questo aspetto appare di importanza forse ancora maggiore rispetto a quello della fattibilità giuridica e delle eventuali controproposte, e richiederebbe un approfondimento adeguato, perché solo comprendendo realmente come i temi riescano ad imporsi indipendentemente dalla loro rilevanza è possibile cogliere il funzionamento delle dinamiche sociali. Per una prima valutazione cfr. Pallaver 2018.

2 Per quanto “discutendo costantemente eventuali passi in avanti con il Governo italiano e la Giunta della Provincia di Bolzano”, come specificato successivamente dal Ministero competente (cfr. Parlamentsdirektion 2017)

3 Numerosi sono stati i pareri che il Governo di Vienna ha espresso in passato in relazione alla proposta. Si veda in particolare la relazione resa al Nationalrat dal Ministero dell’Interno in occasione dell’iniziativa legislativa popolare per la doppia cittadinanza presentata da Eva Klotz ed altri (Bundesministerium für Inneres 2011). Il Ministero sottolineava un aspetto sempre rimasto in ombra nelle discussioni in merito, il fatto che ai sudtirolesi (coloro che hanno perso la cittadinanza austriaca a seguito dell’annessione all’Italia e i loro eredi) è già concessa la possibilità di ottenere la cittadinanza austriaca ai sensi della legge sulla cittadinanza, previa rinuncia di quella italiana e nel possesso dei requisiti previsti dalla legge. A seguito di una successiva analoga iniziativa (Bürgerinitiative Nr. 7/BI: “Österreichische Staatsbürgerschaft für Süd-Tiroler”) fu insediata nella commissione esteri del Natio­nalrat una sottocommissione per approfondire la questione, che non ha mai raggiunto un risultato condiviso (cfr. Parlamentsdirektion 2016).

4 Legge federale 25 gennaio 1979 “sull’equiparazione dei sudtirolesi ai cittadini austriaci in specifici ambiti amministrativi“. La legge fornisce al § 1 c. 1 una definizione dei beneficiari: “persone di lingua tedesca o ladina, nate nella provincia di Bolzano, che si siano dichiarate appartenenti al gruppo linguistico tedesco o ladino e che non possiedano la cittadinanza austriaca”.

5 Cosa peraltro fatta dall’Italia nel 2009. Va inoltre ricordato che la successiva Convenzione europea sulla nazionalità del 1997 ha cambiato approccio, non più negativo a priori nei confronti delle cittadinanze multiple. Tuttavia tra le ipotesi in cui la Convenzione consiglia il ricorso alla doppia cittadinanza non rientra il caso di minoranze nazionali.

6 È interessante notare, al di là delle diverse “scaramucce” diplomatiche sul punto che hanno evidenziato la assoluta contrarietà del Governo italiano rispetto alla proposta, la vicenda sorta in occasione dell’approvazione della nuova legge federale sulla protezione consiliare. La proposta originaria prevedeva la possibilità che l’Austria potesse garantire protezione consolare anche a non cittadini qualora sussistesse un obbligo di natura internazionale o comunitaria, oppure nell’esercizio di un ruolo di potenza tutrice già previsto. Chiaro dunque il riferimento all’Alto Adige. Dopo le proteste del Governo italiano, che ha fatto notare l’inconsistenza della proposta rispetto alla normativa europea sulla protezione consolare, la proposta è stata ritirata.

7 Probabilmente questi secondi sarebbero in maggioranza, stando a quanto emerso dal sondaggio effettuato per conto della Gaismair Gesellschaft e su cui si rinvia a Haller/Atz/Pallaver in questo numero.

8 Sono diversi i Paesi che vietano a chi possieda anche la cittadinanza di un altro Stato di ricoprire cariche pubbliche, in particolare di natura rappresentativa, come sedere in Parlamento o ricoprire cariche di governo. Si pensi a Paesi in cui sono molto frequenti le cittadinanze multiple, come l’Australia o come, in Europa, la Moldova. Si pensi poi alla cd. “guerra dei passaporti” tra Ungheria e Slovacchia, con il divieto previsto per i cittadini slovacchi (appartenenti alla minoranza ungherese) che prendano la cittadinanza ungherese di ricoprire cariche pubbliche.

9 Tra gli atti multilaterali si vedano in particolare il cd. Documento di Copenhagen della (allora) CSCE (specie par. 30 ss.) e la Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa per la tutela delle minoranze ­nazionali (specie preambolo e art. 1). Molti sono poi i trattati bilaterali che prevedono meccanismi specifici per la bilateralizzazione dei rapporti relativi alle minoranze (cfr. Bloed/Van Dijk 1999; ­Lantschner/Medda-Windischer 2001/2002,; Lantschner 2004).

10 L’espressione kin-State (Stato parente) non è scevra da contraddizioni. Non è chiaro se, ad esempio, una comunione storica, o religiosa, o linguistica ma non etnica (si pensi ai russofoni in molti ­Paesi ex sovietici), possa considerarsi parte del concetto. Come affermato da Hilpold/Perathoner (2006, 26, traduzione dell’autore), “il concetto di kinship è fortemente condizionato da aspetti emotivi e da un approccio soggettivo ad un fenomeno che ha comunque trovato spazio anche in categorie giuridiche”. Per una tipologia degli approcci dei vari kin-States cfr. Sabanadze 2006.

11 Quanto maggiore è la tutela garantita alle minoranze dallo Stato di residenza, tanto meno si giustifica la necessità per il kin-State di intervenire a sostegno dei diritti di tali minoranze.

12 Come affermato dalla Commissione di Venezia nel citato rapporto sulla legge ungherese, gli Stati possono adottare provvedimenti che coinvolgano cittadini stranieri anche senza il previo consenso dello Stato di cittadinanza solo in quanto “gli effetti di queste leggi o regolamenti restino all’interno dei propri confini” ( Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa 2001, 15). In caso contrario, anche lo Stato di residenza deve in qualche modo essere coinvolto nell’adozione del provvedimento. Per la Commissione di Venezia, la consuetudine internazionale opera infatti nel senso di presumere che l’azione unilaterale con effetti extraterritoriali rappresenti una violazione del principio di non ingerenza.

13 L’art. D della costituzione voluta da Orban nel 2011 recita: “Bearing in mind that there is one single Hungarian nation that belongs together, Hungary shall bear responsibility for the fate of Hungarians living beyond its borders, and shall facilitate the survival and development of their communities; it shall support their efforts to preserve their Hungarian identity, the assertion of their individual and collective rights, the establishment of their community self-governments, and their prosperity in their native lands, and shall promote their cooperation with each other and with Hungary”.

14 Art. 9.2. cost.: “The Republic of Albania takes care of the recognition and observation of the national and democratic rights of the Albanians residing outside the state borders of the Republic”.

15 Art. 10 cost.: “The Republic of Croatia shall protect the rights and interests of its citizens living or residing abroad, and shall promote their links with the homeland. Parts of the Croatian nation in other states shall be guaranteed special concern and protection by the Republic of Croatia”.

16 Art. 2 cost., come modificato nel 1998, afferma tra l’altro “Furthermore, the Irish nation cherishes its special affinity with people of Irish ancestry living abroad who share its cultural identity and heritage”.

17 Art. 13.1 cost.: “The State of Lithuania shall protect its citizens abroad”.

18 Art. 49 cost: “1. The Republic cares for the status and rights of those persons belonging to the Macedonian people in neighbouring countries, as well as Macedonian expatriates, assists their cultural development and promotes links with them. 2. The Republic cares for the cultural, economic and social rights of the citizens of the Republic abroad”.

19 Art. 6.2 cost.: “The Republic of Poland shall provide assistance to Poles living abroad to maintain their links with the national cultural heritage”.

20 Art. 7 cost.: “The State shall support the strengthening of links with the Romanians living abroad and shall act accordingly for the preservation, development and expression of their ethnic, cultural, linguistic and religious identity, with the observance of the legislation of the State whose citizens they are”.

21 Art. 61.2 cost.: “[t]he Russian Federation shall guarantee to its citizens protection and patronage abroad.”

22 Art. 13 cost.: “The Republic of Serbia shall protect the rights and interests of its citizens [...] abroad. The Republic of Serbia shall develop and promote relations of Serbs living abroad with the kin-State”.

23 Art. 7a cost.: “[t]he Slovak Republic shall support the national consciousness and cultural identity of Slovaks living abroad, shall support their institutions established to achieve this goal and their relations with the homeland”.

24 L’art. 5 cost., dopo aver affermato che “[the state] shall protect and guarantee the rights of the autochthonous Italian and Hungarian national communities”, stabilisce che “[the State] shall maintain concern for autochthonous Slovene national minorities in neighbouring countries and for Slovene emigrants and workers abroad and shall foster their contacts with the homeland”.

25 Art. 12 cost.: “Ukraine provides for the satisfaction of national and cultural, and linguistic needs of Ukrainians residing beyond the borders of the State”.

26 L’art. 15 c. 3 cost. prevede che “i cittadini dei Paesi di lingua portoghese possono ottenere, in conformità al diritto internazionale e a condizione di reciprocità, diritti altrimenti non riconosciuti agli stranieri”.

27 In Austria ad es. si discute da tempo dell’inclusione di una clausola relativa al ruolo della Repubblica come potenza tutrice nei confronti dell’Alto Adige, finora senza successo. In Italia la costituzione è stata modificata nel 2001 per garantire seggi riservati agli italiani all’estero (art. 56 e 57).

28 Per una comparazione tra questa legge ed altre analoghe in Europa cfr. Halász/Majetenyi (2002).

29 Per un altro esempio controverso cfr. il Rapporto della Commissione di Venezia sulla proposta di legge romena sul sostegno ai romeni resident all’estero, CDL (2004)053.)

30 Legge federale 99-ФЗ О государственной политике Российской Федерации в отношении соотечественников за рубежом. Nella versione originaria del 1999 la legge era semplicemente “sui compatrioti”, ed è stata modificata in diverse occasioni, da ultimo nel 2013 (legge federale 203-ФЗ).

31 Ai sensi dell’art. 2 della legge le persone di origine polacca sono coloro che “si dichiarino appartenenti alla nazione polacca e soddisfacciano le seguenti condizioni: 1) dimostrino il loro collegamento con la nazione polacca attraverso una conoscenza almeno minima della lingua polacca, che essi considerino la lingua nativa, e attraverso la conoscenza e la celebrazione delle tradizioni polacche; 2) rendano una dichiarazione scritta di appartenenza alla nazione polacca; 3) dimostrino che almeno uno dei genitori o dei nonni o almeno due bisonni siano stati polacchi o in possesso della cittadinanza polacca [interessante la distinzione tra la cittadinanza e l’etnia, nda] o presentino la documentazione di una organizzazione polacca o di cultura polacca attiva nel territorio di uno dei Paesi [dell’ex Unione sovietica] che dimostri la partecipazione attiva alla promozione della lingua e alla cultura polacca o della minoranza polacca nel corso degli ultimi tre anni”.

32 Legge 70/1997, che prevede la concessione del “documento dell’espatriato” con relative benefici in termini di visti e permessi di soggiorno.

33 Decreto ministeriale congiunto n. 4000/3/10/e dei Ministeri dell’Interno, degli Affari esteri e del ­Lavoro del 15/29 aprile 1998 sulle condizioni, la durata e il procedimento per l’ottenimento della carta di identità speciale per gli albanesi di origine greca.

34 In Italia nella legislatura 2001-2006 è stato istituito ad es. il ministero senza portafogli per gli italiani nel mondo.

35 A seguito della crisi catalana ad es. è stato inizialmente chiuso e poi riaperto ma ridimensionato il servizio ‘diplomatico’ della Generalitat catalana (DiploCat), accusato dal governo di Madrid di promuovere non solo lingua e cultura catalana, ma anche l’agenda separatista del governo regionale.

36 Gli esempi sono innumerevoli. Tra i casi più studiati si pensi all’art. 116 della Legge fondamentale tedesca, in base a cui “se non diversamente disposto con legge, è tedesco ai sensi della presente Legge fondamentale una persona che possieda la cittadinanza tedesca o che sia stata ammessa nel territorio del Reich nei confini del 31 dicembre 1937 in qualità di rifugiato di origine etnica tedesca o in qualità di coniuge o discendente di tali persone”. Ancora più controversa è la legge israeliana sul ritorno (1950), che stabilisce che Israele è la patria non solo degli abitanti di quello Stato, ma anche di tutti gli ebrei del mondo, così facilitando e promuovendo la naturalizzazione e l’immigrazione di persone di origine ebraica.

37 Ricorda Csergo (2005) che “the large-scale granting of multiple citizenship to non-resident members of external minorities holds the potential to disrupt current notions of political community. The examples of Croatia and Romania are suggestive. Newly independent Croatia with a population of approximately four and a half million adopted a citizenship law in 1993 that granted citizenship rights to ethnic Croatians abroad that number approximately 4 million people. Ethnic Croats outside Croatia today vote in general elections and hold reserved seats in the Croatian parliament. Romania changed its citizenship law in 2003 to grant citizenship, regardless of residence or intention to “repatriate,” to those who held Romanian citizenship before December 22, 1989 or their descendants who lost their citizenship involuntarily. Thousands of ethnic Romanians in Moldova voted in the highly-contested 2004 Romanian elections. Although “dual” voting rights may render more resources to minorities, this practice may also contribute to a sense of lost political power by those citizens who live in the country in which elections take place and have no equivalent “cross-voting” possibilities. This situation increases the potential for division among societies that kin-state policies propose to bridge.”

38 Questa è la ratio che sta alla base del principio n. 11 delle Raccomandazioni di Bolzano/Bozen, secondo cui “States may take preferred linguistic competencies and cultural, historical or familial ties into account in their decision to grant citizenship to individuals abroad. States should, however, ensure that such a conferral of citizenship respects the principles of friendly, including good neighbourly, relations and territorial sovereignty, and should refrain from conferring citizenship en masse, even if dual citizenship is allowed by the State of residence.” (OSCE High Commissioner on National Minorities 2008, n. 11)

39 Sulla controversa questione della cd. “responsabilità di proteggere” (R2P) e sui suoi possibili collegamenti con la tutela delle minoranze nelle relazioni internazionali cfr. Spiliopoulou Åkermark 1997; Hilpold 2006; Kemp 2006; Welsh 2004.

40 “La République participe au développement de la solidarité et de la coopération entre les États et les peuples ayant le français en partage.”

41 Ad es. il menzionato art. 116 della Legge fondamentale tedesca. Va inoltre ricordato che prima della riunificazione tedesca del 1990 il Preambolo della Legge fondamentale stabiliva che Grundgesetz era stato scritto “anche per conto di quei tedeschi cui è stata impedita la partecipazione alla rifondazione dello Stato tedesco, cfr. Halasz/Majtenyi 2002, 136.

42 Così l’art. 17 della Convenzione Quadro per la tutela delle minoranze nazionali.

43 La consultazione non significa automaticamente che i Paesi interessati siano d’accordo. Nel caso della legge polacca, ad esempio, la Bielorussia ha protestato in modo vibrante contro l’introduzione della Carta polacca, accusando la Polonia di destabilizzare le relazioni tra le minoranze all’interno della Bielorussia, creando diverse categorie di cittadini e minando la stabilità sociale.

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Costituzioni consultate (03.03.2020)

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Croazia: Costituzione della Repubblica di Croazia
https://www.constituteproject.org/constitution/Croatia_2013?lang=en

Federazione Russa: Costituzione della Federazione Russa
https://www.constituteproject.org/constitution/Russia_2014?lang=en

Francia: Costituzione della Repubblica Francese
https://www.constituteproject.org/constitution/France_2008?lang=en

Germania: Legge Fondamentale Tedesca
https://www.constituteproject.org/constitution/German_Federal_Republic_2014?lang=en

Irlanda: Costituzione d’Irlanda
https://www.constituteproject.org/constitution/Ireland_2015?lang=en

Italia: Costituzione della Repubblica Italiana
https://www.constituteproject.org/constitution/Italy_2012?lang=en

Lituania: Costituzione della Repubblica Lituana
https://www.constituteproject.org/constitution/Lithuania_2006?lang=en

Macedonia del Nord: Costituzione della Repubblica della Macedonia del Nord
https://www.constituteproject.org/constitution/Macedonia_2011?lang=en

Polonia: Costituzione della Repubblica di Polonia
https://www.constituteproject.org/constitution/Poland_2009?lang=en

Portogallo: Costituzione politica della Repubblica Portoghese
https://www.constituteproject.org/constitution/Portugal_2005?lang=en

Romania: Costituzione della Romania
https://www.constituteproject.org/constitution/Romania_2003?lang=en

Serbia: Costituzione della Repubblica di Serbia
https://www.constituteproject.org/constitution/Serbia_2006?lang=en

Slovacchia: Costituzione della Repubblica Slovacca
https://www.constituteproject.org/constitution/Slovakia_2017?lang=en

Slovenia: Costituzione della Repubblica di Slovenia
https://www.constituteproject.org/constitution/Slovenia_2016?lang=en

Ucraina: Costituzione dell’Ucraina
https://www.constituteproject.org/constitution/Ukraine_2016?lang=en

Ungheria: Legge Fondamentale dell’Ungheria
https://www.constituteproject.org/constitution/Hungary_2016?lang=en

Leggi citate (03.03.2020)

Consultare il sito https://www.legislationline.org/about/

Siti web/Documenti vari (03.03.2020)

Bürgerinitiative Nr. 7/BI: “Österreichische Staatsbürgerschaft für Süd-Tiroler” https://www.parlament.gv.at/PAKT/VHG/XXV/BI/BI_00007/index.shtml

Commissione di Venezia 2004 https://www.venice.coe.int/WebForms/pages/?p=01_Presentation&lang=IT

Convenzione europea per la riduzione dei casi di cittadinanza multipla del 1963 https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/043

Convenzione europea sulla nazionalità del 1997 https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/
conventions/treaty/166

Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa per la tutela delle minoranze nazionali https://rm.coe.
int/168007cdd0

Documento di Copenaghen CSCE https://www.osce.org/odihr/elections/14304?download=true

Raccomandazioni di Bolzano/Bozen https://www.osce.org/hcnm/bolzano-bozen-recommendations?download=true